domenica 24 luglio 2011

"Il risveglio".

Il telefono suona e mi sveglia da un sogno che ora non ricordo: è mia madre che mi chiede se va tutto bene.
Le dico di si e riattacco velocemente perché un brivido di freddo mi percorre la schiena, forti strizzoni mi destabilizzano e mi fanno muovere sul letto come un epilettico.
Mi torna in mente il sogno che ho fatto. Ieri sera, dopo tanto tempo, ho rincontrato la sorella di un mio amico e stanotte l'ho sognata che era diventata un vampiro e poi mi uccideva.
Ricordo i suoi occhi vermigli e bramosi del mio sangue, la sua debole figura da donna stanca e slavata che mordeva il mio collo bello lardoso.

Mi alzo, barcollo e tutto gira attorno a me.
Sembro il re.
Si, in un mondo di trottole.
Oppure uno yoyo impazzito nelle mani di un mago con le costole rotte
mentre si piega su se stesso
e non urla il suo tormento.

Sono anche incapace di camminare normalmente.
Sembro un ubriaco che è ad un passo dal coma etilico.

Mi giro rantolando e mi sento in bilico su un grattacielo,
sotto di me c'è il nero,
quello dei capelli tinti di mio zio Carmelo.
Ha i capelli che sembra un camorrista mio zio Carmelo.

Dondolo, oscillo, ho il busto in avanti, poi mi abbraccio il ventre perché sembra che tante bocche me lo stiano mangiando, chiudo gli occhi e sputo aria marcia dalla mia bocca asciutta.
È un fiato malato, da persona che sta marcendo all'interno.
Mi appoggio alla porta del bagno, la apro con irruenza.

C'è odore di candeggina e devo vomitare.
Sembra di essere al mare,
col mare in tempesta,
o di annusare i piedi di un adolescente dopo che è stato ad una festa.

Non resisto e vomito, imbratto il lavandino,
squilla nuovamente il cellulare e penso che è sul comodino.

Sbatto il mignolo del piede destro all'angolo del box doccia.

Ho la conferma che oggi è un giorno dannato,
di quelli da pensare che se non fossi nato c'avrei guadagnato.

Troppo pessimismo, eccessivo dire.
Ma quando sto male non ci sono con la testa.

Mi siedo sul gelido cesso, il cellulare continua a squillare, osservo le mattonelle bianche e piatte.
Mi viene in mente la sorella del mio amico, quella del sogno e che ieri sera ho incontrato,
è bianca e piatta come una di quelle mattonelle.
A giugno del prossimo anno, la sorella del mio amico, si sposerà.
Mi chiedo come si possa dividere il letto con un fantasma come lei.
É l'amore coi suoi misteri: rende ciechi e sorvola le apparenze.

Mi sento male, lacrimano i miei occhi assonnati.
Poi, mi sento finalmente liberato da un fardello pesantissimo
quando dal mio culo zampilla gelato color nocciola e pistacchio.

Faccio un forte respiro a pieni polmoni,
non per sentire l'olezzo che dal basso sale verso l'alto e impregna le pareti,
ma semplicemente per tranquillizzarmi e fare il primo respiro buono della giornata.

Mi sento un po' meglio.
Riacquisto lucidità.
Poi realizzo.

Quei negroni, l'impepata di cozze, il vino bianco, le birre, il kebab delle tre, la Ceres delle tre e cinque, in quel maledetto sabato sera tra amici, sono la causa di tutto.

Mi guardo allo specchio e mi sento un coglione, ho il viso più bianco della sorella-vampiro del mio amico.
C'è poco da fare, esco di rado e quando esco mi lascio troppo andare.

Tutti che mi dicono di uscire di casa e dimenticarmi per un po' i miei racconti, sono uscito e mi sono divertito, lo ammetto.

Mi faccio una doccia e spero che il dolore di oggi, sia soltanto fisico.

mercoledì 20 luglio 2011

"La mosca"

