giovedì 19 maggio 2011

"Il compleanno".





Dalla sua bocca carnosa, un violento sputo catarroso da fumatore raggiunse terra e si confuse nell'erba.
Con l'avambraccio si asciugò le labbra e proseguì il suo ragionamento.
Carlo, non riusciva minimamente a spiegarsi cosa gli stesse succedendo.
Stava seduto all'ombra di un grande tiglio con le gambe incrociate.
I suoi riccioli neri e folti si lasciavano pettinare dal vento e proprio sul lato sinistro della nuca, si era formata una zona di vuoto causata dal forte fiato asciutto e caldo di Luglio.
Come quando un elicottero atterra su di un prato con l'erba alta.
L'effetto sembrava lo stesso.
Domande su domande gli riempivano la testa.
Una mosca, disegnava intriganti traiettorie davanti alle sue mani.
Quando questa, beata, si posò su di un giallo fiore di campo con il cuore amaranto e dallo stelo storto e solo alla base dritto, Carlo, avvicinò la sua lunga mano e la aprì sul fiore. Come se la sua mano fosse la bocca vorace di un leone davanti alla sua preda.
Immobile, chiuse gli occhi per concentrarsi meglio e repentinamente strinse il pugno per catturare e divorarsi la sua vittima.
Mancata.
La mosca riprese a fluttuare leggera nell'aria e sembrava non fosse stata minimamente impaurita dal gesto del ragazzo.
Carlo, si sentiva come la mosca all'ombra della sua mano.
Pronto a scappare per non farsi uccidere, attendeva un gesto del suo aguzzino per mettersi in fuga.
Ma di chi fosse quella mano della quale sentiva l'agrodolce odore, non lo sapeva.
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni del tabacco e una cartina.
Preparò il tutto e accese la sigaretta.
Il fumo, gli dava un aspetto mistico e aveva trasformato quella sua esile figura in un qualcosa di astratto ma allo stesso modo lussureggiante e signorile.
Fisicamente, non era più un bambino ma un uomo quasi fatto.
Con tanto di barba e sguardo da pensatore.
Il suo sguardo e quei suoi occhi verdi come l'acqua di un fiume profondo, erano velati da un sottile strato di inquietudine e tristezza che lo facevano sembrare vecchio e malandato.
Spense la sigaretta e si alzò in piedi.
Si stiracchiò e uno svarione lo obbligò a risedersi a terra.
Fu distratto dal passaggio di un superleggero che silente tagliava l'etere.
Il sole, rifletteva la struttura argentea del veicolo e lo faceva brillare nel cielo azzurro del pomeriggio toscano.
Carlo, credeva di aver affrontato e risolto, una dopo l'altra, le problematiche che in passato lo avevano tormentato e proprio non riusciva ad arrivare alla radice di quel suo rinnovato malessere.
In più di un occasione, in passato, trovandosi arreso, convenne che il vero problema consistesse nel fatto che non ci fosse soluzione.
Poi la soluzione fu trovata e conseguentemente anche la pace.
Un filo di formiche, procedeva veloce verso una direzione a lui sconosciuta.
Carlo, si chinò su di esse per osservarle e le parevano felici con quei semini rubati alla natura, utilizzati come provvista per l'inverno.
Quali fossero le sue provviste per l'inverno, invece, a Carlo, ancora non era chiaro.
La maturità scolastica e fisica da poco conquistate, si contrapponevano a quel suo spirito errante alla ricerca di se stesso.
Anima perduta in pensieri irrazionali che lo facevano sentire lontano dalla realtà e quindi incapace di affrontarla.
Il problema consisteva forse nella scelta che doveva fare?
Studiare o lavorare?
In lui, combattevano tra di loro, opinioni differenti su quello che avrebbe voluto fare.
Lasciarsi trasportare come una foglia secca a Novembre da quello che il fato sicuramente gli avrebbe riservato?
Voler far tutto e per questo non fare niente?
Ci pensava.
Ma no, la sua scelta l'aveva fatta.
Studiare.
Iscriversi all'università e diventare professore di storia.
A settembre, avrebbe iniziato gli studi e si sarebbe arrangiato con qualche lavoretto per campare.
Oppure lavorare?
Entrare nel calzaturificio del padre ed occuparsi dei disegni per i nuovi modelli di scarpe o magari dedicarsi alla ricerca di nuovi tessuti.
No, non lo stimolava a sufficienza.
Avrebbe voluto studiare.
Dentro di sé, Carlo aveva tutto chiaro.
Professore di storia, questo voleva diventare.
Non gli interessavano le proposte del padre, le critiche a quello che avrebbe voluto fare o i dubbi, suoi personali o dei suoi familiari.
Il problema non era quello.
La scelta, era un qualcosa di materiale che non aveva la potenza di tormentarlo.
Il problemi di quel pomeriggio, erano altri.
Di tutt'altra entità e appartenenza.
Nelle logiche che forse, logiche lo erano solo a lui, quel pomeriggio non riusciva a far chiarezza.
Magari era proprio la meta-fisicità di quel problema a tormentarlo.
Il fatto di non avere un qualcosa di tangibile da affrontare e accusare per quel rinnovato malessere lo faceva tormentare maggiormente.
