mercoledì 29 giugno 2011

"Al supermercato". parte1.

Pacata, morbida, delicata, a tratti apatica, leggera come una Ms club azzurra, muove le sue mani ben curate silenziosamente, forse per non disturbare, oppure per non danneggiare i prodotti che lievemente volta dalla parte del codice a barre per sommarli al resto del conto.
È giovane, bionda dorata, Carla si chiama, lo leggo dal cartellino appuntato sul camice arancione.
I frigoriferi del supermercato, ronzano insistentemente, alcuni ventilatori muovono un'aria densa, corposa, calda.
Carla, porta attorno al collo un foulard di seta, forse, a starsene tutto il giorno lì seduta con il ventilatore puntato contro, le viene il mal di gola o quell'uggiolina che porta alla raucedine.
Ha i capelli raccolti in una treccia, di quelle che andavano di moda alcuni anni fa.
Ha un viso pulito, onesto, leggermente incipriato, incorruttibile e sincero.
Occhi verdi, quel verde che rimanda alla mente le estati passate al fiume con gli amici. Occhi verdi come l'acqua di un torrente illuminato dal sole: sono però occhi tristi.
Sono occhi di una ragazza di vent'anni o giù di lì, ma non sono occhi che brillano di giovinezza, non sono affatto luminosi, sono spenti, sbiaditi.
Sono infatti occhi tristi, velati di malinconia, disillusi, delusi, avviliti e forse angosciati.
C'è sicuramente qualcosa che la tormenta.
Ha un viso netto, un naso preciso e lucido.
Il suo sguardo è fisso in un punto, non sorride.
Il computer della cassa non riconosce il codice del prodotto che ha tra le mani, lei storge il naso in segno di disappunto e tre piccole rughe si formano sopra di esso.
Il cliente davanti a me, è visibilmente impaziente, sicuramente annoiato dalla lentezza di Carla.
Mi chiedo il perché della sua tristezza, forse il ragazzo l'ha lasciata, forse è incita, forse sua madre è all'ospedale.
Saluta il cliente che mi precede con un “grazie e arrivederci” dal tono stanco.
Le sue labbra, sono sottili, leggermente rosee, non sono labbra rosse e carnose da baciare.
È il mio turno, alza lo sguardo e fa un cenno di saluto.
Ripongo nella borsa gli acquisti che ho fatto in questo caldo pomeriggio di Giugno: un sacchetto di “Fisherman's Friend” al mentolo ed eucalipto che ho poggiato sul nastro mentre osservavo Carla, tre Redbull, cinque pesche, una cassa di cedrata, pane, uova, carne, pizze surgelate, deodorante, balsamo alle erbe, dentifricio e zucchero di canna.
Pago con il bancomat.
Mi passa con flemma lo scontrino e mi restituisce il bancomat, vorrei annusarle quelle mani, quelle lunghe dita affusolate: sono sicuro che prima di andare a letto è una di quelle che impiastra le sue mani di Nivea.
La saluto senza sventolare il fazzoletto, senza dirle addio: domani tornerò al supermercato per vedere se la notte, le ha tolto la tristezza dagli occhi.

Continua...

martedì 28 giugno 2011

"La scusa"

Una filo di bava cadeva dalla mia bocca e poggiava sul lenzuolo celeste, proprio in quel punto aveva formato una macchia di colore blu.
Stamani, dormivo beatamente tra le coperte arruffate.
Puntuale, alle 10.10, è suonata la sveglia.
L'ho spenta sbattendoci sopra la mano con l'irruenza di chi non accetta essere disturbato nel sonno.
Poi, mi sono riaddormentato.
Mi sono alzato alle 11, in ritardo, come sempre.
Mi sono lavato i denti, sciacquato il viso, vestito rapidamente e poi ho sceso le scale di furia rischiando di cadere ad ogni gradino.
Ho tirato fuori la bicicletta dall'androne.
Ho pensato che il capo, prima o poi, mi avrebbe licenziato per tutti i miei maledetti ritardi.
Ho svoltato in via dei Macelli, ho attraversato il solito stretto ponte sotto il quale scorre un filo d'acqua tra l'erba incolta, un gatto nero mi ha attraversato la strada.
Se non fossi stato in ritardo, forse, mi sarei fermato, ma lo ero e non ho dato importanza alla scaramanzia.
Non potevo incrementare maggiormente il mio ritardo.
Ho proseguito pedalando velocemente e mangiando anche qualche moscerino.
Arrivato in fondo alla strada, ho svoltato per un vicolo stretto e percorribile solo in un senso e ho visto una colonna di macchine con le quattro frecce accese, la prima cosa che ho pensato è stata: incidente, grave incidente.
Mi sono avvicinato al luogo dove credevo di trovare o una macchina tamponata o un passante buttato a terra.
Ma nulla di tutto ciò, fortunatamente, si è mostrato ai miei occhi.
Il primo della fila, con la sua Audi nuova di zecca, l'ho riconosciuto subito, era il mio capo.
Stava discutendo animatamente con un donna con l'aria da professoressa.
Ho domandato cosa fosse successo e il perché si fosse fermato formando una coda di più di dieci macchine dietro a sé.
“Un gatto nero ha attraversato la strada, io non passo.”
Mi ha risposto balbettando, visibilmente terrorizzato dall'accaduto.
Come se fosse stato derubato o pestato a sangue, se ne stava impietrito nella sua Audi lucida e lucente.
Aveva in dosso una camicia bianca di lino, pantaloni beige, scarpe di Prada e il suo solito Rolex al polso destro.
Poi ha aggiunto: “non azzardarti a passare con quella bicicletta, porti la maledizione dei gatti neri al ristorante, se passi ti licenzio”.
La donna, che sicuramente era una professoressa, cercava di spiegare al mio capo che i gatti neri non sono portatori di sfortune o maledizioni, ma lui, non si muoveva e non dava ascolto a quella bionda donna dal corpo snello e giovanile.
La prof, perchè secondo me lo era, con l'aria un pò isterica come tutte le professoresse, agitava le mani imprecandolo di procedere.
“Deve muoversi, dobbiamo lavorare, non può fermare il traffico così!”
Non era possibile superare quell'Audi, enorme e invadente, occupava tutta la corsia.
Un tipo abbronzato e con dei Ray-Ban stile aviatore, stava provando a superarlo con la sua Smart passando dal marciapiede ma, anche lui, nonostante la sua auto fosse minuscola, non è riuscito a farcela.
Ho pensato che se io avessi attraversato la strada, la maledizione ricevuta precedentemente sul ponte si sarebbe annullata.
Sono sceso dalla bici e ho attraversato la linea che, presumibilmente, il gatto aveva tracciato al suo passaggio.
“Non vale! Non vale!” Ha esclamato il capo “le persone a piedi sono immuni dalla maledizione, e non passarci con la bici che ti licenzio!”.
Nel frattempo, la coda di macchine si stava allungando a dismisura e mi aspettavo che qualcuno chiamasse la polizia da un momento all'altro.
Un uomo brizzolato è sceso dalla sua Fiat Panda e ha esclamato: “ Ha ragione quel tizio laggiù, i gatti neri portano male! Sono streghe travestite!”
Mi gustavo quell'assurda scena che vedeva il mio capo con le sue paranoie al centro della questione. La prof, era completamente fuori di sé, alcune persone erano scese dalle loro auto e avevano fatto gruppetto: sentivo che discutevano del probabile passaggio di Cassano dal Milan alla Fiorentina.
Ho sentito un fischio, mi sono voltato e ho visto il capo che mi faceva cenno di raggiungerlo.
Ho pedalato, sono stato distratto da una macchina completamente polverosa che esprimeva il suo disappunto per il lerciume che l'avvolgeva, sul vetro posteriore infatti c'era scritto: “lavami bastardo”, ho sorriso.
Ho raggiunto il capo e mi ha detto: “Lascia la bici nella mia macchia e vai a lavorare, vi raggiungo appena risolvo questa situazione. Dì agli altri che ho avuto un contrattempo, non dirgli il vero motivo del ritardo.”
Ho aperto il bagagliaio di quell'enorme Audi e la mia bicicletta è entrata precisa.
Ora, sono le quattro, mentre mangio questo fresco Liuk al limone e la stecca di liquirizia mi imbratta le mani, del capo non c'è traccia.
Forse, è ancora là nella stetta viuzza a convincere il mondo che i gatti neri portano male.
Sorrido nuovamente, sono felice: ho trovato una scusa per i miei ritardi.

