martedì 11 ottobre 2011

"Albero."

Vorrei essere un albero, ma sono la pagina ingiallita di un libro caduto dietro una scaffalatura marcia, nella cantina di una biblioteca abbandonata.
Aria chiusa dentro una bottiglia nell'oceano, peli nel lavandino in una casa di campagna alla malora.
Luci in lontananza, alba e tramonto, un sospiro ed uno starnuto, un sorriso allo specchio, il detto e ridetto, l'acqua santa e la personificazione del demonio.
Sono una ragnatela che si dondola al vento, lo sbadiglio di un gatto, il pane raffermo, la muffa nell'androne, lo spazzolone da buttare, le maniche arricciate della camicia di un contadino canuto.
Sogni, speranze, illusioni, gratificazioni e delusioni.
Puzzo di morto e profumo di santità.
Anima racchiusa in piscio ed in sperma, sangue che scorre giù dal naso e bagna le mani.
Mi guardo le mani.
Sono un uomo.
Delusione che cammina a testa alta e si guarda attorno, che sfida la tempesta ed ama sentire la pioggia picchiare e sbattere sulla propria testa fino a disturbare quei pensieri talmente irrazionali da essere maledettamente tangibili.
L'inganno come unica soluzione.
La pace come utopia.
Capitoli da riempire con sudore di passione.
Eccomi come uomo, sono un cieco senza cane e bastone che cammina agitando le braccia per trovare un appiglio e non cadere.
La sigaretta ormai spenta mi cade dalla bocca, io non sogno nessuna rivolta, nessuna città da assediare, nessun colpevole da imputare.
Ho visto un albero laggiù, proprio alla fine della strada, credo che mi siederò sotto di esso e forse ci passerò la notte.
Gli alberi mi fanno stare bene, mi riportano al principio, asciugano le lacrime, danno conforto e poi fanno ripartire, lo fanno in silenzio.
Vorrei essere un albero.

giovedì 29 settembre 2011

"Radio."

Fuori piove ed i vetri di casa grondano.
Piove a vento.
Mi domanda il senso del mondo, della vita.
Io non sono in grado di dargli una risposta.
Lo guardo con interesse, osservo le sue mani paffute, i suoi capelli ricci, la sua bocca carnosa, i suoi occhi marroni.
Ricordo i suoi occhi pieni di lacrime e la forza che dimostrò nel trattenerle tutte.
Nella foresta calpestammo il dolore, ci pisciammo sopra, lo prendemmo a calci, ci sputammo sopra con la convinzione che così facendo se ne sarebbe andato.
Mi dice che per lui la vita è un gioco in cui noi siamo pedine spostate da un bimbo bendato.
Muovo la testa dall'alto verso il basso e non dico nulla.
Passo lui la pallina da tennis, è davanti a me disteso sul divano blu.
Mi passa nuovamente la pallina e con la mano sinistra mi gratto il collo.
Fuori non smette di piovere.
Ho osservato con interesse le sue innumerevoli trasformazioni, i suoi mutamenti, la sua evoluzione.
Ho goduto ogni sfumatura di quel che era e godo adesso quello che è aspettando con impazienza quel che sarà domani.
Del suo divenire uomo, io sono testimone.
Ci passiamo la pallina, la radio è al giusto volume, solo una luce è accesa, fuori piove ed io sono con mio fratello che è ormai un uomo.

mercoledì 28 settembre 2011

"?"

Ci ricaschiamo sempre.
Parlo con me.
Parlo per me.
Io ci ricasco sempre.
Merda.
Allontano con la mano destra il cellulare che squilla, cade a terra e me ne fotto.
Alzo il volume dello stereo, voglio far tremare questo cazzo di palazzo tutto bello con le piante sui balconi.
Voglio sentire forte.
Voglio mescolarmi alle vibrazioni e perdermi nell'eco che va ad infilarsi in ogni angolo di mondo in questa umida sera di fine settembre.
Voglio svegliare tutti.
Voglio, voglio, voglio.
Voglio troppo e poi mi scoccio.
Tocco il muro e poi casco.
Cado a terra e mi rotolo nel fango.
Mentre rotolo m'accorgo di volere il fango, di godere nel fango, d'essere fango.
Merda.
Quante parolacce, tante parolacce.
Sono in trappola, certe parole dovrebbero sottolineare un certo stato.
Che stato?
Passo, questa non la so.
Che tu sia benedetto.
Cercare caffè in mezzo il mare, cercare il profumo dentro al puzzo, cercare un chiodo in un fosso.
Cerco e poi m'incazzo se non trovo ciò che cercavo.
Ancora non mi spiego come sia successo,
non è questo un processo,
è giusto per parlare,
senti il mare,
è dentro questa conchiglia,
ascolta.
Io sento dolore.
Tirami dietro una panchina,
poi portami in una qualsiasi cantina.
Vorrei aver sognato tutto.
Spero che domani sia nuovamente primavera per rinascere con un fiore e per morire con la neve.
Ci sono ricascato.
Merda.

martedì 20 settembre 2011

"Dubbio."

