lunedì 31 ottobre 2011

"La fine del mondo."


-Mi prendi per il culo? Dico io, ti sembra questo il momento di scherzare?
Provavo in tutti i modi a calmarlo e farlo ragionare, ma non mi dava ascolto.
Continuava a chiedermi se lo stavo prendevo per il culo e se mi sembrava quello il momento di scherzare.
Santo Dio, avrei voluto mettergli le mani addosso, picchiarlo e farlo svenire per non sentire più quella sua ansimante voce da pazzo sclerotico che ormai m'era entrata nella testa.
-Dai, rilassati un minuto ed ascoltami, non sta succedendo nulla, stai calmo e siediti.
Camminava per la casa freneticamente ed apriva con titubanza la tenda del soggiorno per vedere cosa stesse succedendo fuori.
Il paesaggio era buio, tutti i cani abbaiavano, gli uccelli cinguettavano e non c'era traccia di un passante per la strada.
-É la fine del mondo, io non voglio morire adesso.
-Non è la fine di nulla, è una cosa normale, succede di rado ma succede, stai tranquillo.
-Mi prendi per il culo?
Mio cugino solitamente faceva il grosso, si vantava di scopare più di ogni ragazzo della sua età, fumava per farsi vedere in giro e sembrare un grande, ma in realtà era un cacasotto di quelli numero uno.
Non riusciva a tranquillizzarsi, gli tremavano le mani e quel suo tic di grattarsi la testa nei momenti di panico divenne persistente.
Credo si sia sbucciato la testa quella mattina.
-Perché questo buio alle undici del mattino? Perché i cani sembrano impazziti? É la fine, me lo sento, moriremo tutti.
-La smetti di dire stronzate? Tra poco tutto tornerà alla normalità, anzi già questo è normale, ora basta con questa storia stupida e siediti.
-Il giorno del giudizio è arrivato.
-Sì, è la fine del mondo.
Gli dissi così per farlo contento e finalmente la finì di camminare senza senso per il salotto, paradossalmente, non so perché, in qualche momento si tranquillizzò.
Non mi lasciò finire di parlare e corse a nascondersi in cantina passando dalla scala interna della cucina.
Io avevo sedici anni e mio cugino diciotto.
Era un tipo secco e lungo infatti lo chiamavano “stecco” di soprannome, adesso ha trent'anni e la fissazione per la palestra l'ha fatto diventare un armadio.
É enorme, sembra un armadio di quelli che hanno nelle camere i genitori e dentro i quali c'è posto per la roba invernale e tutto, lenzuoli ed asciugamani puliti per tutta la famiglia compresi.
Anche per quei giubbotti usati e regalati da qualche parente che ancora non vuoi buttare perché pensi che in un futuro potrebbero tornare di moda.
Insomma, il nome è rimasto e gli amici lo chiamano ancora “stecco”.
Lo seguii in cantina e si sedette sulla poltrona della povera nonna ormai morta.
Mi chiese una sigaretta.
-Non fumo e non ce ne sono in casa di sigarette- risposi io facendo spallucce.
Iniziò a piangere disperatamente.
-Avrei voluto conoscere meglio mio padre, essere stato un bravo ragazzo, non aver rubato nel bar del Tagliaferri, non aver tradito Carla per Giada ed essere andato a messa ogni domenica come voleva nonna.
Aveva una voce affranta, dispiaciuta, angosciata e costernata mentre me lo diceva.
Accesi la luce della cantina con l'interruttore alla mia sinistra, il suo volto era mesto, rigato di lacrime e i suoi occhi velati di terrore, guardava un punto indefinito del pavimento sotto le sue ciabatte della fila.
Porco cane se era avvilito!
-Puoi rimediare, stasera dici a tuo padre che lo vuoi “conoscere”, ti presenti dal Tagliaferri e gli dici che hai rubato, domenica vai alla messa e poi dici a Carla che la ami.
Gli dissi io sorridendo, ero seduto sui primi scalini in vetta alle scale.
-Il domani non ci sarà, quel che è stato è stato, è giunta la fine, non c'è più tempo.
Poi, singhiozzando, mi mormorò:-Pantani però mi ha regalato delle belle emozioni, il Pirata m'è entrato nel cuore con le sue volate, l'anno scorso giro e tour, peccato per quest'anno.
-Tranquillizzati, vieni su con me e beviamoci qualcosa.
Abbracciai mio cugino che tremava come un pulcino bagnato e lo portai in salotto, stranamente mi dette ascolto.
Ci bevemmo un coca poi lentamente un po' di luce penetrò dalle tende ed illuminò la stanza.
Corremmo alla finestra e guardammo fuori, il sole era tornato e sembrava aver sconfitto le tenebre.
Mio cugino mi guardò e sorrise, capii che la morte gli faceva paura.
Era il 1999, l'anno di Benigni come miglior attore protagonista, dell'esclusione di Pantani dal giro d'Italia, della beatificazione di Padre Pio, del primo dei sette tour de France vinti da Amstrong, della vittoria del campionato del mitico Milan di Zaccheroni.
Fu anche l'anno dell'eclissi totale di sole, l'estate in cui mio cugino pensò che fosse la fine del mondo.
Fu l'anno in cui iniziai a volergli bene.