sabato 25 giugno 2011

"Stasera esco".


Con il suo andamento blando e lacerante, la vita si conferma profondamente insoddisfacente.
Il lavoro, è stancante perché monotono e ripetitivo.
Conosco i gusti di tutti, il perché di certe scelte e le quantità necessarie ad ogni cliente.
Ma: “senza lavoro non si mangia”, siamo obbligati a lavorare, per dirla con mio nonno.
In giorni come questo, mi chiedo perché il mondo non risponda alle mie esigenze, il perché devo essere sempre io a piegarmi e non lui.
Mi stampo in faccia un finto sorriso del cazzo, maschera che copre la mia profonda delusione, e affronto ormai meccanicamente la mia stupida giornata.
Mi manca costanza, non Costanza la mia cugina che vive in California, ma la costanza nel fare le cose, nell'affrontare giorno per giorno un percorso che poi in fin dei conti non ha un maledetto traguardo.
Lo dice sempre mia madre, tu non hai costanza.
Fanculo alla costanza immateriale e quella grassa di mia Cugina.
Per un certo periodo, lo ammetto, sono stato stupidamente bene, affrontavo la vita come veniva e senza darle troppo peso.
Avevo i miei obiettivi davanti, mi sembrava di toccarli: pubblicare i miei racconti, mettere via un po' di soldi per iscrivermi all'università etc.. etc..
Ora non li vedo, la strada sembra avvolta da una fitta nebbia.
Sarà il caldo, i miei vestiti che in questo torrido sabato sera puzzano di soffritto di prezzemolo e aglio, ma la vita mi sembra un vile gioco di dati in cui vinci se sei solo un cazzone fortunato.
Mi sento un perdente, quale sarà il mio ruolo su questo pianeta malato non lo so.
Lo scrittore, questo vorrei fare, anche se vedo sotto a quei tuoi stupidi baffi un ignorante sorriso di disprezzo.
Utopie, un giorno vivevo di loro.
Oggi mi sento minuscolo in un mondo di giganti.
Forse, è perché ho smesso di fare yoga, o perché ho solo voglia di fare l'amore.
Il fumo esce denso dal mio naso, questa lampada comprata da Ikea sembra osservare curiosamente il mio sfogo.
No lampadina, questa non è una poesia o un racconto, questo sono io.
Ora mi faccio una doccia, esco, compro un pacchetto di Marlboro rosse e affogo la mia tristezza in una notte di stelle alcoliche.
Non rileggo il post, amo i miei errori ortografici da terza elementare.

Buon sabato sera a tutti.

sabato 18 giugno 2011

"L'ultima doccia"