Sabato 27 agosto, ore 10.40 del mattino.
Composi il suo numero e lo chiamai.

-Carmelo ciao, sono io, Andrea.
-Ciao Andrea come stai?
-Abbastanza bene, che ne dici se passo a farti una visita nel pomeriggio?
-Volentieri, c'è qualcosa che non va?
-Vorrei parlarti, ho un dubbio.
-Ti aspetto qui, vieni quando vuoi.

Ore 16.00. Casa di Carmelo.
Biascicava quei brigidini e solo a ripensarci mi viene il vomito. Sembrava una mucca nella mangiatoia con quella sua schifosa lingua bianca da malato che mi mostrava ad ogni masticata.
Che schifo, da rabbrividire.
Si rivolgeva a me con aria da saccente osservando dalla finestra il suo prato ben curato, o forse, guardava semplicemente se stesso riflesso nel vetro della finestra: è un vanesio di quelli che fanno venire il nervoso.
Ogni specchio è buono per controllarsi il caschetto biondo.
Che uggia che mi fa venire con tutti quei versi, il narcisista, il divo, il dandy, il vate, nonché filosofo e poeta, roba da restare sui coglioni anche a se stesso se riuscisse a rendersene conto.
In accappatoio, con il dopobarba che ancora rendeva lucente il suo volto sbiadito, mi parlava di quello che per lui era il problema dei problemi, o uno dei tanti.
-É enorme l'enigma, un rompicapo tremendo, roba da perderci la testa.
Parlava sputacchiando.
Il tono della sua voce, sembrava suggerirmi di evitare ogni possibile ragionamento riguardo ai temi da lui esposti.
Non avrei alleggerito il suo fardello di domande e di dubbi ma anzi, avrei peggiorato la situazione.
Stetti in silenzio.
Ero lì per esporgli un mio problema, ci tenevo che mi ascoltasse.
Altezzoso e snob, caparbio ed egocentrico, il mio amico Carmelo Corsini si pone agli uomini come generalmente si usa fare con le formiche: non dando loro considerazione.
Carmelo si tiene a distanza da quello che succede fuori, gli basta una merdina di libro per capire, essere informato e poi partire con le sue assurde riflessioni.
L'esteta, l'amante del bello.
Ha una casa arredata con suppellettili che, a detta sua, hanno un valore inestimabile, a detta mia sono cose prese a caso in un qualsiasi mercatino di fine mese nella periferia più sperduta di una città del vattelappesca stato, nel vattelappesca continente.
Roba pacchiana.
Un ghepardo in ceramica, grande come un vero ghepardo, se ne sta in salotto a fare da guardiano.
Con questo, ho detto tutto.
No, anche la moquette amaranto è un particolare degno di nota, per non parlare degli angioletti dorati e dei violini sparsi per tutta casa.
Dopo un quarto d'ora, m'ero già pentito d'essere andato a trovarlo.
Ma dovevo parlargli, dovevo avere un suo parere, avevo in testa un cosa e dovevo parlarne con qualcuno.
Lui mi sembrava perfetto.
Proprio lui sarebbe stato l'unico a potermi aiutare.
-Carmelo, ho un dubbio e vorrei parlarne con te.
-Sei qui per questo se non sbaglio.
-Si. Risposi io chinando il capo.
-É un vero e proprio problema, Carmelo, credimi.
-Problema? La vita è un problema.
Mi rispose così e le palle mi cascarono letteralmente sulla moquette amaranto.
-Seriamente Carmelo, devo parlarti di una cosa importante.
Mi guardò, inclinò la testa e si mise in bocca altri brigidini.
Che schifo.
Poi parlò, ed indicando il giardino mi disse che avrebbe preferito andare là.
Un bel giardino il suo, col prato all'inglese, delle belle piante e molti alberi secolari.
-Hai un giardiniere?
-Si, un filippino che non capisce l'italiano, ma va bene, fa comunque un bel lavoro.
Ci sedemmo in giardino sotto il suo enorme gazebo.
Sempre in accappatoio, mi versò dello whisky nel bicchiere, whisky e bicchieri che si trovavano già sul tavolo di marmo attorno al quale ci sedemmo, come se fossero stati messi lì per l'occasione e probabilmente lo erano.
-Questo è strepitoso, scozzese, invecchiato vent'anni.
Mi disse, ammiccando compiaciuto.
Sono abituato al Jack daniel's, roba da poveri.
-Buono, ottimo.
Dissi sorseggiandolo.
-Di cosa volevi parlarmi?
Mi domandò distrattamente accarezzando un cofanetto di legno che se ne stava sul tavolo.
-Amico mio, sono un po' imbarazzato ma devo parlarne con qualcuno, tu mi sembri l'unico in grado di capirmi, vedi sto affrontando una fase delicata della mia vita e.....