Passa davanti al mio volto stanco, nel buio argenteo di questa notte di luglio e si muove scattando a zig zag. Con la mano provo a prenderla, la manco, sono lento e lei è sufficientemente desiderosa di libertà da sfuggirmi.
Constatavo semplicemente quanto fosse attaccata alla vita.
Lo è quanto basta, sono felice per lei.
Quella mosca potrà ancora vivere.
In realtà non volevo prenderla, sono già la vittima di quello che ero e non voglio uccidere nuovamente, sarebbe la mia quinta vittima e anche se in natura non ci sono processi e reclusioni, non voglio ucciderla punto e basta.
Forse, potrei farlo senza problemi, senza provare rimpianti, potrei farlo e basta, magari giustificandomi dietro la frustrazione che mi ammanta da ormai tanto, troppo tempo.
Ma ho smesso di uccidere.
Non sono più un assassino.
Sento quelle urla in fondo al corridoio ma ormai cerco di non badarci molto, ci sono abituato.
Un frocio viene conteso tra due che si propongono di fargli da protettore e scoppiano continue risse.
Urla, lamenti laceranti, pianti, spasimi che logorano.
Ho la barba lunga, non ho intenzione di radermi fin che vivrò, mi sento uno di quei santoni indiani che si incontrano a quel crogiolo di matti sulle sponde del Gange, l'ho letto su di un libro trovato giù in biblioteca.
La lascio crescere, la barba, per sentirmi protetto dal mondo e far dire in giro che sono matto, mi difendo così qui dentro, con la maschera del folle.
Sono tutti matti qui dentro, cerco di mimetizzarmi, di confondermi tra di loro.
Mi sono adattato, credo sia spirito di sopravvivenza.
Dalle 13 alle 15.30, in quella che in gergo chiamano “ora d'aria”, nessuno mi parla, sono il matto che ha ucciso e tutti mi stanno distanti, ed io certamente non vado a cercarli.
Solo un tale grassissimo si avvicina a me per chiedermi sigarette, è un fottuto pazzo di quelli veri e non gli rispondo neanche più.
Non ho mai fumato e lui lo sa, in realtà mi fa pena perché lo imbottiscono di merda.
L'unica cosa buona che sono riuscito a fare per me stesso è stata questa, tenermi gli uomini a distanza e non fumare.
Anche a mangiare sono solo, alle 11.30 la guardia mi chiama per il pranzo e mi metto in disparte senza incrociare lo sguardo di nessuno, forse sono gli altri a tenersi lontani da me, non io da loro.
Forse mi temono.
Un ragazzo che ora spaccia coca, lo conosco da sempre, ma non ho mai parlato con lui.
Credo che anche lui sia un assassino, o almeno lo sia stato.
Ho anche preso il vizio di dondolarmi continuamente, di muovere il busto avanti e indietro, come gli autistici, come un vero matto.
Lo faccio per essere ciò che non sono, per proteggere me stesso.
Ho un pensiero persistente in questa mia testa da bastardo in questa notte di luglio, non riesco a perdonare a me stesso che è finita, che la mia vita è letteralmente finita, e forse, non ha mai avuto il tempo di iniziare veramente.
Distrutta e sfregiata da queste mie mani da uomo che non ha avuto il tempo per essere giovane.
Questo mio presente sarà il mio futuro, è dannoso per me stesso credere che prima o poi potrò uscire e tornare finalmente libero di godere il mio tempo restante prima della fine, quella del corpo intendo, la mia anima è ormai perita nella muffa e nel salnitro che riempie queste lerce pareti colorate in un bianco che adesso è solo un color muffa chiazzato qua e là da un bianco che non intende lasciare il suo posto al perimento.
Sono la personificazione di uno di quie morti che le mie mani da ragazzino hanno stupidamente provocato.
Mi guardo le mani e sono ora mani da uomo.
Scorre il tempo, batte, segna con rughe e abbandoni.
Non ho più rivisto nessuno dei miei vecchi amici, solo mia madre e mia sorella ogni tanto passano a farmi una visita.
Invecchiato, sono invecchiato molto, la mia vita si è consumata qui dentro, in questo buco fetido a nord di Firenze.
Anche mia madre e mia sorella sono invecchiate e non ho potuto godere giorno per giorno il loro incanutire.
Sono solo come un cane, c'era un cane nella mia campagna che viveva solo in disparte, dormiva solitario tra i boschi, io la chiamavo Solo, veniva solamente per mangiare, ma non era del tutto solo lui, la sua era una scelta, un po' come la mia, ma solo un po'.
Solo, era solo come lo sono io, lui libero di errare nei boschi ed io nella mia stanza e c'è una bella differenza.
Cambierei il mio essere solo con l'essere solo di quel cane, ciecamente la cambierei.
Questa è una di quelle notti in cui scrivo senza pensare, lasciando al foglio e alla penna la possibilità di trafiggermi il corpo e scrutarmi l'anima, sbatterla e scuoterla fino a farla lacrimare, finalmente ravvivarla, provare ad accenderla per un poco, per smetterla di parlare mentalmente con il lavandino di ceramica che occupa l'angolo della parete sinistra sotto la minuscola finestrina dalla quale un po' di luce, facendosi forza, riesce ad entrare dalle sbarre, nei giorni di sole.
19 anni, 3 mesi, 8 giorni, 6 ore e qualche minuto.
Rinchiuso per un crimine commesso da un ragazzo che non sono più io.
Ora, sono solo il prodotto di quello che ero.
Ora, sono solo un finto matto che non accetta se stesso.
Avevo solo 14 anni quando sono entrato, adesso ne ho 33 e non sono più un uomo, sono un corpo che ascolta quel bastardo del tempo trascorrere inesorabile, tempo che mi lascia tra le mani il nulla che ho vissuto, il vuoto che mi distrugge.
Batte, continua a battere, insistentemente lui batte.
Compromessi, credo non sia possibile averne con lui.
Si arresta così, per inganno, solo in una di quelle strane notti in cui riesco a dormire.
Raramente riesco a dormire, in inverno è freddo, in estate è caldo, il cesso perde acqua continuamente, la stanza è insopportabilmente umida e schifosa, è lercia e tremendamente malsana.
Pagherò, sto pagando tutto, in parte ho già pagato, ma sono errori che marcano e impregnano lo spirito.
Non posso far altro che pagare e provare a dimenticare.
Non si dimentica, di prova semplicemente ad accettare ma non si dimentica, si convive con gli errori che diventano i maggiori nemici.
Vita sprecata la mia.
La televisione non l'ho voluta, vedere quello che succede fuori mi rende maledettamente più triste di quello che già sono.
Non esco mai sul ballatoio, c'è quel cazzo di marchingegno che rintocca i secondi, osservandolo, il tempo sembra scorrere ancora più lentamente.
Perché se ci penso, quello scorre piano ma costante, è questa la sua tecnica, il suo stratagemma per non essere mai stanco e fotterci tutti.
Le giornate sono infinite, lunghissime, interminabili, sono come le gocce del lavandino che perde acqua da sempre, ticchettano le gocce come lo fanno i secondi.
Mi guardo e vedo un uomo, un uomo che si chiede perché il tempo sia passato, se la pace in questa sua vita la troverà solo da morto.
Mi tengono compagnia i libri, ne leggo molti.
Caro tempo infame, sono un maledetto carcerato, forse morirò qua dentro se deciderai che sarà il mio tempo.
In molti, si sono ammazzati, io ci penso spesso.
Un tizio sano di mente, che ha capito che faccio finta di essere matto, vuole che partecipi ai loro corsi di pittura.
Prima o poi, spero di accettare questa mia situazione e perdonare me stesso per quello che ho fatto e ricominciare, o iniziare, finalmente,  a “vivere”.
Sarò libero tra ventidue anni e in questa notte di luglio, ammiro fortemente quella mosca tanto attaccata alla vita.
Forse, domani andrò a pitturare qualcosa, così, per ingannare il tempo, perché quella mosca mi ha dato un briciolo di felicità.

sabato 16 luglio 2011

"Al supermercato" Parte3 (finale).