Gemme splendenti scorrevano repentine sul suo corpo e poi raggiungevano terra per andare a confondersi con un' unica pozza d'acqua sotto ai suoi piedi.
Ormai, era deciso.
Sarebbe stata la sua ultima doccia.
Era stanco di tutti i tormenti che la vita gli aveva offerto. I suoi lamenti aleggiavano nell'aria trasportati dal vento e sembravano non voler raggiungere colei che tale maledizione gli aveva lanciato.
Non che volesse presentare il conto per farsi rimborsare o tanto meno per essere biasimato.
“Addio vita”, pensava, frastornato dalle gocce d'acqua che rimbombavano sulla sua testa.
Qualcuno capirà.
Se qualcuno vuol davvero capire.
Aveva calcolato tutto, la sua ultima giocata l'aveva fatta, il suo cavallo avrebbe vinto e i figli si sarebbero spartiti il guadagno.
Quella schedina se ne stava appoggiata sul tavolo del soggiorno e sarebbe rimasta lì.
Sicuramente, per i figlioli, sarebbe stato meno amaro il dispiacere.
Ormai erano cresciuti così, abbagliati dai soldi e solo così li avrebbe fatti felici.
Era deciso, nulla lo tratteneva più in quella sua vita.
Spense la doccia.
Si posizionò davanti allo specchio, con una mano tolse la condensa e creò un buco di realtà.
Il suo viso, con quella sua pelle olivastra, portava i segni della sofferenza e della tristezza.
Si fece la barba.
Era deciso, sarebbe stata la sua ultima rasatura.
Aprì il tappo del lavandino e l'acqua iniziò a correre giù per il tubo.
Alcuni frammenti di barba rimasero come spruzzati sul bianco della ceramica.
Poi, con le forbici, si tagliò tutti i suoi riccioli e formò un'ombra di capelli attorno alla sua debole figura da uomo stanco.
Con i capelli corti, sarebbe stato meglio.
Poi, Carmelo, si vestì.
Lo zaino era pronto nel corridoio vicino alla porta di ingresso.
Si mise i sandali, abbracciò il suo zaino e scese le scale.
Diceva basta alla sua vecchia vita: partiva per crearsene una nuova.
La moglie, lo aveva lasciato da ormai sei anni e si era portata con sé i figli.
Era costretto a vederli in giorni prestabiliti per un orario prestabilito.
Ora, erano grandi e avrebbero capito la sua scelta.
Forse.
Diceva basta all'attesa che lo stava logorando. Gli eventi avrebbero imboccato la strada della giusta risoluzione.
Lei, non sarebbe tornata: era in attesa del terzo figlio.
Il suo nuovo compagno, aveva colpito.
Carmelo, fu lasciato da lei per un commercialista: ora, loro abitano in collina in una villa con piscina.
Lei, fa la signora adesso.
Del resto, è stata coerente con se stessa, lo aveva sempre desiderato.
In qualche modo, Carmelo, aveva provato a diventare ricco, aveva studiato e si era impegnato.
Ma il suo sogno di diventare uno scrittore di successo svanì dopo le centinaia di porte che le case editrici gli sbatterono in faccia.
Fu un bimbo prodigio, destava meraviglia con le sue poesie e in molti avrebbero scommesso sulla sua carriera letteraria.
Anche la sua ex moglie.
Tutti rimasero delusi per i suoi insuccessi.
È un bibliotecario adesso, un lavoro rispettabile ma certamente meno retribuito di quello del commercialista.
Non può permettersi una Ferrari, la casa in montagna o al mare.
Lei, aveva sempre desiderato vestirsi con abiti di Gucci e girare per la città su una BMW, andare ogni sabato a cena al ristorante e far finta di conoscere il mondo e quindi essere in grado di giudicarlo.
Perché adesso, lei giudica il mondo.
Poteva spruzzarsi tutti i profumi che aveva sempre desiderato, mettersi le scarpe che aveva sempre sognato, adornarsi di stupidi gioielli e mostrarli in pubblico come se fossero gioielli dell'anima o medaglie per uno spirito benigno.
Carmelo, partiva per lasciarsi alle spalle tutte le fragranze della moglie che ormai gli davano la nausea, tutti i suoi gioielli e quella sua abbronzatura innaturale che le colorava il corpo.
Sarebbe andato dove il sole lo avrebbe guidato.
Così, alla cieca, senza mappe o bussole.
Per la sua ex, sarebbe stato un sollievo non averlo più tra i piedi.
Per lei, è solo un fallito.
Carmelo, partiva per liberarsi da quella sua vita, per liberarsi da quei suoi torbidi pensieri che lo avevano incatenato e dai quali, a fatica, riusciva a liberarsi.
Partiva per scrollarsi da dosso l'ansia che lo aveva ammantato, la corsa ansimante che aveva fatto e stava facendo per essere quello che, per sua moglie e per molti altri, avrebbe dovuto essere o diventare.
Non è né ricco, né uno scrittore di successo.
Ma adesso diceva basta a quella sua vita.
Nulla sarebbe stato più come prima.
Lei non sarebbe tornata e doveva levarsela dalla testa.
Bella, bellissima, lucente e magnifica.
Non smetteva di pensare a quei suoi occhi, a quei suoi biondi capelli, a quel suo atteggiamento da diva che lo aveva stregato.
Adesso, era inadatto per una come lei.
Carmelo, non avrebbe potuto darle tutti quegli stupidi gingilli che le dava il commercialista.
Poteva darle solo amore, quell'amore profondo e quasi platonico che lui sentiva dentro.
Ma a lei, non serviva amore per essere felice, servivano cose.
I figli, avrebbero certamente capito la sua scelta, sapevano delle ferite del padre.
Forse, solo il tempo lo avrebbero guarito.
Partiva per fare il vagabondo attorno al mondo.
Per smetterla di sentirsi disprezzato per quello che era, partiva per liberarsi dagli schemi della moglie che lo vedeva inadatto per stare insieme a lei.
Non si sarebbe lavato, avrebbe portato barba e capelli lunghi, gli stessi pantaloni logori e gli stessi sandali sfiniti.
Lo avrebbe fatto per ribellarsi a quello stupido mondo e dimostrare a se stesso di essere migliore di lei.
Non servono cose per essere felici.
Con la lontananza, forse, avrebbe accettato la scelta della moglie.
Carmelo, partiva alla ricerca del suo vero sé, non quello che per tanto tempo si era figurato di diventare o di essere per accondiscendere al volere altrui.
Forse, Carmelo, sarebbe tornato il vero Carmelo durante questo viaggio.
Partiva come un vagabondo alla ricerca di se stesso, uno zaino per valigia e il mondo come casa.
Le tappe, le avrebbe scandite la stanchezza.
Portava con sé anche un taccuino.
Nelle pause dei nuovi giorni, la sua anima avrebbe sicuramente ricominciato a sentire.

Carmelo, che sei nelle mia testa da questa mattina, io ti auguro un buon viaggio.

domenica 12 giugno 2011

"Scendo".


 Tutto come ieri, tutto come l'altro ieri e come un anno fa.

Non si muove una foglia, la natura è statica come non mai.

Mi guardo le mani, le stesse mani di sempre, con le solite cicatrici e le unghie tagliate tutte alla stessa lunghezza.

Una donna cammina lentamente tra le case tutte uguali, donna stanca che trascina i piedi e struscia per terra pantaloni non orlati a dovere.

È caldo e tutto tace, tutto è così maledettamente fermo.

Sono seduto sul tetto di casa mia e dondolo le gambe nel vuoto.

Chiudo gli occhi e mi sento libero dagli eccessi del mondo, poi mi muovo di scatto e perdo per un poco l'equilibrio, lo ritrovo sorreggendomi al cornicione.

Mi alzo in piedi e distendo le braccia in modo da sembrare il Cristo sulla croce.

Respiro lentamente, respiri profondi che ascolto per non sentirmi solo.

Alzo la gamba destra e incastro il piede tra la coscia e il l'inguine, chiudo gli occhi: sono ad un passo dall'immensità.

Un merlo mi passa davanti ed io, ad occhi chiusi, lo riconosco dal battito delle sue ali, provo stupidamente ad allungare le braccia per toccarlo ma è tardi, lui è veloce ed io sono lento.

Apro gli occhi.

Un ragazzo cammina velocemente sui sampietrini disconnessi. E' biondo, alto, slanciato, ha gli occhi azzurri.

Sembra un vero ariano.

Penso che se fosse nato nella Germania di Hitler, sarebbe stata una di quelle comparse nei film di propaganda.