Suonò il telefono, io non lo sentii ma Carmelo sì.
Corse in casa e ci stette per parecchio tempo, il tempo di sei sigarette per intenderci, e io fumo piano.
Stetti ad osservare il suo giardino, davvero bello.
Alcuni piccioni s'affacciarono dal tetto della villa e poi presero il volo.
Carmelo tornò imprecando qualcosa.
-Tutto bene? gli domandai. Mi sembrava nervoso.
-Si, quella stronza di mia sorella non riusciva a connettersi ad internet, non ci capisce nulla, mi fa venire il nervoso.
Sua sorella abita in Nigeria, commercia diamanti, è lei che manda avanti tutta la baracca.
-C'è riuscita?
-No, te l'ho detto, non capisce un cazzo.
Si passò le mani tra i capelli e sputò aria dalla bocca.
-Ti stavo dicendo Carmelo.
-Si, dimmi, ti ascolto.
Aprì il cofanetto di legno che accarezzava poc'anzi e un potente odore di marijuana avvolse i miei sensi.
-Ma che fai? Da quando fumi erba?
-Da poco, la coltiva il filippino che mi fa da giardiniere, me la regala.
Non dissi nulla ma restai sorpreso.
Mi riempii il bicchiere.
Restai ad osservarlo mentre preparava il tutto, sbriciolò una cima d'erma e l'avvolse nella cartina, mise il filtro, rullò bene e leccò la colla.
Pronto che fu, accese con forti boccate e denso fumo uscì dal suo naso per poi disperdersi nella calda aria di fine agosto.
-Ti stavo dicendo.
Dissi io mentre fumava.
-Ora fuma, ti libera la mente.
Mi disse lui passandomi quell'arnese fumante dopo aver fatto pochi tiri.
Fumai, non fumavo dalle superiori.
Guardavo i suoi occhi che s'erano socchiusi ed erano diventati rossicci.
-Mi dicevi?
Disse lui con le mani conserte.
-Come?
Domandai io, ero stordito come come se m'avessero fatto l'anestesia dal dentista e m'avessero stuzzicato la bocca per ore.
Poi dissi: -Ho un dubbio Carmelo, un vero dilemma.
Carmelo agitò le braccia come per salutare qualcuno, mi voltai e vidi un tipo alto non più di un metro, scuro di pelle, con delle forbici da giardiniere in mano e un cappello di paglia.
Il giardiniere filippino, appunto.
Richiamato dall'odore della sua erba, il giardiniere si sedette al tavolo con noi, gesticolò qualcosa e ci stringemmo la mano, poi anche lui preparò un altro spinello.
Morale della favola, alle sette di sera eravamo due cretini che si scaccolavano e ridevano ai versi stupidi del filippino.
Carmelo andò in casa a prendersi i suoi brigidini, tornò fuori e si mise a biascicare.
Era ormai l'ora di cena e decisi di andarmene, mentre ero in macchina mi domandavo se Carmelo avesse fatto tutto di proposito per non ascoltare quello che avevo da dirgli, colpa del fato o di non so che, ma avevo ancora i miei dubbi.
Parcheggiai la macchina vicino casa, percorsi a piedi tutta via Firenze e pestai una merda che un qualche bastardo aveva lasciato proprio in mezzo al marciapiede.
La pulii strusciando il piede nei giardini di piazza Dante, proprio sotto casa.
Ero in condizioni pessime, del tipo che vedevo orsetti bianchi fare capriole davanti a me e donne che andavano nude in bicicletta suonando il campanellino e fischiando.
Arrivai davanti al portone di casa, le ultime luci della sera rendevano lucenti i pomelli d'ottone, mi frugai in tasca ed infilai le chiavi nella toppa.
L'androne mi sembrava enorme, enorme come non l'avevo mai veduto prima.
Entrai in casa e andai subito in bagno per farmi una sana doccia rigenerante.
Il dubbio mi pulsava nella testa, batteva nella mia nuca e sembrava una di quelle palline di gomma che rimbalzano ed intraprendono traiettorie sempre nuove, quelle del mare per intenderci, quelle dei distributori che si comprano ai bambini.
Uscii dalla doccia e misi davanti allo specchio, pulii la condensa dal vetro e mi guardai negli occhi.
Mi sembrava di aver pianto per tutto il giorno.
L'orologio del bagno segnava le otto.
Pensai al mio amico Carmelo, al fatto che non avesse voluto la mia intromissione in quello che per lui era il “problema”, il suo “enigma”, il suo “rompicapo”, il suo “dubbio”, e che non avesse voluto che gli parlassi del mio.
Mi guardai nuovamente negli occhi e poi tutto mi fu maledettamente chiaro, Carmelo m'aveva mostrato senza dire, lo capii in quel momento.
Il "dubbio", siamo noi.