Confusione, disordine e quindi sgomento.
Nuove ansie si erano presentate al cospetto della sua anima.
Si sentiva il galleggiante di una lenza al cui amo è abboccato un pesce.
Tirato verso l'alto da un orgoglioso pescatore che non vuol perdere la sua cena e allo stesso modo spinto verso il fondale più profondo dallo spirito eroico di un pesce che non vuol lasciarsi vincere.
Lui, era là in mezzo. In certi tratti annegava e in altri poteva respirare a polmoni aperti.
In quel momento, stava vincendo il temerario pesce.
Gli sarebbe basto starsene semplicemente a galla, magari libero da una lenza che implica guerra o battaglia.
Si era fatta sera, a casa lo aspettavano per festeggiare il suo compleanno.
C'erano i parenti a cena.
L'imbrunire invase il paesaggio.
In fondo alla valle, alcuni ragazzi nuotavano nudi nel lago e urlavano come pazzi per una qualche gioia.
Demoniaca giornata, pensava, camminando a testa china verso casa.
Proprio davanti al portone dai pomelli di ottone, frugandosi in tasca alla ricerca delle chiavi, sentì il richiamo della scala .
Entrato che fu nell'androne, la scalinata in pietra serena che aveva sceso e salito migliaia di volte in tutta la sua vita, lo guardò negli occhi e sembrò imprecarlo di sedersi davanti a lei.
Sedersi ad ascoltare quello che gli stava per dire.
Non poteva dire di no alla sua scala e si sedette.
La scala, è la sirena buona che con le sue dolci parole più volte lo aveva aiutato.
Dopo un secondo, sua madre aprì la porta di casa e vedendo il figlio gli disse: “Carlo, ma cosa stai facendo seduto laggiù? Dai, è pronto vieni a tavola che ti stiamo aspettando.”
Entrò in casa con un falso sorriso.
Pacche sulle spalle e baci al tiramisù gli davano gli insulti di vomito.
Sperava che tutto finisse presto per potersi sedere davanti alla scala in pietra serena che forse aveva capito quel suo dolore.
Sicuramente lo aveva capito, bastava la pressione esercitata dai piedi di Carlo ad ogni scalino per renderla conscia di quale fosse il suo stato d'animo.
Crostini, lasagne, roastbeaf, patate al forno e tiramisù.
Il menù delle grandi feste, della sua festa.
Tavola imbandita con piatti e sottopiatti, bicchieri e bicchierini.
Il regalo più bello gli fu fatto da sua zia: un cactus in un vaso rosso che si curò di posizionare in camera.
Salutati tutti con la banale scusa di aver fissato con gli amici, Carlo uscì di casa e si sedette in fondo alla scala nel silenzio e nella penombra.
“Dimmi scala, dimmi.. .”
Con le mani ad annaspare nella folta chioma, si mise in ascolto della scala.
Poi, eccola che parla dal suo profondo odore di terra e di Toscana.
“Carlo.. Carlo.. Perché ti tormenti così? Ognuno ha momenti in cui tutto sembra sbagliato, in cui la tristezza diventa padrona del' essere e destabilizza.
Oggi è il giorno del tuo compleanno, ormai sei un uomo e cerca di non pensare troppo a quella sensazione opprimente che ti ammanta.
Non c'è nulla che non va, è la vita che alterna pioggia e sole.
É giusto che sia così, in giornate come questa che hai appena affrontato, ti sei reso conto che stai diventando grande, ti è servita per fermarti e riflettere.
Vorresti essere uno di quelli che sorride sempre?
Sai benissimo dove il riso abbonda...
Ti ricordi l'ultima volta che ci siamo parlati?
Eri in preda ai tormenti psicologici dell'adolescenza e io ti dissi che tutto sarebbe passato crescendo. Tu, mi dicesti che avresti voluto crescere presto.
Ora che sei cresciuto, ti dico che certe sensazioni vanno accettate e rispettate.
Servono ad ogni uomo per fermarsi e riflettere.
Sei una persona intelligente ed ora, io, ti tratto per quello che sei: un adulto.
La panacea per queste cose non esiste, sono cose normali e devi farne tesoro.
Goditi il giorno del tuo compleanno, ora divertiti e vivi. ”
Sollevato dalle parole della scala, ne fece tesoro e si tranquillizzò.
La lenza, sembrò essersi finalmente strappata.
Di fretta salì gli scalini a due a due e aprì la porta di casa.
“Carlo, ti sei dimenticato qualcosa?”
“No mamma, sono venuto a ringraziarvi tutti per esser stati qui a festeggiare il mio compleanno. Grazie zio e grazie zia. Prima non vi ho neanche salutato.
Ciao, grazie a tutti.”
Si tirò dietro la porta e scese nuovamente le scale.
Raggiunse gli amici, era il suo compleanno avrebbe deciso lui cosa fare quella sera.
Si diressero al lago e si gettarono nell'acqua nudi, a nuotare.
Sospeso a braccia aperte in mezzo al lago, sorretto da eureka, si sentì leggero come una mosca.
Come la mosca.
L'acqua fredda del lago, gli aveva levato da dosso anche quell'agrodolce tanfo che sentiva su di sé.
Galleggiava e si sentiva grande.
La stella polare fissata in cielo, osservata facendo il morto, lo fece sentire parte di un universo che da quel giorno, avrebbe affrontato da adulto.
Buon diciannovesimo compleanno Carlo.