Arrivo davanti al supermercato e questo è affollato di gente.
Non c'è un posto per la mia auto, faccio due giri pregando qualche santo nella speranza che possa indicarmi un parcheggio libero.
Guardo la porta del supermercato e Carla non c'è.
Poi la vedo uscire, ha una camicia celeste arricciata fino ai gomiti, una gonna bianca sopra il ginocchio, i dorati capelli sono sciolti sulle spalle, ha la testa china sul cellulare, è magica, splendente, la tristezza che vedevo in lei è sostituita adesso da un'aurea di assoluto incanto.
Il santo non risponde alle mie preghiere, non c'è posto per la mia auto.
Passo davanti a Carla, le dico di montare in macchina.
Lei sale su, prima di sedersi pulisce il sedile con la mano sinistra.
La guardo, le sorrido, lei ricambia, il suo profumo inebria nuovamente i miei sensi, lo fa meno tuttavia, di quanto l'ha fatto nel supermercato.
Iniziamo a parlare, non sembra più la Carla che ho conosciuto al supermercato, non è più un gattino indifeso che chiede aiuto disperatamente, accende una sigaretta e fuma da diva.
Resto spiazzato dal suo atteggiamento, penso che lei non è la Carla che ho conquistato.
Mi dice che i tipi come me le piacciono, le parti sembrano invertite, sono invertite, adesso è lei sta cercando di conquistare me.
Parla continuamente.
I suoi discorsi mi stordiscono, o forse è il caldo, i suoi occhi non dicono nulla, muove le mani con quelle sue lunghe dita affusolate, accavalla le gambe e vedo delle ballerine color carne ai suoi piedi che prima non avevo notato.
Non mi chiede né se sono fidanzato, né quanti anni ho, né dove la porterò.
La porto a casa, saliamo i gradini, nell'androne c'è fresco e mi sento riavere.
Si siede sul divano, le offro da bere e dice che vuole solo dell'acqua fresca.
La mia casa è buia e silenziosa, le persiane sono chiuse per non far entrare la calura.
Mi siedo vicino a lei, non mi chiede neanche se abito solo oppure con qualcuno.
Il mio cuore batte all'impazzata, la situazione è strana, molto strana.
Parliamo di nulla e di tutto, scopro che viene dalla Romagna, è arrivata la scorsa settimana, starà a lavorare in quel supermercato fino a Settembre e poi tornerà a Bologna per studiare.
Accende un'altra sigaretta e appoggia delicatamente la sua leggera mano ben curata sul mio ginocchio sinistro.
Resto di sasso.
Il cuore mi scoppia, vibra di imbarazzo.
Pensavo di essere stato io il cacciatore, invece è stata lei a cacciare me.
Qualcuno, la definirebbe “lupa”.
Non mi interessa più sapere che numero di scarpe porta, perché i suoi occhi mi sono sembrati tristi, quanti anni ha e se crede in Dio.
Sembro una statua di quelle con il bronzo ossidato, non parlo e non mi muovo.
Porta la sua bocca davanti alla mia, le nostre labbra si sfiorano, poi lei mi pianta la lingua in bocca ed io rispondo svogliatamente al bacio.
Io volevo baciare lei, non volevo che lei baciasse me.
Poi volevo baciare l'altra Carla, non questa Carla.
Porta con irruenza le sua mani sul mio petto, poi mi stringe, si siede sopra di me, è visibilmente eccitata, è una furia indomabile.
Non baciavo una bocca diversa da quella della mia ragazza da quattro anni, Carla cerca di attaccarmi il suo libido ma non ci riesce, la sua bocca non accende in me il desiderio.
Penso alla mia ragazza, alla cazzata che sto facendo, a Carla che non è la Carla che volevo, potrei lasciarmi andare e godermi un pomeriggio di peccato con una ragazza conosciuta in un torrido pomeriggio di giugno ma non ci riesco.
I nostri occhi sono vicinissimi, osservandoli spero di scoprire la sua anima ma non vedo nulla, solo occhi pieni d'acqua che non scorre e resta lì inerme quasi fosse congelata.
Le nostre bocche si staccano, io mi alzo in piedi e apro la finestra, entra luce e illumina il suo volto che al momento non ha espressione.
Non ho voglia di fare sesso con lei.
Cala si accende un'altra sigaretta, resto ad osservarle gli occhi, quei maledetti occhi.
Non è più al centro del mio universo, non è più al centro dei miei pensieri, è solamente seduta al centro del mio salotto sul mio divano blu.
Devo liberarmi di lei, sono stato ingannato dall'idea di una Carla morbida, delicata, pacata, leggera, indifesa, tormentata, che stupidamente intendevo guarire.
Non è tormentata, non è leggera, né delicata, è solo una ragazza sveglia in cerca di avventure.
Vengo avvolto dai rimorsi, penso alla mia ragazza, che forse con il pensiero e con quel bacio l'ho tradita, ho torto, ho peccato, ho sbagliato e in qualche modo l'universo mi porterà il conto.
Sono le sei, sento in fondo al corridoio che delle chiavi girano nella toppa, sta entrando qualcuno.
Se la mia ragazza mi trovasse con Carla sono finito e soprattutto finisce la nostra storia.
Ecco poi la conferma alle mie paure, è Giulia che rientra in anticipo dal lavoro.
Silenzio di tomba.
Giulia entra in salotto e vede Carla seduta sul divano, io sono disorientato e faccio finta di fare un caffè, caoticamente riempio d'acqua la moka, le mie mani tremano, non ho il coraggio di guardare Giulia negli occhi.
Mi volto e vedo Carla che sembra nuovamente il gattino tormentato che conobbi al supermercato, è inespressiva, pulita, apatica, con il volto sincero e incorruttibile.
Io no so che dire, sono ammutolito, la mia lingua sembra fuggita in chissà quale luogo, vorrei scomparire oppure svegliarmi da questo tremendo incubo.
Carla si alza in piedi, si presenta a Giulia e dice di essere mia cugina.
Io mi tranquillizzo, spero che Giulia ci creda.
Pare crederci, presento Carla a Giulia e le dico che starà in Toscana fino a settembre.
Giulia sembra crederci ciecamente, è tranquillissima, non c'è un atteggiamento di sgomento o di sorpresa sul suo volto.
Carla sembra essersi rimessa la maschera di ragazza pacata, dolce, delicata, si mette a chiacchierare con Giulia dicendole un monte di stronzate.
Sembra conquistare la mia Giulia con quel suo atteggiamento.
Carla parla lentamente senza mostrare stupore per l'accaduto, mantiene una tranquillità irreale, sembra di ghiaccio nonostante il suo corpo sia dolce e morbido.  
Porto loro il caffè e rimango sbalordito dalla freddezza di Carla, dalle cazzate che escono dalla sua bocca, dalla dialettica che sfoggia.
Giulia non ha il tempo di fare una domanda e Carla ha subito una lesta risposta.
Giulia mi chiede perché non le ho mai parlato di Carla, rispondo facendo il sorpreso e dicendole che molte volte ho accennato alla mia cugina romagnola.
Carla ride alle battute di Giulia, io faccio finta di essere divertito.
Tutto sembra essere andato incredibilmente per il verso giusto.
Carla mi dice di riportarla a casa, piega la testa e arriccia il naso mentre me lo chiede.
Giulia la invita a cena ma Carla declina l'invito con maestria.
Saliamo in macchina, mi scuso con Carla, le dico che sono un cretino, un bambino che non smette di giocare, condanno i miei atteggiamenti, le chiedo nuovamente scusa, l'ho presa in giro e mi sento in colpa, non sono stato sincero, espongo il mio dispiacere e sottolineo la mia stupidità.
In più, mi sento in colpa per Giulia e tutto quanto.  
Mi “complimento” con Carla per la freddezza dimostrata, per la lucidità avuta in un momento che per me è stato di puro terrore.
Ammetto nuovamente di essere un cretino.
Carla mi guarda e avvicina la sua bocca alla mia, nonostante tutto vuole baciarmi nuovamente.
Io mi scanso, sono sdegnato, resto immobile ad osservarle gli occhi.
Quegli tremendi occhi sono di ghiaccio, forse non si rende conto di quello che poteva succedere o di quello che è già successo, penso che sia incapace di provare sentimenti.
La sua anima, che ancora non sono stato in grado di scoprire, è probabilmente di ghiaccio come lo sono quei maledetti occhi da tremenda e viziosa ammaliatrice.
Penso che fino a settembre non tornerò più in quel dannato supermercato, non voglio più vedere quei maledetti occhi, quei dorati capelli, quei netti lineamenti e quelle ben curate mani.
Ma non c'è dubbio, l'idiota sono io.
Carla non ha colpe.
Il bambino viziato stanco dei suoi giochi, che considera anche uomini e sentimenti come un gioco, quello sono io.
Ora, me ne rendo conto.
È stata sicuramente una lezione sulla quale riflettere.
Forse un anno fa gli occhi di Carla non mi avrebbero colpito.
Ma questa è un'altra storia.