giovedì 15 settembre 2011

"Piero è tranquillo"

Metà mattinata, erano all'incirca le dieci e qualche minuto.
Stavo servendo Edda Carducci, una donna paffuta e antipatica.
Antipatica come l'operaio del comune che alle sette di ogni santo giorno, o taglia l'erba, o soffia le foglie proprio nei giardini sotto la mia camera da letto e di conseguenza mi sveglia.
Mi alzo nervoso e resto stordito per colpa sua, ne sono sicuro, i bastardi del comune fanno tutto la mattina presto per farsi sentire e poi vanno a nascondersi in chissà quale cantina fino all'ora di pranzo.
Bastardirubasoldi.
Ma torniamo a noi, il solito filoncino di pane e il solito etto di salame toscano tagliato sottile, erano già nella borsa dell'insulsa signora Carducci, fu lì che m'accorsi, guardando verso la porta, quello che stava succedendo nei giardini di piazza Dante, proprio davanti alla mia bottega.
Liquidai la signora con un rapido grazie e arrivederci, poi osservai meglio quello che stava succedendo.
Un enorme lombrico umano, strisciava silenzioso nei giardini e non capivo cosa potesse rappresentare.
Qualche processione?
Sciopero dei precari?
Protesta per gli storni che smerdano tutti i giardini?
Sciopero delle badanti?
Volevo andare a vedere ma la signora Bencazzi stava entrando in negozio e rimandai.
Qualche pera matura, delle pesche bianche e due pacchetti di diana rosse morbide.
Dodici euro di spesa e qualche spicciolo, arrotondai per difetto con la furia di andare a vedere cosa fosse successo.
-Fortunatamente, hanno aperto quello sportello, siamo tutti peccatori, non trovi?
-Che sportello?
Domandai alla signora Irma Bencazzi che sembrava aver dormito nell'armadio tanto puzzava di naftalina.
-Che sportello?
Domandai nuovamente a Irma alzando il tono della mia voce per farmi sentire, non sente un cazzaccio nulla e fa le domande, mi fa venire un uggia che le schiaccerei la testa sul registratore di cassa fino a farlo aprire.
Provai con lo spelling.
-C-H-E S-P-O-R-T-E-L-L-O-?
La signora Bencazzi sorrise, non aveva capito la mia domanda e andò via borbottando qualcosa in aramaico antico.
Roba da pazzi, scene di tutti i giorni e ancora mi chiedo chi mi dia la forza per andare avanti.
Uscii dal negozio e mi avvicinai a quel gruppo di persone silenziose e con la testa china che procedevano in fila, una fila stranamente ordinata lunga un centinaio di metri. Un vero e proprio lombrico.
“Sportello? Che cazzo di sportello hanno aperto per avere una fila così?”
Mi ponevo domande ma non potevo avere risposte, mai mi sarei immaginato una cosa del genere.
La testa del lombrico, sembrava infilarsi in quella che era un tempo l'officina di Walter Rizzilli, un puttaniere che riparava macchine, ricordo che con la scusa di gonfiare le ruote della bicicletta, avrò avuto dodici o tredici anni, guardavo i calendari con le donnine nude in pose alquanto provocanti.
Walterino, lo chiamavano così, mi regalò anche un calendario che nascosi in cantina per non farmelo beccare dai miei.
Ho rischiato di diventare cieco per colpa sua.
Insomma, dopo la morte di Walter, il fondo fu venduto a qualche pezzo grosso della chiesa.
Per farci cosa non lo so, immaginavo un laboratorio specializzato in produzione di ostie a qualche gusto esotico, o roba del genere.
Poi, mi trovai davanti al fatidico sportello.
Un tizio tarchiato e con l'auricolare mi fece presente di rispettare la fila, gli risposi che volevo solo vedere che tipo di sportello avevano aperto.
Delle suore distribuivano bicchieri d'acqua alle persone in fila.
Se vi dico che sportello hanno aperto quelli della chiesa, non potete cederci.
Da restarci secchi.
Io stentai a crederci e pensavo d'essere dentro la più assurda illusione ipnagogica, oppure d'essermi messo sotto la lingua un cartoncino di Lsd e d'essermene totalmente dimenticato.
Quando vidi l'insegna lampeggiante, stille bordello del Nevada, rimasi di sasso.
INDULGENZE.
Non potevo crederci e iniziai a schiaffeggiarmi la faccia.
I componenti del lombrico tenevano la testa china e le mani unite in segno di preghiera.
“Qui si sta perdendo la testa”, pensavo, mentre di passo svelto tornavo in bottega.
Ad aspettarmi, c'erano tre ragazzi che probabilmente s'erano appena fumati l'intera Giamaica, ridevano e si prendevano a sberle con quei loro occhi rossi e socchiusi.
-Ditemi ragazzi, avete bisogno di qualcosa?
Il tizio coi dred stile fiftycent, piegato in due dal ridere disse:- Indulgenze, un chilo!
Iniziai a ridere con loro, ma da ridere non c'era proprio nulla.
In pochi minuti mi trovai in bottega la signora Conti, le sue tre sorelle, la signora Maggi e Piero Calzolai.
Tutti erano soddisfatti per il nuovo sportello appena aperto.
-Giovane, ci sei andato?
-Ancora no caro Piero, tu ci sei stato?
-Si, con 200€ mi sono messo apposto con Dio, ora posso morire tranquillo.
-Capisco Piero, capisco..
Le sorelle Conti erano entusiaste, in serata sarebbero state apposto anche loro.
La più secca delle sorelle Conti mi guardò e mi disse:- approfittane figliolo, approfittane, siamo tutti peccatori.
Sorrisi, un sorriso amaro come il primo caffè della mattina: sarei andato volentieri con quei tre ragazzi a fumare erba.