Il modello, l'esempio, l'ariano ideale.

Dove sta andando a quest'ora?

Ha tra le mani alcuni fogli, forse un quaderno o un libretto.

No, ha una tessera, una tessera elettorale.

Allora, penso che questo non è un giorno come ieri o come un anno fa: oggi si va a votare.
Scendo da questo tetto con la stupida convinzione che qualcosa possa cambiare. 
Vado a votare. 

domenica 5 giugno 2011

"E' andata."



Si è presa una pausa.
Io, sinceramente, non né sentivo il bisogno.
Anzi, avevo trovato il mio equilibrio e stavo proprio bene.
Forse, troppo bene, fino a credere che anche lei fosse felice e avesse trovato una certa pace con me e con se stessa.
Constatazione errata.
È andata.
Non l'ho ascoltata a sufficienza, forse è vero, impegnato e rapito com'ero nel rimuginare stupide storie nella speranza di poterle perfezionare o addirittura cambiare.
Sono consapevole dei miei errori e del fatto che lei, adesso, sia con qualcuno che da tanto tempo l' attendeva.
Oppure, è raminga in chissà quale luogo.
Siamo stati insieme per tanto tempo e adesso che non c'è, vorrei ascoltarla come non mai.
Mi manca molto, moltissimo da sentirmi rinchiuso in un qualcosa di metafisico ma allo stesso tempo talmente potente da farmi male.
-Condensate ai vetri ti questa stupida macchina le parole, inutile aprire il finestrino, accendere un po' d'aria condizionata oppure smettere di respirare per quanto mi è possibile.
Non si liberano leggere nell'aria queste mie stupide parole, questi miei stupidi pensieri o stravaganti congetture.
Sono ingabbiate in questa macchina ingolfata.
È annebbiato il mio vedere e quindi ciò che mi è prossimo.
Il dopo, l'avvenire o quello che sarà, è adesso un utopia senza lei.
Non vedo.-
Ora sembra che sia tornata, così, improvvisamente.
Gioca a nascondino.
La bastarda, si prende gioco di me.
Che strana giornata, penso, grattandomi con il pugno sinistro l'occhio destro.
Benissimo, se mi costringerà a fare il folle ed andarmene in giro con carta e penna ci starò ciecamente.
Va e torna ad intermittenza, proprio come le lucine negli alberi adornati per il Natale.
Oggi, non si procede.
È scappata nuovamente.
Tanto torna, ho capito i miei errori.
Mi rilasso e attendo la sua venuta come un buon Cristiano aspetta il giorno del giudizio.
Mi dispiace per voi lettori che siete passati per leggere qualcosa di interessante.
Oggi, l'ispirazione è in pausa.
Ma tornerà, perché tutto torna.

lunedì 30 maggio 2011

"Il giardino."

Qui, c'è un profondo rispetto verso il tutto.
C'è rispetto per quest'ape che mi ronza attorno e che all'improvviso può bucarmi, verso il gallo che annaspa nel terreno indisturbato e che ogni mattino è incaricato di svegliarmi.
Rispetto il lombrico che fora la terra e la ossigena con le sue gallerie.
Rispetto la lucertola che mangia gli insetti e che a sua volta viene mangiata dal gatto.
Rispetto quella minuscola formica che, furtiva, mi ruba semi di prato appena piantato.
Osservo la vite che germoglia come lo fa il melograno.
Rispetto il gelsomino che, lentamente, si distende alla ricerca di qualcosa che non esiste: rispetto il non esserci della sua meta.
Fisso, incuriosito, la chioccia che cova le sue uova e le altre galline che che la disturbano goffamente.
Alla fine della strada, c'è dell'erba alta che si piega su se stessa per il troppo peso.
Alla mia sinistra, una pianta di lavanda sogna di fiorire e di intontirci tutti con la sua possente fragranza.
C'è rispetto verso il geranio fiorito, il rosmarino rinsecchito, le cavallette, i grilli, le margherite e l'eucalipto.
C'è ammirazione verso quel moscerino che, scattando a zig zag, attraversa distese infinite di campi e alte piante di ortica piegate dal caldo vento di fine Maggio.
Rispetto la menta, il timo, la maggiorana e la ragnatela che, lucida, unisce la nostra casa alla siepe appena potata.
Rispetto l'amarena.
Rispetto la sera, il sole che lentamente fa capolino dall'altra parte della terra ad illuminare un' altro giardino, ad illuminare il destino di una pianta malata che non guarirà solo se annaffiata ma forse, lo farà essendo amata.
Rispetto l'acqua che inumidisce la terra, il vento le nuvole e il fuoco.
Questo strano gioco di sentimenti e colori che mi rende parte del tutto.
Rispetto i miei occhi che mi permettono di osservare il mondo e questa strana mia testa che non riesce a concepirlo rotondo.
Rispetto le mie mani per aver coltivato, per aver zappato e rastrellato.
Se dici che questo non esiste, rispetto la mia immaginazione.
Felice della tua osservazione, non puoi togliermi l'emozione che provo nel guardare da vicino quella che definisco la vita per eccellenza, senza stupide infamie o inopportune speculazioni.
A questo punto non so chi ringraziare, se Dio, il caos, me stesso o non so chi.
Mi rilasso e mi lascio guidare come una piuma nell'oceano.
Ho la convinzione che la vita sia solamente un gioco di emozioni.
Disteso, osservo il cielo e piango con lui perché ne ho bisogno.
Cerco di non disturbare ma è proprio lasciandomi andare che diventa tangibile questo mio rispetto.

giovedì 19 maggio 2011

"Il compleanno".