Fine.

lunedì 11 luglio 2011

"Al supermercato". parte2




Come avevo promesso a me stesso il giorno prima, torno al supermercato per vedere se la notte ha tolto il manto di tristezza che ammantava gli occhi di Carla.
Parcheggio la macchina nella fila E.
Non c'è una chiazza d'ombra, non c'è un albero in tutto il piazzale, il parcheggio è un deserto d'asfalto.
Mi sento un beduino che cerca acqua disperatamente, quell'acqua che forse è Carla, quell'acqua che è nei suoi occhi.
La vedo subito appena entro, è alla cassa numero tre.
Non ho niente da comprare, faccio un giro nel reparto dedicato ai libri e mi soffermo a sfogliare “Io e Te” di Ammaniti.
La finta settimana bianca mi incuriosisce, la cantina, la sorella, quel “caffè?” con il quale il libro esordisce mi catapulta subito nella situazione ed ho voglia di continuare a leggerlo.
Decido ti comprarlo, è a saldo, costa otto euro.
Gironzolo senza una meta tra gli scaffali stracarichi di roba, mi viene in mente che forse potrei comprare del pesce e cucinarlo a cena per me e la mia ragazza.
Ma no, c'è la carne comprata ieri.
Passo davanti alle bottiglie tutte lucidate a festa, la frutta variopinta, la verdura, i biscotti, il roseo colore della carne cruda nel reparto macelleria.
Passo davanti a tutta quella roba vedendola senza però leggere la storia che ogni prodotto racchiude.
Sono bramoso, smanio per osservare nuovamente quegli occhi.
Gironzolo a caso per perdere tempo.
Fuori è caldo, io sono sudato, sento i calzini che sono fradici e forse stinti nelle mie nuove Adidas verdi.
Appena uscito da lavoro sono corso al supermercato per sincerarmi delle condizioni di Carla.
Come se potessi guarirla, come se potessi liberarla dal suo tormento, come se io fossi un santone capace di liberare gli uomini dal dolore.
Alla cassa non c'è nessuno, io sono nel reparto dei detersivi e facendo finta di leggere qualcosa sul retro di un prodotto scelto a caso, scruto Carla. Lei, tiene tra le mani il cellulare, sembra annoiata.
Forse controlla se lui l'ha chiamata, forse si domanda perché non si è fatto risentire, forse attende uno squillo del padre per avere notizie della madre in ospedale.
Oggi non ha la treccia, i suoi capelli dorati sono semplicemente raccolti in una coda.
Decido che è il momento buono per avvicinarmi.
Voglio guardarla negli occhi.
Appena mi avvicino, vengo avvolto dal suo profumo il quale mi stordisce, sono frastornato, sembro rincoglionito, sono visibilmente disorientato.
Inciampo sui cestini arancioni che la gente lascia davanti alla cassa dopo aver poggiato sul nastro i prodotti scelti.
Ieri non aveva il profumo che ha oggi.
Quella fragranza la conosco, mi saltano alla mente confusi pensieri, visioni di corpi sudati, labbra accarezzate, un fremito mi percorre il corpo e non ho più la lucidità con la quale sono entrato nel supermercato.
“Hipnotic Poison” di Christian Dior.
Ecco il nome dell'essenza, era il profumo di una ragazza che conoscevo, siamo usciti per qualche sera alcuni anni fa: non che l'amassi, solo sesso.
Guado Carla con occhi diversi, le sorrido e le chiedo scusa per il casino che ho combinato.
Lei mi guarda, sorride, le guance leggermente arrossate, la bocca dolcemente aperta, la testa un poco inclinata.
Carla è timida, lo capisco perché non riesce a guardami negli occhi per più di qualche istante.
I suoi occhi, i quali il giorno prima mi avevano tanto colpito per la profonda malinconia che manifestavano, sono sempre tristi.
Guarda il mio libro, le domando se l'ha letto.
Risponde con un laconico no.
Percepisco però che quando mi parla i suoi occhi danno l'impressione di essere meno malinconici.
Le dico che fuori è un caldo allucinante, frase banale e stupida giusto per dire qualcosa, per constatare se la mia è stata solo un'impressione oppure parlandomi si sente davvero meglio.
Carla risponde pacatamente che fuori è davvero molto caldo, i nostri sguardi si incrociano e sembrano baciarsi, sento le nostre ciglia che immaginariamente si incastrano l'un l'altra.
Le osservo le pupille: sono dilatate.
Le piaccio, non c'è dubbio.
Le domando a che ora uscirà e cosa farà dopo. Lei mi dice che uscirà alle cinque, poi andrà da qualche parte, non ha impegni.
Sembra essersi sciolta.
Parla lentamente, a bassa voce, con toni soavi, inclina la testa ad ogni punto immaginario di ogni discorso.
Resto ad osservarle i denti bianchissimi, lattei, lucenti, sfavillanti, a tratti abbaglianti.
Il supermercato è deserto ed io vorrei stare per ore a parlare con Carla.
Mi butto.
Le dico che per il pomeriggio anch'io non ho impegni, la invito fuori.
Dice di no.
Insisto, sono curioso di vederla senza quel camice arancione, di vedere come cammina, come si muove fuori dal lavoro.
Vorrei sapere che musica ascolta, da dove viene, quanti anni ha, che numero di scarpe porta, se crede in Dio.
Dice di no nuovamente ma i suoi occhi la tradiscono, infatti, questi brillano, balenano di felicità, scintillano di gioia.
Persevero, sono convinto di averla in pugno.
Dice ancora di no.
Mi sento ferito, ma forse sono stato io a ferire quell'anima angelica, forse l'ho molestata, ma il suo volto pulito mi attrae enormemente, non so chi è e neanche se sia fidanzata.