Dall'altra parte dei giardini, vendono indulgenze perché siamo tutti dei peccatori.

sabato 10 settembre 2011

"Refait surface."


M'accollo le colpe per le questioni irrisolte.
Lo capisco e l'accetto.
Ma non è tutto, c'è un qualcosa di universale a farmi maledettamente male.
Sudato, con i piedi che mi lacrimano sangue, le mani lessate e la fronte corrugata, concludo questa mia giornata.
Coltelli affilati, vetri rotti, spine bramose di graffiarmi l'addome e selciato lastricato di pietre appuntite.
Eccola la strada nella quale mi trovo.
In molti si sono arresi,
eccoli là nella fossa,
son tutti morti con la testa rotta, fracassata, sbattuta, putrefatta e mangiata da cani randagi, uscita sotto forma di merda dagli stessi cani che adesso si grattano il culo strusciandolo a terra.
Menestrelli sdentati, esultano con gioia al ritorno del dolore.
É tornato, ma credo che non se ne sia mai andato, era nascosto nelle mie viscere, pronto a farsi vivo quando meno me lo sarei aspettato.
Eccolo che è tornato.
Sono costretto a saltare di palo in frasca, oggi c'è burrasca.

lunedì 5 settembre 2011

"Pesca".

Ma ad un tratto qualcuno, guardando fisso in lontananza, esclamò: “Guardate là, che cos'è?”
Sul mare, all'orizzonte sorgeva una massa grigia, enorme e confusa.
Le donne si erano alzate e guardavano, senza capire, quella cosa sorprendente mai vista prima.
Uno disse: “É la Corsica!” (tratto da: La Felicità. Maupassant)

Corsica, isola affascinante e misteriosa.
Maupassant, ne è profondamente affascinato e la menziona in molti dei suoi racconti.
Il mare è stupendo e pescoso, le montagne sono altissime ed ospitano capre che saltellano da una roccia all'altra, incuranti del pericolo.
La Corsica, è anche la meta scelta per le vacanze estive da due amici fiorentini i quali decidono di andarci con le rispettive famiglie.
Pace, tranquillità, relax e tanta pesca.
Ottimo dopo un anno di lavoro.
I due amici, uno riccioluto e l'altro rasato, sono appassionati di pesca d'altura.
Uno di loro, ha appena acquistato una nuovissima Al custom perfettamente equipaggiata e non vede l'ora di testarla, magari catturando un bel dentice o perché no, una bella ricciola.
Arrivati al porto di Bastia, le due famiglie si dirigono a Saint Florent dove una casetta immersa nel verde, che propone un ottimo panorama sul mare, li ospiterà per tutta la durata della vacanza.
Proprio al porto di Sain Frontent, è ormeggiata la nuova barca chiamata “Oligo”.
La sera stessa dell'arrivo sull'isola, i due pescatori si dedicano alla preparazione dei finali e allo studio della carta batimetrica cercando una secca dove andare a pescare.
Alle tre di notte, con il freddo e la luna a fargli compagnia, i due si dirigono al porto e partono alle ricerca di esche con le quali pescare.
L'esca che preferiscono è il calamaro.
Dunque, attirano i pesci con il vivo.
Passano molto tempo alla ricerca di calamari, il tempo speso alla ricerca di una buona esca è fondamentale.
Dopo qualche ora, hanno una vasca piena di molluschi pronti per l'innesco.