sabato 14 maggio 2011

"Ho finito".



“Là, ero seduto laggiù. Non sono certo però, ora sono
confuso.

Spiegami quello che è successo.

Anche solo con un gesto, mi basta un' espressione del tuo
volto per capire.

Adesso che succederà?

Ho finito?

Sei tu?

Io chi sono?

Parlami, toccami e dimmi che sono qui con te.

É Tutto finito?

Ti ho trovata?

Sarà davvero l'ultima?

Che ore sono adesso?

Sei tu davvero?

Ero là e d'un tratto mi trovavo perduto nella nebbia, né un
punto di riferimento in lontananza né in me.

La densa nebbia mi avvolgeva completamente.

Ero solo.

Abituato a specchiarmi negli altri, non mi riconoscevo.

Non distinguevo i miei tratti somatici, il suono della mia
voce, le mie mani, le mie braccia e il mio corpo.

Non ero in grado di esistere.

Non ricordavo.

Poi rapidamente mi sono portato le mani davanti agli occhi e
le ho sbattute con violenza sulla mia faccia fino a
lacrimare.

Allora, sapevo di esistere.

Ero io.

Mi sono seduto a terra e ho abbracciato le mie ginocchia
fino a stringerle forte al petto.

Tremavo dal freddo e dalla paura.

Tremavo per il non sapere cosa stesse succedendo.

Poi, ho chiuso gli occhi.

Il vuoto del buio ha iniziato lentamente a colorarsi.

Ho iniziato a ricordare.

Prima i colori, poi i sapori, gli odori, la forma, il peso e
il ritmo delle cose.

Vedevo me stesso, ricordavo me stesso.

Il lento ricordare che sembrava, è diventato poi crogiolo di
me.