Dalla sua bocca carnosa, un violento sputo catarroso da fumatore raggiunse terra e si confuse nell'erba.
Con l'avambraccio si asciugò le labbra e proseguì il suo ragionamento.
Carlo, non riusciva minimamente a spiegarsi cosa gli stesse succedendo.
Stava seduto all'ombra di un grande tiglio con le gambe incrociate.
I suoi riccioli neri e folti si lasciavano pettinare dal vento e proprio sul lato sinistro della nuca, si era formata una zona di vuoto causata dal forte fiato asciutto e caldo di Luglio.
Come quando un elicottero atterra su di un prato con l'erba alta.
L'effetto sembrava lo stesso.
Domande su domande gli riempivano la testa.
Una mosca, disegnava intriganti traiettorie davanti alle sue mani.
Quando questa, beata, si posò su di un giallo fiore di campo con il cuore amaranto e dallo stelo storto e solo alla base dritto, Carlo, avvicinò la sua lunga mano e la aprì sul fiore. Come se la sua mano fosse la bocca vorace di un leone davanti alla sua preda.
Immobile, chiuse gli occhi per concentrarsi meglio e repentinamente strinse il pugno per catturare e divorarsi la sua vittima.
Mancata.
La mosca riprese a fluttuare leggera nell'aria e sembrava non fosse stata minimamente impaurita dal gesto del ragazzo.
Carlo, si sentiva come la mosca all'ombra della sua mano.
Pronto a scappare per non farsi uccidere, attendeva un gesto del suo aguzzino per mettersi in fuga.
Ma di chi fosse quella mano della quale sentiva l'agrodolce odore, non lo sapeva.
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni del tabacco e una cartina.
Preparò il tutto e accese la sigaretta.
Il fumo, gli dava un aspetto mistico e aveva trasformato quella sua esile figura in un qualcosa di astratto ma allo stesso modo lussureggiante e signorile.
Fisicamente, non era più un bambino ma un uomo quasi fatto.
Con tanto di barba e sguardo da pensatore.
Il suo sguardo e quei suoi occhi verdi come l'acqua di un fiume profondo, erano velati da un sottile strato di inquietudine e tristezza che lo facevano sembrare vecchio e malandato.
Spense la sigaretta e si alzò in piedi.
Si stiracchiò e uno svarione lo obbligò a risedersi a terra.
Fu distratto dal passaggio di un superleggero che silente tagliava l'etere.
Il sole, rifletteva la struttura argentea del veicolo e lo faceva brillare nel cielo azzurro del pomeriggio toscano.
Carlo, credeva di aver affrontato e risolto, una dopo l'altra, le problematiche che in passato lo avevano tormentato e proprio non riusciva ad arrivare alla radice di quel suo rinnovato malessere.
In più di un occasione, in passato, trovandosi arreso, convenne che il vero problema consistesse nel fatto che non ci fosse soluzione.
Poi la soluzione fu trovata e conseguentemente anche la pace.
Un filo di formiche, procedeva veloce verso una direzione a lui sconosciuta.
Carlo, si chinò su di esse per osservarle e le parevano felici con quei semini rubati alla natura, utilizzati come provvista per l'inverno.
Quali fossero le sue provviste per l'inverno, invece, a Carlo, ancora non era chiaro.
La maturità scolastica e fisica da poco conquistate, si contrapponevano a quel suo spirito errante alla ricerca di se stesso.
Anima perduta in pensieri irrazionali che lo facevano sentire lontano dalla realtà e quindi incapace di affrontarla.
Il problema consisteva forse nella scelta che doveva fare?
Studiare o lavorare?
In lui, combattevano tra di loro, opinioni differenti su quello che avrebbe voluto fare.
Lasciarsi trasportare come una foglia secca a Novembre da quello che il fato sicuramente gli avrebbe riservato?
Voler far tutto e per questo non fare niente?
Ci pensava.
Ma no, la sua scelta l'aveva fatta.
Studiare.
Iscriversi all'università e diventare professore di storia.
A settembre, avrebbe iniziato gli studi e si sarebbe arrangiato con qualche lavoretto per campare.
Oppure lavorare?
Entrare nel calzaturificio del padre ed occuparsi dei disegni per i nuovi modelli di scarpe o magari dedicarsi alla ricerca di nuovi tessuti.
No, non lo stimolava a sufficienza.
Avrebbe voluto studiare.
Dentro di sé, Carlo aveva tutto chiaro.
Professore di storia, questo voleva diventare.
Non gli interessavano le proposte del padre, le critiche a quello che avrebbe voluto fare o i dubbi, suoi personali o dei suoi familiari.
Il problema non era quello.
La scelta, era un qualcosa di materiale che non aveva la potenza di tormentarlo.
Il problemi di quel pomeriggio, erano altri.
Di tutt'altra entità e appartenenza.
Nelle logiche che forse, logiche lo erano solo a lui, quel pomeriggio non riusciva a far chiarezza.
Magari era proprio la meta-fisicità di quel problema a tormentarlo.
Il fatto di non avere un qualcosa di tangibile da affrontare e accusare per quel rinnovato malessere lo faceva tormentare maggiormente.
Confusione, disordine e quindi sgomento.
Nuove ansie si erano presentate al cospetto della sua anima.
Si sentiva il galleggiante di una lenza al cui amo è abboccato un pesce.
Tirato verso l'alto da un orgoglioso pescatore che non vuol perdere la sua cena e allo stesso modo spinto verso il fondale più profondo dallo spirito eroico di un pesce che non vuol lasciarsi vincere.
Lui, era là in mezzo. In certi tratti annegava e in altri poteva respirare a polmoni aperti.
In quel momento, stava vincendo il temerario pesce.
Gli sarebbe basto starsene semplicemente a galla, magari libero da una lenza che implica guerra o battaglia.
Si era fatta sera, a casa lo aspettavano per festeggiare il suo compleanno.
C'erano i parenti a cena.
L'imbrunire invase il paesaggio.
In fondo alla valle, alcuni ragazzi nuotavano nudi nel lago e urlavano come pazzi per una qualche gioia.
Demoniaca giornata, pensava, camminando a testa china verso casa.
Proprio davanti al portone dai pomelli di ottone, frugandosi in tasca alla ricerca delle chiavi, sentì il richiamo della scala .
Entrato che fu nell'androne, la scalinata in pietra serena che aveva sceso e salito migliaia di volte in tutta la sua vita, lo guardò negli occhi e sembrò imprecarlo di sedersi davanti a lei.
Sedersi ad ascoltare quello che gli stava per dire.
Non poteva dire di no alla sua scala e si sedette.
La scala, è la sirena buona che con le sue dolci parole più volte lo aveva aiutato.
Dopo un secondo, sua madre aprì la porta di casa e vedendo il figlio gli disse: “Carlo, ma cosa stai facendo seduto laggiù? Dai, è pronto vieni a tavola che ti stiamo aspettando.”
Entrò in casa con un falso sorriso.
Pacche sulle spalle e baci al tiramisù gli davano gli insulti di vomito.
Sperava che tutto finisse presto per potersi sedere davanti alla scala in pietra serena che forse aveva capito quel suo dolore.
Sicuramente lo aveva capito, bastava la pressione esercitata dai piedi di Carlo ad ogni scalino per renderla conscia di quale fosse il suo stato d'animo.
Crostini, lasagne, roastbeaf, patate al forno e tiramisù.
Il menù delle grandi feste, della sua festa.
Tavola imbandita con piatti e sottopiatti, bicchieri e bicchierini.
Il regalo più bello gli fu fatto da sua zia: un cactus in un vaso rosso che si curò di posizionare in camera.
Salutati tutti con la banale scusa di aver fissato con gli amici, Carlo uscì di casa e si sedette in fondo alla scala nel silenzio e nella penombra.
“Dimmi scala, dimmi.. .”
Con le mani ad annaspare nella folta chioma, si mise in ascolto della scala.
Poi, eccola che parla dal suo profondo odore di terra e di Toscana.
“Carlo.. Carlo.. Perché ti tormenti così? Ognuno ha momenti in cui tutto sembra sbagliato, in cui la tristezza diventa padrona del' essere e destabilizza.
Oggi è il giorno del tuo compleanno, ormai sei un uomo e cerca di non pensare troppo a quella sensazione opprimente che ti ammanta.
Non c'è nulla che non va, è la vita che alterna pioggia e sole.
É giusto che sia così, in giornate come questa che hai appena affrontato, ti sei reso conto che stai diventando grande, ti è servita per fermarti e riflettere.
Vorresti essere uno di quelli che sorride sempre?
Sai benissimo dove il riso abbonda...
Ti ricordi l'ultima volta che ci siamo parlati?
Eri in preda ai tormenti psicologici dell'adolescenza e io ti dissi che tutto sarebbe passato crescendo. Tu, mi dicesti che avresti voluto crescere presto.
Ora che sei cresciuto, ti dico che certe sensazioni vanno accettate e rispettate.
Servono ad ogni uomo per fermarsi e riflettere.
Sei una persona intelligente ed ora, io, ti tratto per quello che sei: un adulto.
La panacea per queste cose non esiste, sono cose normali e devi farne tesoro.
Goditi il giorno del tuo compleanno, ora divertiti e vivi. ”
Sollevato dalle parole della scala, ne fece tesoro e si tranquillizzò.
La lenza, sembrò essersi finalmente strappata.
Di fretta salì gli scalini a due a due e aprì la porta di casa.
“Carlo, ti sei dimenticato qualcosa?”
“No mamma, sono venuto a ringraziarvi tutti per esser stati qui a festeggiare il mio compleanno. Grazie zio e grazie zia. Prima non vi ho neanche salutato.
Ciao, grazie a tutti.”
Si tirò dietro la porta e scese nuovamente le scale.
Raggiunse gli amici, era il suo compleanno avrebbe deciso lui cosa fare quella sera.
Si diressero al lago e si gettarono nell'acqua nudi, a nuotare.
Sospeso a braccia aperte in mezzo al lago, sorretto da eureka, si sentì leggero come una mosca.
Come la mosca.
L'acqua fredda del lago, gli aveva levato da dosso anche quell'agrodolce tanfo che sentiva su di sé.
Galleggiava e si sentiva grande.
La stella polare fissata in cielo, osservata facendo il morto, lo fece sentire parte di un universo che da quel giorno, avrebbe affrontato da adulto.
Buon diciannovesimo compleanno Carlo.