Nel frattempo, il sole sembra riemerge dallo specchio d'acqua salata e riscalda i due pescatori infreddoliti.
È l'albeggio, silenzio assoluto, il mare è liscio come il dorso di un pesce.
I due amici si guardano e sorridono, da un intero inverno attendevano quel momento.
Sono pronti, si dirigono alla secca individuata la sera prima, innescano un calamaro e calano l'esca in mare.
Procedono lentamente osservando le coste della Corsica, andatura attorno ai due nodi, si guardano e nei loro occhi brilla il desiderio di sporcare la barca con un bel animale.
Passano alcune ore e ancora neanche l'ombra di un pesce, il cielo sembra non rispondere ai loro desideri.
I due, sconfortati, mangiano alcuni panini preparati la sera prima, sono le dieci del mattino e il mulinello ancora non ha cantato.
Decidono di mettere in pesca una nuova canna.
I gabbiani, sembrano osservarli curiosi.
I due amici, parlano della vita, di tecniche di pesca e di altro.
Sono distesi e si godono il panorama, manca solo un bel pesce.
Il raffio, attende bramosamente un pesce da bucare.

-“TRRRRRRrrrrrrrrrrrrrrRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRrrrrrrrr....”
Il mulinello canta.
Strike.
Si alzano convulsamente e prendono posizione.
Centinaia di metri di lenza vengono ingoiati dal mare.
Poi una pausa.
Il tizio riccioluto afferra la canna e inizia il combattimento.
La sigaretta che era tra le sue mani finisce in acqua.
-“TrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRRRRrrrrrrrRRRrrrrrrrr...”
Che musica per le loro orecchie!
Il pesce è un osso duro e la lotta si fa intensa.
Adrenalina allo stato puro.
La canna è completamente piegata.
Cercano di mantenere la calma, l'altro pescatore è al timone e guida la barca facendo attenzione che il filo non vada sotto lo scafo.
Sono momenti concitati.
“TrrrrrrRRRRRRRrrrrrrrRRRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRR”
L'ultimo anello della canna è quasi in acqua.
Il pescatore urla la sua gioia.
Venti minuti di battaglia poi dal fondo del mare una chiazza bianca avverte loro che il raffio deve prepararsi a bucare.
Il tizio riccioluto ha le mani che vibrano dallo sforzo ma non sente la fatica: adrenalina in circolo.
L'uomo rasato afferra il raffio ed è pronto ad arpionare il pesce.
Siamo nelle fasi finali del combattimento.
È un momento delicato.
-“Stsch....” colpo secco e potente.
Il pesce è in barca.
Uno splendido esemplare di ricciola di 23 chilogrammi.
I due si guardano soddisfatti, la barca è stata battezzata.
Missione compiuta, si dirigono verso il porto di Saint Florent con un sorriso di soddisfazione stampato in faccia.
Il vento che plasma i loro volti, il sole che brilla sopra le loro teste, il pesce in barca: sono felici.
Arrivano al porto entusiasti della mattinata trascorsa, parcheggiano l'imbarcazione e la lavano con cura.
Portano la ricciola nella loro casetta immersa nel verde e la tagliano con attenzione.
Cena di pesce, le loro mogli ed i loro figli ne vanno ghiotti.