Non so cosa mi è preso, voglio Carla per me.
Dice no.
Ma i suoi occhi l'hanno tradita, so di piacerle.
Pago in contanti.
Saluto Carla baciandole la mano liscia che infatti, come avevo immaginato il giorno precedente, sa di Nivea.
Mentre lo faccio mi sento uno di quei cavalieri medioevali alla corte di qualche altezzosa damigella.
Mi avvicino all'uscita, la porta scorrevole si apre davanti a me.
Poi, mi sento chiamare, è Carla che dice di averci ripensato.
La sento parlare con un tono alto, mi sembra impossibile, è in piedi rivolta verso di me, i capelli dorati luccicano sotto i neon, il suo dito destro rotea a mezz'aria come a dire “ci vediamo dopo”, mi dice che alle cinque mi aspetta davanti al supermercato.
Le butto un bacio e lei inclina il capo sorridendo.
Monto in macchina, proprio dopo aver chiuso lo sportello mi rendo conto di aver fatto una cazzata assurda.
Sono fidanzato da quattro anni, convivo da due, e non posso tradire la mia fidanzata con una tipa conosciuta da due giorni, così, forse conquistata solamente per esaltare il mio ego di uomo conquistatore.
Pescata in un supermercato forse per noia, per trastullo, per gioco, la cosa più giusta sarebbe di liberarla subito prima di farla morire.
Sono le tre, tra due ore avrò un appuntamento con una ragazza bionda col viso pulito, i denti bianchissimi, occhi verdi, un profumo che stordisce, delle guance da accarezzare, una bocca con labbra sottili che adesso muoio dalla voglia di baciare.
Mentre faccio la doccia non smetto di pensare a Carla, ho la sensazione di essere diventato il centro del suo universo e che lei lo sia diventata del mio, nonostante io sia già il centro di un universo e al centro del mio universo ci sia una ragazza che però non si chiama Carla.
È una cazzata, sento che è una cazzata enorme, ma la voglia di rivederla è troppa.
Osservo l'orologio appeso in cucina, sono le quattro.
Sfoglio il libro che ho comprato, non riesco a leggerlo, ho la testa altrove, penso a Carla.
La mia ragazza uscirà da lavoro alle otto, penso che forse potrei portare Carla a casa.
Profanare il luogo dove un amore come il nostro ha preso forma e sostanza è da vili, da bastardi, da esseri indegni all'amore.
Mi guardo allo specchio del bagno, osservo i miei occhi, cerco di penetrare infondo al mio spirito, mi porto le mani sulle tempie, poi sui capelli ricci e confusi.
Mi domando se il demonio mi stia mettendo alla prova, se il demonio esiste, se sia giusto o sbagliato cadere in tentazione, se Carla sia il demonio o un mezzo che questo usa per ingannarmi.
Entro in camera, guardo la sveglia appoggiata sul mio comodino in noce, guardo la sveglia sul comodino della mia ragazza, mancano venti minuti alle cinque e in me, combattono emozioni contrastanti.
Penso a Carla e sono felice, la situazione alla quale potrei andare in contro mi eccita enormemente, penso alla mia ragazza ma nel suo volto vedo i netti e allo stesso tempo delicati lineamenti della dolce Carla.
Se la mia ragazza facesse una cosa del genere, ovvero se scoprissi che ha un appuntamento con un ragazzo, la dipingerei con tutti gli aggettivi e sinonimi vicini a puttana.
Sono ancora in tempo per tirarmi in dietro ma non ci riesco, mi vesto, mi lavo i denti, mi pettino, chiudo la porta di casa quasi sbattendola, salgo in macchina e vado da Carla.

Continua...

mercoledì 6 luglio 2011

"Il gioco".

Vermiglio sangue scorre giù dal mio naso, passa sul mio petto e si ramifica fino a toccare terra.
Le mie gambe sono livide, lo sono le mie spalle, le mie braccia e la mia faccia.
Ho preso tante botte, bastonate, gomitate, schiaffi e sputi.
Sono indolenzito, ho dolore alle articolazioni, non ruoto bene il collo, ho due costole rotte, mi mancano cinque denti e ho il naso completamente spaccato.
Il sangue impregna del suo agrodolce olezzo il mio corpo esausto.
Questa sedia traballante mi sorregge con amore, la sento fredda sulla mia calda schiena.
È un freddo che mi ipnotizza e mi rende stranamente lucido.
Sorrido e sghignazzo: me ne infischio.
Gioisco e rido soddisfatto come se un fotografo stesse immortalando con interesse il mio torturato volto, come un pugile che alza il braccio sanguinoso dopo la prima agognata vittoria.
Rido perché è stata dura, ma ho vinto.
Sono sopravvissuto, chiamami veterano, superstite, o come meglio ti pare.
Certamente non ha finito, è sempre pronta a colpire quando meno te lo aspetti, mentre dormi o cammini per la strada spensierato.
Colpisce per prima per avere il vantaggio della sorpresa, non che sia malvagia, ti chiama semplicemente sul ring a combattere.
O forse lei è semplicemente una spettatrice, magari di quelle paganti.
Ti dice solo che è il tuo turno.
Poi, qualcosa mette alla prova il tuo corpo e la tua anima.
Forse, è semplicemente un gioco di resistenza.
Chiunque sia, aspetto volentieri altri pugni, altre spallate, pedate, gomitate e bastonate.
Questo corpo non lo guardo, allontano così il dolore, dai su che ti aspetto, non mi muovo sono qui.
Inizio a prenderci gusto, ti mostro la lingua in senso di sfida, il gioco mi piace.
Questo strano gioco che è la vita, mi piace.

mercoledì 29 giugno 2011

"Al supermercato". parte1.