sabato 14 maggio 2011

"Ho finito".



“Là, ero seduto laggiù. Non sono certo però, ora sono
confuso.

Spiegami quello che è successo.

Anche solo con un gesto, mi basta un' espressione del tuo
volto per capire.

Adesso che succederà?

Ho finito?

Sei tu?

Io chi sono?

Parlami, toccami e dimmi che sono qui con te.

É Tutto finito?

Ti ho trovata?

Sarà davvero l'ultima?

Che ore sono adesso?

Sei tu davvero?

Ero là e d'un tratto mi trovavo perduto nella nebbia, né un
punto di riferimento in lontananza né in me.

La densa nebbia mi avvolgeva completamente.

Ero solo.

Abituato a specchiarmi negli altri, non mi riconoscevo.

Non distinguevo i miei tratti somatici, il suono della mia
voce, le mie mani, le mie braccia e il mio corpo.

Non ero in grado di esistere.

Non ricordavo.

Poi rapidamente mi sono portato le mani davanti agli occhi e
le ho sbattute con violenza sulla mia faccia fino a
lacrimare.

Allora, sapevo di esistere.

Ero io.

Mi sono seduto a terra e ho abbracciato le mie ginocchia
fino a stringerle forte al petto.

Tremavo dal freddo e dalla paura.

Tremavo per il non sapere cosa stesse succedendo.

Poi, ho chiuso gli occhi.

Il vuoto del buio ha iniziato lentamente a colorarsi.

Ho iniziato a ricordare.

Prima i colori, poi i sapori, gli odori, la forma, il peso e
il ritmo delle cose.

Vedevo me stesso, ricordavo me stesso.

Il lento ricordare che sembrava, è diventato poi crogiolo di
me.

Sembrava un sound metropolitano in cui si inseriscono danze
Country e dissolvenze Pop.

Basi Trance e scintille Jazz.

Folk e Minimal, Goa e Funky.

Un insieme di confusi ricordi ormai dimenticati.

Non potevo fermarli.

Pur volendolo, lo stop non si schiacciava ed ero ormai
rapito.

Costretto a nuotare affannosamente a delfino, nell'io dei
ricordi diventati piscina.

Non sapevo che fare.

Poi, istintivamente mi sono voltato per non prendere i
ricordi in faccia ma per osservarli tranquillamente una
volta passati.

Giratomi, li vedevo scorrere lenti, andavano piano davanti a
me.

Partivano da me.

Dell'immensità, io ero il confine.

Mormoravo a me stesso e la voce era la mia, tutto divenne
chiaro, molto chiaro.

Ciò che vedevo si rifletteva su di me lentamente, potevo
toccare, entrare dentro ad ogni frammento di me e avere il
tempo di riflettere sulle cose che in passato mi avevano
viziato l'anima, il corpo e la mente.

Stavo ammirando i miei primi anni di vita ed è successa una
cosa inspiegabile.

Ho visto la prima cosa che vidi in questa vita, poi d 'un
tratto, prima di sentirmi felicemente acqua, l'ultima cosa
che vidi nella scorsa vita.

É mutata quindi la mia voce e la mia posizione.

Sono mutate le mie percezioni e i miei sentimenti.

Sono cambiati anche i personaggi della commedia che stavo
osservando, la trama, l'ambiente, le forme, i colori e i
sapori.

Era un'altra vita.

Un'altra vita da me vissuta.

Vita, acqua, vita poi acqua e di nuovo vita.

Sono stato guerriero, schiavo, faraone, macellaio e donna.

Un perpetuo ripetersi di storie.

Ho rivisto e rivissuto molte vite e ogni ricordo si
ricollocava al suo posto negli infiniti calchi del mio
essere.