È sera, il sole, ormai scomparso, aveva lasciato tracce rosate del suo passaggio nel cielo, soffuso d'un polverio d'oro; e il Mediterraneo, senza un'increspatura, senza un brivido, calmo, ancora splendente, sotto la luce che andava morendo, sembrava una lastra di metallo levigata e immensa. (Maupassant)

I due pescatori vanno a letto presto, l'indomani sarà di nuovo pesca.

giovedì 1 settembre 2011

"Un cane abbaia, vorrebbe partecipare alla festa."


Un raggio di sole attraversa tende color panna e filtra in una cucina dove illumina un tavolo color mogano sul quale sapori antichi fanno gola ad un gatto bianco che osserva il tutto leccandosi i baffi.
Rossiccio e giallastro, il cielo sovrasta un giardino nel quale donne e uomini si stringono mani sudate.
Baci e saluti, abbracci e cinque sbattuti.
È l'imbrunire, siamo in Toscana.
Alte e stanche piante d'ortica si fan cullare dal vento.
Calici riempiti di vino si scontrano l'uno con l'altro.
Una chitarra, suona una ballata antica e semplice, elementare e familiare.
Una donna bionda e formosa, danza muovendo i fianchi.
Le colline dondolano silenziose.
Un tizio riccioluto riempie i bicchieri ed impone un brindisi alzando il braccio.
Un uomo tarchiato e tatuato, sta accendendo il carbone del barbecue.
Dita schioccano, bocche fischiano, lingue leccano e nasi annusano l'odore della campagna ingiallita.
Un uomo calvo, ha tra le mani una pila di piatti di ceramica e una tovaglia amaranto.
Un tizio abbronzato stende la tovaglia con un gesto ampio sul tavolo di legno.
Cavallette saltellano, cicale friniscono, un gatto miagola, un tacchino gorgoglia ed un moscerino vola scattando alla ricerca di qualcosa.
Il moscerino cerca se stesso, non si trova ed è nuovamente al punto di partenza.
Una ragazza incita, appena arrivata con un uomo brizzolato, entra in cucina e saluta le altre ragazze che la baciano e le accarezzano il pancione.
Sempre il tizio calvo, dispone sul tavolo i piatti.
Una ragazza bruna esce dalla cucina con una cesta di vimini piena di posate.
Il cielo è violaceo, il sole è pronto a nascondersi dietro le colline per poi infilarsi nel ventre della terra. La madre terra .
Dodici piatti, dodici bicchieri, dodici coltelli e dodici forchette.
Anche dodici tovaglioli vengono inseriti tra la tovaglia e le posate.
Due tabagisti, sono in disparte per non fumare vicino alla ragazza incinta e parlano fitto fitto.
Il tizio riccioluto, versa nuovamente del vino nei bicchieri.
Il sole è andato ma si lascia una scia di luce alle spalle.
È solo per qualche minuto, poi saranno la luna e le stelle ad illuminare la serata.
Una donna minuta e sottile, si gratta la nuca con veemenza.
Bottiglie, pane, cavatappi, ghiaccio e brocche traboccanti acqua sono al centro della tavola.
Alcuni zampironi emettono linee verticali di fumo.
Sempre il tizio riccioluto, porta delle sedie da dentro casa e le dispone al tavolo.
Arriva un ragazzo con la camicia e dei mocassini, ha tra le mani una confezione rossa con una coccarda dorata.
Ancora un brindisi, la ragazza incinta piega il capo e sorride.
Seduti, c'è un nuovo cincin e la ragazza gestante non trattiene lacrime che scivolano dal suo volto fino a raggiungere la gonfia pancia.
Una donna dai capelli rossi, che fino ad allora era stata in casa, esce in giardino con un pentolone fumante.
Forchette suonano sui piatti mentre bocche masticano.
Sul barbecue vengono disposte salcicce e bistecche.
Brindisi, applausi, risate e fischi.
La chitarra riprende a suonare e si mescola al canto dei grilli.
Ballano a piedi nudi, mangiano del dolce sorreggendo passito.
Una candela si consuma silenziosa.
Agitazione, frenesia, eccitazione e forse ansia.
Tutti appaiano così, anche questa specie di racconto.
La ragazza col pancione è seduta e attende pacifica, tra pochi mesi nascerà un pargolo e per il momento deve solo stare ferma ed aspettare.
Apparentemente, la panciuta, è calma e rilassata.
Apparentemente.
Un cane abbaia, vorrebbe partecipare alla festa.
Sì, sì, è una festa.
Laura è incinta.