Pacata, morbida, delicata, a tratti apatica, leggera come una Ms club azzurra, muove le sue mani ben curate silenziosamente, forse per non disturbare, oppure per non danneggiare i prodotti che lievemente volta dalla parte del codice a barre per sommarli al resto del conto.
È giovane, bionda dorata, Carla si chiama, lo leggo dal cartellino appuntato sul camice arancione.
I frigoriferi del supermercato, ronzano insistentemente, alcuni ventilatori muovono un'aria densa, corposa, calda.
Carla, porta attorno al collo un foulard di seta, forse, a starsene tutto il giorno lì seduta con il ventilatore puntato contro, le viene il mal di gola o quell'uggiolina che porta alla raucedine.
Ha i capelli raccolti in una treccia, di quelle che andavano di moda alcuni anni fa.
Ha un viso pulito, onesto, leggermente incipriato, incorruttibile e sincero.
Occhi verdi, quel verde che rimanda alla mente le estati passate al fiume con gli amici. Occhi verdi come l'acqua di un torrente illuminato dal sole: sono però occhi tristi.
Sono occhi di una ragazza di vent'anni o giù di lì, ma non sono occhi che brillano di giovinezza, non sono affatto luminosi, sono spenti, sbiaditi.
Sono infatti occhi tristi, velati di malinconia, disillusi, delusi, avviliti e forse angosciati.
C'è sicuramente qualcosa che la tormenta.
Ha un viso netto, un naso preciso e lucido.
Il suo sguardo è fisso in un punto, non sorride.
Il computer della cassa non riconosce il codice del prodotto che ha tra le mani, lei storge il naso in segno di disappunto e tre piccole rughe si formano sopra di esso.
Il cliente davanti a me, è visibilmente impaziente, sicuramente annoiato dalla lentezza di Carla.
Mi chiedo il perché della sua tristezza, forse il ragazzo l'ha lasciata, forse è incita, forse sua madre è all'ospedale.
Saluta il cliente che mi precede con un “grazie e arrivederci” dal tono stanco.
Le sue labbra, sono sottili, leggermente rosee, non sono labbra rosse e carnose da baciare.
È il mio turno, alza lo sguardo e fa un cenno di saluto.
Ripongo nella borsa gli acquisti che ho fatto in questo caldo pomeriggio di Giugno: un sacchetto di “Fisherman's Friend” al mentolo ed eucalipto che ho poggiato sul nastro mentre osservavo Carla, tre Redbull, cinque pesche, una cassa di cedrata, pane, uova, carne, pizze surgelate, deodorante, balsamo alle erbe, dentifricio e zucchero di canna.
Pago con il bancomat.
Mi passa con flemma lo scontrino e mi restituisce il bancomat, vorrei annusarle quelle mani, quelle lunghe dita affusolate: sono sicuro che prima di andare a letto è una di quelle che impiastra le sue mani di Nivea.
La saluto senza sventolare il fazzoletto, senza dirle addio: domani tornerò al supermercato per vedere se la notte, le ha tolto la tristezza dagli occhi.

Continua...

martedì 28 giugno 2011

"La scusa"