Sembrava un sound metropolitano in cui si inseriscono danze
Country e dissolvenze Pop.

Basi Trance e scintille Jazz.

Folk e Minimal, Goa e Funky.

Un insieme di confusi ricordi ormai dimenticati.

Non potevo fermarli.

Pur volendolo, lo stop non si schiacciava ed ero ormai
rapito.

Costretto a nuotare affannosamente a delfino, nell'io dei
ricordi diventati piscina.

Non sapevo che fare.

Poi, istintivamente mi sono voltato per non prendere i
ricordi in faccia ma per osservarli tranquillamente una
volta passati.

Giratomi, li vedevo scorrere lenti, andavano piano davanti a
me.

Partivano da me.

Dell'immensità, io ero il confine.

Mormoravo a me stesso e la voce era la mia, tutto divenne
chiaro, molto chiaro.

Ciò che vedevo si rifletteva su di me lentamente, potevo
toccare, entrare dentro ad ogni frammento di me e avere il
tempo di riflettere sulle cose che in passato mi avevano
viziato l'anima, il corpo e la mente.

Stavo ammirando i miei primi anni di vita ed è successa una
cosa inspiegabile.

Ho visto la prima cosa che vidi in questa vita, poi d 'un
tratto, prima di sentirmi felicemente acqua, l'ultima cosa
che vidi nella scorsa vita.

É mutata quindi la mia voce e la mia posizione.

Sono mutate le mie percezioni e i miei sentimenti.

Sono cambiati anche i personaggi della commedia che stavo
osservando, la trama, l'ambiente, le forme, i colori e i
sapori.

Era un'altra vita.

Un'altra vita da me vissuta.

Vita, acqua, vita poi acqua e di nuovo vita.

Sono stato guerriero, schiavo, faraone, macellaio e donna.

Un perpetuo ripetersi di storie.

Ho rivisto e rivissuto molte vite e ogni ricordo si
ricollocava al suo posto negli infiniti calchi del mio
essere.

In ogni vita, ero sempre alla ricerca di qualcosa e
perennemente dispiaciuto per non averla trovata.

Costretto a rinascere per non averla trovata.

Ora sto piangendo, ma in realtà non so chi sia a farlo.

Che “io” piange?

L “io” di che vita?

Forse piange il mio essere.

Essere che è diventato finalmente consapevole che “essere”
non significa essere un corpo.

Ho visto.

Ho capito.

So chi sei.

Ti stavo cercando.

Ora dimmelo, ti prego dimmelo.

Ti ho trovata?

Posso smettere di cercare?

Nelle vite che ho rivissuto, ero sempre alla ricerca di
quegli occhi che sono i tuoi occhi.

Sono confuso, ma ho capito.

Sarò libero?

Ho finito di morire e poi rinascere?

Sarò per sempre acqua?

Dimmelo, ho finito?

Questa è la mia ultima vita.

Poi, finalmente, sarò per sempre acqua.

Lo sento, ti ho trovata.

E' l'ultima lo so.

Ho finito.”

martedì 10 maggio 2011

"Ho finito".



“Là, ero seduto laggiù. Non sono certo però, ora sono
confuso.

Spiegami quello che è successo.

Anche solo con un gesto, mi basta un' espressione del tuo
volto per capire.

Adesso che succederà?

Ho finito?

Sei tu?

Io chi sono?

Parlami, toccami e dimmi che sono qui con te.

É Tutto finito?

Ti ho trovata?

Sarà davvero l'ultima?

Che ore sono adesso?

Sei tu davvero?

Ero là e d'un tratto mi trovavo perduto nella nebbia, ne un
punto di riferimento in lontananza ne in me.

La densa nebbia mi avvolgeva completamente.

Ero solo.

Abituato a specchiarmi negli altri, non mi riconoscevo.

Non distinguevo i miei tratti somatici, il suono della mia
voce, le mie mani, le mie braccia e il mio corpo.

Non ero in grado di esistere.

Non ricordavo.

Poi rapidamente mi sono portato le mani davanti agli occhi e
le ho sbattute con violenza sulla mia faccia fino a
lacrimare.