In ogni vita, ero sempre alla ricerca di qualcosa e
perennemente dispiaciuto per non averla trovata.

Costretto a rinascere per non averla trovata.

Ora sto piangendo, ma in realtà non so chi sia a farlo.

Che “io” piange?

L “io” di che vita?

Forse piange il mio essere.

Essere che è diventato finalmente consapevole che “essere”
non significa essere un corpo.

Ho visto.

Ho capito.

So chi sei.

Ti stavo cercando.

Ora dimmelo, ti prego dimmelo.

Ti ho trovata?

Posso smettere di cercare?

Nelle vite che ho rivissuto, ero sempre alla ricerca di
quegli occhi che sono i tuoi occhi.

Sono confuso, ma ho capito.

Sarò libero?

Ho finito di morire e poi rinascere?

Sarò per sempre acqua?

Dimmelo, ho finito?

Questa è la mia ultima vita.

Poi, finalmente, sarò per sempre acqua.

Lo sento, ti ho trovata.

E' l'ultima lo so.

Ho finito.”

martedì 10 maggio 2011

"Ho finito".



“Là, ero seduto laggiù. Non sono certo però, ora sono
confuso.

Spiegami quello che è successo.

Anche solo con un gesto, mi basta un' espressione del tuo
volto per capire.

Adesso che succederà?

Ho finito?

Sei tu?

Io chi sono?

Parlami, toccami e dimmi che sono qui con te.

É Tutto finito?

Ti ho trovata?

Sarà davvero l'ultima?

Che ore sono adesso?

Sei tu davvero?

Ero là e d'un tratto mi trovavo perduto nella nebbia, ne un
punto di riferimento in lontananza ne in me.

La densa nebbia mi avvolgeva completamente.

Ero solo.

Abituato a specchiarmi negli altri, non mi riconoscevo.

Non distinguevo i miei tratti somatici, il suono della mia
voce, le mie mani, le mie braccia e il mio corpo.

Non ero in grado di esistere.

Non ricordavo.

Poi rapidamente mi sono portato le mani davanti agli occhi e
le ho sbattute con violenza sulla mia faccia fino a
lacrimare.

Allora, sapevo di esistere.

Ero io.

Mi sono seduto a terra e ho abbracciato le mie ginocchia
fino a stringerle forte al petto.

Tremavo dal freddo e dalla paura.

Tremavo per il non sapere cosa stesse succedendo.

Poi, ho chiuso gli occhi.

Il vuoto del buio ha iniziato lentamente a colorarsi.

Ho iniziato a ricordare.

Prima i colori, poi i sapori, gli odori, la forma, il peso e
il ritmo delle cose.

Vedevo me stesso, ricordavo me stesso.

Il lento ricordare che sembrava, è diventato poi crogiolo di
me.

Sembrava un sound metropolitano in cui si inseriscono danze
Country e dissolvenze Pop.

Basi Trance e scintille Jazz.

Folk e Minimal, Goa e Funky.

Un insieme di confusi ricordi ormai dimenticati.

Non potevo fermarli.

Pur volendolo, lo stop non si schiacciava ed ero ormai
rapito.

Costretto a nuotare affannosamente a delfino, nell'io dei
ricordi diventati piscina.

Non sapevo che fare.

Poi, istintivamente mi sono voltato per non prendere i
ricordi in faccia ma per osservarli tranquillamente una
volta passati.

Giratomi, li vedevo scorrere lenti, andavano piano davanti a
me.

Partivano da me.

Dell'immensità, io ero il confine.

Mormoravo a me stesso e la voce era la mia, tutto divenne
chiaro, molto chiaro.

Ciò che vedevo si rifletteva su di me lentamente, potevo
toccare, entrare dentro ad ogni frammento di me e avere il
tempo di riflettere sulle cose che in passato mi avevano
viziato l'anima, il corpo e la mente.

Stavo ammirando i miei primi anni di vita ed è successa una
cosa inspiegabile.

Ho visto la prima cosa che vidi in questa vita, poi d 'un
tratto, prima di sentirmi felicemente acqua, l'ultima cosa
che vidi nella scorsa vita.

É mutata quindi la mia voce e la mia posizione.

Sono mutate le mie percezioni e i miei sentimenti.

Sono cambiati anche i personaggi della commedia che stavo
osservando, la trama, l'ambiente, le forme, i colori e i
sapori.

Era un'altra vita.

Un'altra vita da me vissuta.

Vita, acqua, vita poi acqua e di nuovo vita.

Sono stato guerriero, schiavo, faraone, macellaio e donna.

Un perpetuo ripetersi di storie.

Ho rivisto e rivissuto molte vite e ogni ricordo si
ricollocava al suo posto negli infiniti calchi del mio
essere.

In ogni vita, ero sempre alla ricerca di qualcosa e
perennemente dispiaciuto per non averla trovata.

Costretto a rinascere per non averla trovata.

Ora sto piangendo, ma in realtà non so chi sia a farlo.

Che “io” piange?

L “io” di che vita?

Forse piange il mio essere.

Essere che è diventato finalmente consapevole che “essere”
non significa essere un corpo.

Ho visto.

Ho capito.

So chi sei.

Ti stavo cercando.

Ora dimmelo, ti prego dimmelo.

Ti ho trovata?

Posso smettere di cercare?

Nelle vite che ho rivissuto, ero sempre alla ricerca di
quegli occhi che sono i tuoi occhi.

Sono confuso, ma ho capito.

Sarò libero?

Ho finito di morire e poi rinascere?

Sarò per sempre acqua?

Dimmelo, ho finito?

Questa è la mia ultima vita.

Poi, finalmente, sarò per sempre acqua.

Lo sento, ti ho trovata.

E' l'ultima lo so.

Ho finito.”





sabato 7 maggio 2011

"Liberata!"

Infiniti pensieri
diventano solide ossessioni.
Poi, le osservo mentre queste lentamente si appiattiscono e diventano fogli di carta.
Alzo il foglio e lo metto controluce.
Lo scruto e non vedo niente,
lo tocco ed è inconsistente.
Allora, con la matita
che rotea tra le mie dita,
voglio appuntare quello che percepisco dopo questa strana trasformazione.
Ma la matita è bianca e non si legge niente.
Mi metto dunque in ascolto della mia mente
perché la sento che, beata,
si gode la divina emozione
di essersi, finalmente, liberta.

mercoledì 4 maggio 2011

"Sensi."