Una filo di bava cadeva dalla mia bocca e poggiava sul lenzuolo celeste, proprio in quel punto aveva formato una macchia di colore blu.
Stamani, dormivo beatamente tra le coperte arruffate.
Puntuale, alle 10.10, è suonata la sveglia.
L'ho spenta sbattendoci sopra la mano con l'irruenza di chi non accetta essere disturbato nel sonno.
Poi, mi sono riaddormentato.
Mi sono alzato alle 11, in ritardo, come sempre.
Mi sono lavato i denti, sciacquato il viso, vestito rapidamente e poi ho sceso le scale di furia rischiando di cadere ad ogni gradino.
Ho tirato fuori la bicicletta dall'androne.
Ho pensato che il capo, prima o poi, mi avrebbe licenziato per tutti i miei maledetti ritardi.
Ho svoltato in via dei Macelli, ho attraversato il solito stretto ponte sotto il quale scorre un filo d'acqua tra l'erba incolta, un gatto nero mi ha attraversato la strada.
Se non fossi stato in ritardo, forse, mi sarei fermato, ma lo ero e non ho dato importanza alla scaramanzia.
Non potevo incrementare maggiormente il mio ritardo.
Ho proseguito pedalando velocemente e mangiando anche qualche moscerino.
Arrivato in fondo alla strada, ho svoltato per un vicolo stretto e percorribile solo in un senso e ho visto una colonna di macchine con le quattro frecce accese, la prima cosa che ho pensato è stata: incidente, grave incidente.
Mi sono avvicinato al luogo dove credevo di trovare o una macchina tamponata o un passante buttato a terra.
Ma nulla di tutto ciò, fortunatamente, si è mostrato ai miei occhi.
Il primo della fila, con la sua Audi nuova di zecca, l'ho riconosciuto subito, era il mio capo.
Stava discutendo animatamente con un donna con l'aria da professoressa.
Ho domandato cosa fosse successo e il perché si fosse fermato formando una coda di più di dieci macchine dietro a sé.
“Un gatto nero ha attraversato la strada, io non passo.”
Mi ha risposto balbettando, visibilmente terrorizzato dall'accaduto.
Come se fosse stato derubato o pestato a sangue, se ne stava impietrito nella sua Audi lucida e lucente.
Aveva in dosso una camicia bianca di lino, pantaloni beige, scarpe di Prada e il suo solito Rolex al polso destro.
Poi ha aggiunto: “non azzardarti a passare con quella bicicletta, porti la maledizione dei gatti neri al ristorante, se passi ti licenzio”.
La donna, che sicuramente era una professoressa, cercava di spiegare al mio capo che i gatti neri non sono portatori di sfortune o maledizioni, ma lui, non si muoveva e non dava ascolto a quella bionda donna dal corpo snello e giovanile.
La prof, perchè secondo me lo era, con l'aria un pò isterica come tutte le professoresse, agitava le mani imprecandolo di procedere.
“Deve muoversi, dobbiamo lavorare, non può fermare il traffico così!”
Non era possibile superare quell'Audi, enorme e invadente, occupava tutta la corsia.
Un tipo abbronzato e con dei Ray-Ban stile aviatore, stava provando a superarlo con la sua Smart passando dal marciapiede ma, anche lui, nonostante la sua auto fosse minuscola, non è riuscito a farcela.
Ho pensato che se io avessi attraversato la strada, la maledizione ricevuta precedentemente sul ponte si sarebbe annullata.
Sono sceso dalla bici e ho attraversato la linea che, presumibilmente, il gatto aveva tracciato al suo passaggio.
“Non vale! Non vale!” Ha esclamato il capo “le persone a piedi sono immuni dalla maledizione, e non passarci con la bici che ti licenzio!”.
Nel frattempo, la coda di macchine si stava allungando a dismisura e mi aspettavo che qualcuno chiamasse la polizia da un momento all'altro.
Un uomo brizzolato è sceso dalla sua Fiat Panda e ha esclamato: “ Ha ragione quel tizio laggiù, i gatti neri portano male! Sono streghe travestite!”
Mi gustavo quell'assurda scena che vedeva il mio capo con le sue paranoie al centro della questione. La prof, era completamente fuori di sé, alcune persone erano scese dalle loro auto e avevano fatto gruppetto: sentivo che discutevano del probabile passaggio di Cassano dal Milan alla Fiorentina.
Ho sentito un fischio, mi sono voltato e ho visto il capo che mi faceva cenno di raggiungerlo.
Ho pedalato, sono stato distratto da una macchina completamente polverosa che esprimeva il suo disappunto per il lerciume che l'avvolgeva, sul vetro posteriore infatti c'era scritto: “lavami bastardo”, ho sorriso.
Ho raggiunto il capo e mi ha detto: “Lascia la bici nella mia macchia e vai a lavorare, vi raggiungo appena risolvo questa situazione. Dì agli altri che ho avuto un contrattempo, non dirgli il vero motivo del ritardo.”
Ho aperto il bagagliaio di quell'enorme Audi e la mia bicicletta è entrata precisa.
Ora, sono le quattro, mentre mangio questo fresco Liuk al limone e la stecca di liquirizia mi imbratta le mani, del capo non c'è traccia.
Forse, è ancora là nella stetta viuzza a convincere il mondo che i gatti neri portano male.
Sorrido nuovamente, sono felice: ho trovato una scusa per i miei ritardi.

sabato 25 giugno 2011

"Stasera esco".


Con il suo andamento blando e lacerante, la vita si conferma profondamente insoddisfacente.
Il lavoro, è stancante perché monotono e ripetitivo.
Conosco i gusti di tutti, il perché di certe scelte e le quantità necessarie ad ogni cliente.
Ma: “senza lavoro non si mangia”, siamo obbligati a lavorare, per dirla con mio nonno.
In giorni come questo, mi chiedo perché il mondo non risponda alle mie esigenze, il perché devo essere sempre io a piegarmi e non lui.
Mi stampo in faccia un finto sorriso del cazzo, maschera che copre la mia profonda delusione, e affronto ormai meccanicamente la mia stupida giornata.
Mi manca costanza, non Costanza la mia cugina che vive in California, ma la costanza nel fare le cose, nell'affrontare giorno per giorno un percorso che poi in fin dei conti non ha un maledetto traguardo.
Lo dice sempre mia madre, tu non hai costanza.
Fanculo alla costanza immateriale e quella grassa di mia Cugina.
Per un certo periodo, lo ammetto, sono stato stupidamente bene, affrontavo la vita come veniva e senza darle troppo peso.
Avevo i miei obiettivi davanti, mi sembrava di toccarli: pubblicare i miei racconti, mettere via un po' di soldi per iscrivermi all'università etc.. etc..
Ora non li vedo, la strada sembra avvolta da una fitta nebbia.
Sarà il caldo, i miei vestiti che in questo torrido sabato sera puzzano di soffritto di prezzemolo e aglio, ma la vita mi sembra un vile gioco di dati in cui vinci se sei solo un cazzone fortunato.
Mi sento un perdente, quale sarà il mio ruolo su questo pianeta malato non lo so.
Lo scrittore, questo vorrei fare, anche se vedo sotto a quei tuoi stupidi baffi un ignorante sorriso di disprezzo.
Utopie, un giorno vivevo di loro.
Oggi mi sento minuscolo in un mondo di giganti.
Forse, è perché ho smesso di fare yoga, o perché ho solo voglia di fare l'amore.
Il fumo esce denso dal mio naso, questa lampada comprata da Ikea sembra osservare curiosamente il mio sfogo.
No lampadina, questa non è una poesia o un racconto, questo sono io.
Ora mi faccio una doccia, esco, compro un pacchetto di Marlboro rosse e affogo la mia tristezza in una notte di stelle alcoliche.
Non rileggo il post, amo i miei errori ortografici da terza elementare.