Allora, sapevo di esistere.

Ero io.

Mi sono seduto a terra e ho abbracciato le mie ginocchia
fino a stringerle forte al petto.

Tremavo dal freddo e dalla paura.

Tremavo per il non sapere cosa stesse succedendo.

Poi, ho chiuso gli occhi.

Il vuoto del buio ha iniziato lentamente a colorarsi.

Ho iniziato a ricordare.

Prima i colori, poi i sapori, gli odori, la forma, il peso e
il ritmo delle cose.

Vedevo me stesso, ricordavo me stesso.

Il lento ricordare che sembrava, è diventato poi crogiolo di
me.

Sembrava un sound metropolitano in cui si inseriscono danze
Country e dissolvenze Pop.

Basi Trance e scintille Jazz.

Folk e Minimal, Goa e Funky.

Un insieme di confusi ricordi ormai dimenticati.

Non potevo fermarli.

Pur volendolo, lo stop non si schiacciava ed ero ormai
rapito.

Costretto a nuotare affannosamente a delfino, nell'io dei
ricordi diventati piscina.

Non sapevo che fare.

Poi, istintivamente mi sono voltato per non prendere i
ricordi in faccia ma per osservarli tranquillamente una
volta passati.

Giratomi, li vedevo scorrere lenti, andavano piano davanti a
me.

Partivano da me.

Dell'immensità, io ero il confine.

Mormoravo a me stesso e la voce era la mia, tutto divenne
chiaro, molto chiaro.

Ciò che vedevo si rifletteva su di me lentamente, potevo
toccare, entrare dentro ad ogni frammento di me e avere il
tempo di riflettere sulle cose che in passato mi avevano
viziato l'anima, il corpo e la mente.

Stavo ammirando i miei primi anni di vita ed è successa una
cosa inspiegabile.

Ho visto la prima cosa che vidi in questa vita, poi d 'un
tratto, prima di sentirmi felicemente acqua, l'ultima cosa
che vidi nella scorsa vita.

É mutata quindi la mia voce e la mia posizione.

Sono mutate le mie percezioni e i miei sentimenti.

Sono cambiati anche i personaggi della commedia che stavo
osservando, la trama, l'ambiente, le forme, i colori e i
sapori.

Era un'altra vita.

Un'altra vita da me vissuta.

Vita, acqua, vita poi acqua e di nuovo vita.

Sono stato guerriero, schiavo, faraone, macellaio e donna.

Un perpetuo ripetersi di storie.

Ho rivisto e rivissuto molte vite e ogni ricordo si
ricollocava al suo posto negli infiniti calchi del mio
essere.

In ogni vita, ero sempre alla ricerca di qualcosa e
perennemente dispiaciuto per non averla trovata.

Costretto a rinascere per non averla trovata.

Ora sto piangendo, ma in realtà non so chi sia a farlo.

Che “io” piange?

L “io” di che vita?

Forse piange il mio essere.

Essere che è diventato finalmente consapevole che “essere”
non significa essere un corpo.

Ho visto.

Ho capito.

So chi sei.

Ti stavo cercando.

Ora dimmelo, ti prego dimmelo.

Ti ho trovata?

Posso smettere di cercare?

Nelle vite che ho rivissuto, ero sempre alla ricerca di
quegli occhi che sono i tuoi occhi.

Sono confuso, ma ho capito.

Sarò libero?

Ho finito di morire e poi rinascere?

Sarò per sempre acqua?

Dimmelo, ho finito?

Questa è la mia ultima vita.

Poi, finalmente, sarò per sempre acqua.

Lo sento, ti ho trovata.

E' l'ultima lo so.

Ho finito.”





sabato 7 maggio 2011

"Liberata!"

Infiniti pensieri
diventano solide ossessioni.
Poi, le osservo mentre queste lentamente si appiattiscono e diventano fogli di carta.
Alzo il foglio e lo metto controluce.
Lo scruto e non vedo niente,
lo tocco ed è inconsistente.
Allora, con la matita
che rotea tra le mie dita,
voglio appuntare quello che percepisco dopo questa strana trasformazione.
Ma la matita è bianca e non si legge niente.
Mi metto dunque in ascolto della mia mente
perché la sento che, beata,
si gode la divina emozione
di essersi, finalmente, liberta.

mercoledì 4 maggio 2011

"Sensi."