Sono incantato ad annusare
questa tua liscia rotondità.
Gustosa da mangiare
e dolce da ascoltare.
Non posso più farne a meno.
Amo il tuo seno.

mercoledì 27 aprile 2011

"Il campo santo".

 
Laggiù, alla fine della strada, dove iniziano i prati e le colline, spuntano nei campi increspati e ondulati dal vento, colonie di margherite che sembrano atolli nell'oceano.
È Aprile, è normale.
Il gradevole sole di questa stagione, richiama situazioni ed immagini, che alleviano le pene passate nella stagione più fredda dell'anno.
La gente si scopre, la terra si colora, le gatte partoriscono e le rondini volano.
Solitamente, lui è sempre stato felice in primavera, quest'anno era tormentato.
Tra i fiori, là alla fine della strada, ha trovato quello particolare.
Infatti, proprio sul suo stelo c'è una scritta in stampatello, una minuscola scritta.
Ormai, lo sanno tutti che quel campo ospita tutti gli anni una margherita speciale, dove l'universo scrive un messaggio per l'umanità e dove ogni fiore è sacro.
Tutti gli abitanti di quel paesino al confine tra Toscana e Romagna, si ritrovano in quel campo il 25 di Aprile e con diligenza e precisione cercano quel fiore.
Alcune persone inventano macchine particolari, altre invece ci provano con una semplice lente e altre ancora ci vanno ad occhi nudi, senza strumenti, guidati da una mano divina che dovrebbe portarli proprio davanti a quella margherita.
Chi trova il fiore speciale: è l'eletto, il prescelto dal cielo, voluto da Dio per diffondere il messaggio.
Lui è andato là senza strumenti, ha osservato la prima margherita che si è trovato davanti e guardandola bene, scritta con un verde più scuro di quello dello stelo, ha notato la tanto famigerata massima da diffondere all'umanità.
Non si è sentito guidato o indirizzato, è stato un puro caso, una sfortuna.
Ha letto la minuscola frase a bassa voce e senza farsi vedere.
Poi una lacrima gli ha solcato il viso ed è andata a poggiarsi sulle labbra che, bagnate, divennero di un colore nuovo.
Gli tremavano le braccia e le ginocchia, non poteva diffondere tale messaggio.
Non poteva urlare tale scoperta.
Cacciatosi in tasca quella margherita, senza farsi vedere dalle altre persone, ha iniziato a correre verso casa.
Sono ormai due giorni che non dorme, legge e rilegge tale scritta.
Perché proprio a me questa sciagura?
Non credo a queste assurdità, non credo a queste stupidaggini.
Perché proprio io?”
Disteso sul letto, la sua testa era diventata il campo di battaglia di domande che sembravano montanti possenti al suo spirito dolente e di risposte vane che sembravano ganci deboli sganciati da un pugile dilettante.
La margherita gli roteava tra le dita ed era ormai appassita.
Poi ecco la soluzione a tutti i suoi problemi: bruciare la margherita.
"Nessuno saprà mai che io ho trovato quel fiore, continueranno a cercarlo all'infinito".
Infatti dalla finestra vedeva ancora persone camminare a carponi, alla ricerca del fiore speciale.
Persone alla ricerca del fiore e della gloria che questo consegna a chi lo trova.
Avvolto dal tormento e dai dubbi, combattuto tra il rivelare o no tale messaggio, trovò la forza di strusciare un fiammifero sulla superficie ruvida del davanzale della finestra e bruciare quella margherita.
Nessuno saprà mai il messaggio dell'universo destinato all'umanità, neanche voi blogger lo saprete.

martedì 19 aprile 2011

"Maledetta".

Ti corro dietro da una vita.
Maledetta lepre fatti prendere.
Mi sanguinano i piedi per il correre sugli scogli.
Ho i polpastrelli delle dita doloranti e le unghie nere, piene di terra, per il troppo scavare.
Esci, talpa, dalla tua tana.
Ho i pantaloni logori per il troppo di stare in ginocchio.
Poi mi alzo, mi distendo verso il cielo e mi sembra di sentire il tuo odore, ho la convinzione di sentire il tuo profumo.
Inizio a volare, credo di esserti vicino e di ronzarti attorno come una mosca sulla merda.
Ennesimo inganno.
Ho creduto di vedere i tuoi occhi, freschi e luccicanti da far gola a una gazza.
Ti ho vista là in fondo alla strada, mi sono avvicinato ma non eri tu e allora impaurito ho iniziato a correre.
È successo più di una volta.
Ti cerco in tutto, non smetterò di cercarti e di rincorrerti.
Fuggi continuamente, maledetta, ma prima o poi sarai mia.
Ti ho abbracciata e baciata quando non ero in me, ero strafatto di illusioni e sudavo fantasie.
Sei una fantasia.
Ecco, sei un abbaglio della mente.
Non esisti.
Qualcuno si convince di averti ma tu, in realtà, non ci sei.
Non esisti.
Maledetta.
Maledetta felicità.

giovedì 14 aprile 2011

"Caos".

La luce divenne inspiegabilmente più accecante.
Gli uomini e le cose persero totalmente la loro fisicità e si confusero tra le idee.
Il mondo non ospitava più tante lanterne luminose, specchio e riflesso di un' unica luce, ma un fiume immenso di brillantezza.
Mi sentii più leggero, divenni spirito errante.
Guidato da venti misteriosi, fluttuavo spensierato in un crogiolo di anime e di vita.
Questo corpo, che è zavorra, lo vidi cadere sotto di me come una farfalla perde la sua crisalide.
Ebbi la sensazione di essere una farfalla.
Farfalla o nulla, quel nulla che è tutto.
Fu un sogno magico dal quale mi sentii arricchito spiritualmente.
La mattina seguente, la pesantezza mi sommerse.
Piovve per tutto il giorno.
Il cielo sembrava dispiaciuto per avermi spiegato una piccola parte del suo mistero, di quello che è il nostro divenire, ciò che ci attende.
Annegavo nel mondo perché consapevole di essere in gabbia.
Pensai al profumo del seme, alle rughe di mio nonno, alle vibrazioni che percepisco nell'osservare la luminosità di un prato ghiacciato in gennaio.
Pensai alle onde, agli alberi, ai pesci, ai brividi di paura e a quelli di gioia.
Alle regole e alle eccezioni.
Se questa è un'illusione, un'illusione tangibile che però poi svanirà, allora cercherò di goderne ogni istante.
Vivrò ogni secondo, tutte le emozioni, ogni volto ed ogni gesto.
Poi sarà caos.
Quel caos incantato e dunque dalle logiche irrazionali.
Caos che ci attende.
Ci attende inesorabile.