domenica 28 agosto 2011

"Senzanome"



Non c'è un cazzo da ridere.
Ma proprio niente.
Non chiedetemi perché è morto, l'ha fatto e basta, è sempre stato uno spirito libero e credo abbia scelto di morire quando glie n'è venuta la voglia.
Era fatto così.
Per tutta la vita, ha fatto tutto quello che gli passava per la testa.
Ha scelto di morire e l'ha fatto.
Che bastardofigliodiputtana, potrei urlarlo per tutta la notte.
Come diavolo faccio adesso?
Cristo santo, che stronzo di merda.
Quello che mi fa incazzare, è che ha deciso di morire così, all'improvviso, senza avvertirmi.
Mi ha lasciato solo.
Passavo a trovarlo ogni notte e ci fumavamo una sigaretta insieme, anche due o tre.
Ci parlavo di tutto e ascoltava, girava la testa da destra verso sinistra per disapprovare e dal basso verso l'alto per acconsentire.
In silenzio, in rispettoso silenzio.
La sua bocca non emetteva suoni tranne qualche tossicone catarroso.
Non ho mai udito il suono della sua voce, magari era muto e non me ne sono mai accorto.
Se ne stava nei giardini di Piazza Dante, sulla sua panchina sotto i tigli.
Estate ed inverno, autunno e primavera.
Quella era la sua casa, il firmamento come tetto e i sassi come pavimento.
Si mescolava con le foglie in autunno, tra le merde degli storni in agosto e nel fango nei lunghi giorni di pioggia.
Cazzo se gli volevo bene, era come avere un'amante con la quale soddisfare ogni recondito desiderio erotico.
Mi fungeva da confessionale, o da psicologo, da persona che ascolta e non giudica, da persona che inconsapevolmente è in grado di guidarti silenziosamente alla verità.
Che teorie ha ascoltato, era un rifugio per la mia anima e la mia mente, mi permetteva di inventare il mondo, di disfarlo e di rifarlo al contrario.
Era una specie di terapia, una valvola di sfogo necessaria.
Come fumare oppio su una stuoia in riva al mare con le onde che ti accarezzano i piedi, spesso mi sentivo così mentre stavo con lui, lasciavo i miei pensieri liberi di fluttuare nell'universo alla ricerca di una meta illusoria, e lui ascoltava.
Aveva scelto di vivere nei giardini di Piazza Dante, ribellandosi al sistema e infischiarsi di tutto.
Era bello con tutti i suoi fagotti lerci tutt'attorno, il suo giaccone sfinito, quel cappello logoro e pulcioso.
Rideva spalancando la bocca tutte le volte che mi vedeva, un solo dente, un incisivo giallo e sicuramente malato.
-Che cazzo avrai da dirti con un malato di mente?
Questa è la domanda che l'amico Luca mi rivolgeva continuamente.
Malato di mente, si fa presto a giudicare.
Era un bastardo adorabile.
Anche il mio cane gli voleva bene, scodinzolava appena lo vedeva e si sedeva vicino alle sue gambe per ricevere carezze.
Lo vidi una mattina di maggio di due anni fa per la prima volta, spuntato all'improvviso come certi funghi che in una sola notte si presentando al mondo.
I primi tempi, mi piaceva osservarlo da lontano mentre fissava il cielo in cerca di qualche risposta.
Magari non aspettava nessuna risposta, esaminava l'universo semplicemente per trastullo.
Bastardo.
Bastardo.
É morto ieri mattina, l'hanno trovato gli spazzini mentre pulivano i giardini.
É morto in silenzio per non disturbare il mondo.
A chi cazzo dico adesso le mie stronzate?
“Bastrardofigliodiunaputtanaansimante, mi lasci solo in questo mondo di pazzi e te ne fotti di tutto.”
Il suo nome non l'ho mai saputo, so solo che stava sempre in silenzio e mi capiva.
Come lo chiamereste, homeless? Barbone?
Io, lo chiamavo Amico.
Mi nascondo dietro un lenzuolo per piangere, è morto il mio amico e non c'è proprio un cazzo niente da ridere.