Buon sabato sera a tutti.

sabato 18 giugno 2011

"L'ultima doccia"



Gemme splendenti scorrevano repentine sul suo corpo e poi raggiungevano terra per andare a confondersi con un' unica pozza d'acqua sotto ai suoi piedi.
Ormai, era deciso.
Sarebbe stata la sua ultima doccia.
Era stanco di tutti i tormenti che la vita gli aveva offerto. I suoi lamenti aleggiavano nell'aria trasportati dal vento e sembravano non voler raggiungere colei che tale maledizione gli aveva lanciato.
Non che volesse presentare il conto per farsi rimborsare o tanto meno per essere biasimato.
“Addio vita”, pensava, frastornato dalle gocce d'acqua che rimbombavano sulla sua testa.
Qualcuno capirà.
Se qualcuno vuol davvero capire.
Aveva calcolato tutto, la sua ultima giocata l'aveva fatta, il suo cavallo avrebbe vinto e i figli si sarebbero spartiti il guadagno.
Quella schedina se ne stava appoggiata sul tavolo del soggiorno e sarebbe rimasta lì.
Sicuramente, per i figlioli, sarebbe stato meno amaro il dispiacere.
Ormai erano cresciuti così, abbagliati dai soldi e solo così li avrebbe fatti felici.
Era deciso, nulla lo tratteneva più in quella sua vita.
Spense la doccia.
Si posizionò davanti allo specchio, con una mano tolse la condensa e creò un buco di realtà.
Il suo viso, con quella sua pelle olivastra, portava i segni della sofferenza e della tristezza.
Si fece la barba.
Era deciso, sarebbe stata la sua ultima rasatura.
Aprì il tappo del lavandino e l'acqua iniziò a correre giù per il tubo.
Alcuni frammenti di barba rimasero come spruzzati sul bianco della ceramica.
Poi, con le forbici, si tagliò tutti i suoi riccioli e formò un'ombra di capelli attorno alla sua debole figura da uomo stanco.
Con i capelli corti, sarebbe stato meglio.
Poi, Carmelo, si vestì.
Lo zaino era pronto nel corridoio vicino alla porta di ingresso.
Si mise i sandali, abbracciò il suo zaino e scese le scale.
Diceva basta alla sua vecchia vita: partiva per crearsene una nuova.
La moglie, lo aveva lasciato da ormai sei anni e si era portata con sé i figli.
Era costretto a vederli in giorni prestabiliti per un orario prestabilito.
Ora, erano grandi e avrebbero capito la sua scelta.
Forse.
Diceva basta all'attesa che lo stava logorando. Gli eventi avrebbero imboccato la strada della giusta risoluzione.
Lei, non sarebbe tornata: era in attesa del terzo figlio.
Il suo nuovo compagno, aveva colpito.
Carmelo, fu lasciato da lei per un commercialista: ora, loro abitano in collina in una villa con piscina.
Lei, fa la signora adesso.
Del resto, è stata coerente con se stessa, lo aveva sempre desiderato.
In qualche modo, Carmelo, aveva provato a diventare ricco, aveva studiato e si era impegnato.
Ma il suo sogno di diventare uno scrittore di successo svanì dopo le centinaia di porte che le case editrici gli sbatterono in faccia.
Fu un bimbo prodigio, destava meraviglia con le sue poesie e in molti avrebbero scommesso sulla sua carriera letteraria.
Anche la sua ex moglie.
Tutti rimasero delusi per i suoi insuccessi.
È un bibliotecario adesso, un lavoro rispettabile ma certamente meno retribuito di quello del commercialista.
Non può permettersi una Ferrari, la casa in montagna o al mare.
Lei, aveva sempre desiderato vestirsi con abiti di Gucci e girare per la città su una BMW, andare ogni sabato a cena al ristorante e far finta di conoscere il mondo e quindi essere in grado di giudicarlo.
Perché adesso, lei giudica il mondo.
Poteva spruzzarsi tutti i profumi che aveva sempre desiderato, mettersi le scarpe che aveva sempre sognato, adornarsi di stupidi gioielli e mostrarli in pubblico come se fossero gioielli dell'anima o medaglie per uno spirito benigno.
Carmelo, partiva per lasciarsi alle spalle tutte le fragranze della moglie che ormai gli davano la nausea, tutti i suoi gioielli e quella sua abbronzatura innaturale che le colorava il corpo.
Sarebbe andato dove il sole lo avrebbe guidato.
Così, alla cieca, senza mappe o bussole.
Per la sua ex, sarebbe stato un sollievo non averlo più tra i piedi.
Per lei, è solo un fallito.
Carmelo, partiva per liberarsi da quella sua vita, per liberarsi da quei suoi torbidi pensieri che lo avevano incatenato e dai quali, a fatica, riusciva a liberarsi.
Partiva per scrollarsi da dosso l'ansia che lo aveva ammantato, la corsa ansimante che aveva fatto e stava facendo per essere quello che, per sua moglie e per molti altri, avrebbe dovuto essere o diventare.
Non è né ricco, né uno scrittore di successo.
Ma adesso diceva basta a quella sua vita.
Nulla sarebbe stato più come prima.
Lei non sarebbe tornata e doveva levarsela dalla testa.
Bella, bellissima, lucente e magnifica.
Non smetteva di pensare a quei suoi occhi, a quei suoi biondi capelli, a quel suo atteggiamento da diva che lo aveva stregato.
Adesso, era inadatto per una come lei.
Carmelo, non avrebbe potuto darle tutti quegli stupidi gingilli che le dava il commercialista.
Poteva darle solo amore, quell'amore profondo e quasi platonico che lui sentiva dentro.
Ma a lei, non serviva amore per essere felice, servivano cose.
I figli, avrebbero certamente capito la sua scelta, sapevano delle ferite del padre.
Forse, solo il tempo lo avrebbero guarito.
Partiva per fare il vagabondo attorno al mondo.
Per smetterla di sentirsi disprezzato per quello che era, partiva per liberarsi dagli schemi della moglie che lo vedeva inadatto per stare insieme a lei.
Non si sarebbe lavato, avrebbe portato barba e capelli lunghi, gli stessi pantaloni logori e gli stessi sandali sfiniti.
Lo avrebbe fatto per ribellarsi a quello stupido mondo e dimostrare a se stesso di essere migliore di lei.
Non servono cose per essere felici.
Con la lontananza, forse, avrebbe accettato la scelta della moglie.
Carmelo, partiva alla ricerca del suo vero sé, non quello che per tanto tempo si era figurato di diventare o di essere per accondiscendere al volere altrui.
Forse, Carmelo, sarebbe tornato il vero Carmelo durante questo viaggio.
Partiva come un vagabondo alla ricerca di se stesso, uno zaino per valigia e il mondo come casa.
Le tappe, le avrebbe scandite la stanchezza.
Portava con sé anche un taccuino.
Nelle pause dei nuovi giorni, la sua anima avrebbe sicuramente ricominciato a sentire.

Carmelo, che sei nelle mia testa da questa mattina, io ti auguro un buon viaggio.