Sono incantato ad annusare
questa tua liscia rotondità.
Gustosa da mangiare
e dolce da ascoltare.
Non posso più farne a meno.
Amo il tuo seno.

mercoledì 27 aprile 2011

"Il campo santo".

 
Laggiù, alla fine della strada, dove iniziano i prati e le colline, spuntano nei campi increspati e ondulati dal vento, colonie di margherite che sembrano atolli nell'oceano.
È Aprile, è normale.
Il gradevole sole di questa stagione, richiama situazioni ed immagini, che alleviano le pene passate nella stagione più fredda dell'anno.
La gente si scopre, la terra si colora, le gatte partoriscono e le rondini volano.
Solitamente, lui è sempre stato felice in primavera, quest'anno era tormentato.
Tra i fiori, là alla fine della strada, ha trovato quello particolare.
Infatti, proprio sul suo stelo c'è una scritta in stampatello, una minuscola scritta.
Ormai, lo sanno tutti che quel campo ospita tutti gli anni una margherita speciale, dove l'universo scrive un messaggio per l'umanità e dove ogni fiore è sacro.
Tutti gli abitanti di quel paesino al confine tra Toscana e Romagna, si ritrovano in quel campo il 25 di Aprile e con diligenza e precisione cercano quel fiore.
Alcune persone inventano macchine particolari, altre invece ci provano con una semplice lente e altre ancora ci vanno ad occhi nudi, senza strumenti, guidati da una mano divina che dovrebbe portarli proprio davanti a quella margherita.
Chi trova il fiore speciale: è l'eletto, il prescelto dal cielo, voluto da Dio per diffondere il messaggio.
Lui è andato là senza strumenti, ha osservato la prima margherita che si è trovato davanti e guardandola bene, scritta con un verde più scuro di quello dello stelo, ha notato la tanto famigerata massima da diffondere all'umanità.
Non si è sentito guidato o indirizzato, è stato un puro caso, una sfortuna.
Ha letto la minuscola frase a bassa voce e senza farsi vedere.
Poi una lacrima gli ha solcato il viso ed è andata a poggiarsi sulle labbra che, bagnate, divennero di un colore nuovo.
Gli tremavano le braccia e le ginocchia, non poteva diffondere tale messaggio.
Non poteva urlare tale scoperta.
Cacciatosi in tasca quella margherita, senza farsi vedere dalle altre persone, ha iniziato a correre verso casa.
Sono ormai due giorni che non dorme, legge e rilegge tale scritta.
Perché proprio a me questa sciagura?
Non credo a queste assurdità, non credo a queste stupidaggini.
Perché proprio io?”
Disteso sul letto, la sua testa era diventata il campo di battaglia di domande che sembravano montanti possenti al suo spirito dolente e di risposte vane che sembravano ganci deboli sganciati da un pugile dilettante.
La margherita gli roteava tra le dita ed era ormai appassita.
Poi ecco la soluzione a tutti i suoi problemi: bruciare la margherita.
"Nessuno saprà mai che io ho trovato quel fiore, continueranno a cercarlo all'infinito".
Infatti dalla finestra vedeva ancora persone camminare a carponi, alla ricerca del fiore speciale.
Persone alla ricerca del fiore e della gloria che questo consegna a chi lo trova.
Avvolto dal tormento e dai dubbi, combattuto tra il rivelare o no tale messaggio, trovò la forza di strusciare un fiammifero sulla superficie ruvida del davanzale della finestra e bruciare quella margherita.
Nessuno saprà mai il messaggio dell'universo destinato all'umanità, neanche voi blogger lo saprete.

martedì 19 aprile 2011

"Maledetta".

Ti corro dietro da una vita.
Maledetta lepre fatti prendere.
Mi sanguinano i piedi per il correre sugli scogli.
Ho i polpastrelli delle dita doloranti e le unghie nere, piene di terra, per il troppo scavare.
Esci, talpa, dalla tua tana.
Ho i pantaloni logori per il troppo di stare in ginocchio.
Poi mi alzo, mi distendo verso il cielo e mi sembra di sentire il tuo odore, ho la convinzione di sentire il tuo profumo.
Inizio a volare, credo di esserti vicino e di ronzarti attorno come una mosca sulla merda.
Ennesimo inganno.
Ho creduto di vedere i tuoi occhi, freschi e luccicanti da far gola a una gazza.
Ti ho vista là in fondo alla strada, mi sono avvicinato ma non eri tu e allora impaurito ho iniziato a correre.
È successo più di una volta.
Ti cerco in tutto, non smetterò di cercarti e di rincorrerti.
Fuggi continuamente, maledetta, ma prima o poi sarai mia.
Ti ho abbracciata e baciata quando non ero in me, ero strafatto di illusioni e sudavo fantasie.
Sei una fantasia.
Ecco, sei un abbaglio della mente.
Non esisti.
Qualcuno si convince di averti ma tu, in realtà, non ci sei.
Non esisti.
Maledetta.
Maledetta felicità.

giovedì 14 aprile 2011

"Caos".

La luce divenne inspiegabilmente più accecante.
Gli uomini e le cose persero totalmente la loro fisicità e si confusero tra le idee.
Il mondo non ospitava più tante lanterne luminose, specchio e riflesso di un' unica luce, ma un fiume immenso di brillantezza.
Mi sentii più leggero, divenni spirito errante.
Guidato da venti misteriosi, fluttuavo spensierato in un crogiolo di anime e di vita.
Questo corpo, che è zavorra, lo vidi cadere sotto di me come una farfalla perde la sua crisalide.
Ebbi la sensazione di essere una farfalla.
Farfalla o nulla, quel nulla che è tutto.
Fu un sogno magico dal quale mi sentii arricchito spiritualmente.
La mattina seguente, la pesantezza mi sommerse.
Piovve per tutto il giorno.
Il cielo sembrava dispiaciuto per avermi spiegato una piccola parte del suo mistero, di quello che è il nostro divenire, ciò che ci attende.
Annegavo nel mondo perché consapevole di essere in gabbia.
Pensai al profumo del seme, alle rughe di mio nonno, alle vibrazioni che percepisco nell'osservare la luminosità di un prato ghiacciato in gennaio.
Pensai alle onde, agli alberi, ai pesci, ai brividi di paura e a quelli di gioia.
Alle regole e alle eccezioni.
Se questa è un'illusione, un'illusione tangibile che però poi svanirà, allora cercherò di goderne ogni istante.
Vivrò ogni secondo, tutte le emozioni, ogni volto ed ogni gesto.
Poi sarà caos.
Quel caos incantato e dunque dalle logiche irrazionali.
Caos che ci attende.
Ci attende inesorabile.

giovedì 7 aprile 2011

Colpa mia

La capivo. Comprendevo il suo dolore che divenne immediatamente anche il mio, pur non avendo mai provato una sensazione del genere.
Ero affranto, amareggiato, dispiaciuto e avvilito.
Io l'avevo ridotta in quello stato.
La colpa era la mia.
Le leggevo, in quello sguardo disanimato e avvizzito, la stanchezza, lo sfinimento e il tormento.
Si, la colpa era la mia, io l'avevo lasciata sola.
Stupidamente, pensavo che ce l'avrebbe fatta e che non avrebbe avuto bisogno di me.
Lasciarla sola, che stupido che sono stato.
Andar via e sbattere la porta.
Il solito egoista.
Io l'ho ridotta in quella situazione e mi sento davvero in colpa.
L'ho lasciata annegare nel suo desiderio naturale e necessario, non in un qualsiasi desiderio vano, irrealizzabile o artificiale.
Non mi aveva mai chiesto nulla di utopico e con quel poco che le davo riusciva a deliziarmi con le sue forme, i suoi colori e i suoi profumi.
La colpa era la mia e non potevo perdonarmelo.
La prossima volta, se ci sarà una prossima volta che starò fuori per più di quattro giorni, devo assolutamente ricordare a mamma di passare da casa mia ad annaffiare l'Erica.