lunedì 24 ottobre 2011

"Mano."

Ciò che un giorno tenevo stretto in questa mano,
adesso l'osservo da lontano.
Eccola là, dietro quella porta,
silenziosa e allo stesso tempo assordante,
potente e soave,
leggera e pesante.
Ottima come il migliore degli auspici e necessaria come la peggiore delle sconfitte.
Partita per un viaggio del quale non so nulla, andata verso qualcuno che non conosco, scappata per capire se stessa e quindi decretare il mio destino che è tuttavia segnato, marcato sulla mia schiena da un fuoco che un tempo era amico.
Là, oltre quella porta, c'è un qualcosa che ormai appartiene al passato.
Sento il suo profumo, profumo di pane e di crostata alla marmellata, fragranza di me in un corpo di donna.
Come faccio a sopportare la sua assenza, come faccio ad affrontare il mio destino, come, come faccio stupido foglio e stupido cursore, ditemelo voi.
Adesso sono al tappeto ed il mio avversario continua a darmi calci in testa.
Uccidimi, finiscimi, ti prego distruggimi e poi lasciami in pace.
Con le mani unite come in una specie di preghiera pagana, la testa inclinata, il volto rigato da lacrime che poi vanno a bagnarmi le labbra, mi rendo conto d'aver perduto una parte di me.
Non capisco come questo sia potuto accadere, ma adesso è così.
Mi trastullo con l'idea di ciò che sarà di me domani, spero che il suo profumo torni ad essere il mio, che i suoi occhi sia nuovamente pieni di me e che il sole torni a brillare.
Piove, mi distendo sul prato e mi guardo la mano, un tempo c'era lei.

giovedì 20 ottobre 2011

"Sbagliati schieramenti."

Sì, è vero, la colpa è di chi crede che tutto sia come si manifesta e che tutto vada maledettamente bene.
Bastardi.
È colpa loro, dei dannati, ne ho la certezza.
Si sono arresi ed inconsapevolmente godono sapendo che anche tu sei ad un passo dalla resa.
Ma loro non lo sanno, sono ignorati, e si masturbano con l'idea che potresti passare dalla loro parte anche se non sanno di appartenere a qualcosa, di essere identificati con una “parte” e di essere un club con tanto di logo registrato.
Sborrano perché un qualcosa li eccita enormemente, perché sentono nell'aria che qualcuno è vicino, che qualcuno si unirà a loro.
Sembra ieri che pensavo a come poter alzare bandiera bianca, con quale mano alzarla, con che smorfia presentarmi all'ingresso del loro circolo, come vestirmi.
Mi avrebbero accolto con baci e pacche sulle spalle, offrendomi da bere, facendomi spazio sul loro divanetto in pelle d'elefante.
I bastardi sono cordiali, gentili, altruisti e senza dubbio possessori di un grande senso estetico.
Sicuramente avrei bevuto roba strepitosa dal retrogusto esotico, servita in appositi calici in cristallo lucente.
Una volti entrati, non se ne esce, è più forte di una qualsiasi cazzo di droga, dall'eroina ne esci ma da lì non si può.
La morte è l'unica soluzione.
Provo pena per loro perchè si sono arresi.
Nessuno ti obbliga a restare, sei tu che dimentichi tutto e credi che quella che stai vivendo sia la realtà.
Non provare a dire loro che tutto non è come sembra, che sono illusi, che stanno sbagliano: diventano cattivi e mostrano i denti come i lupi affamati.
Non ti sbraneranno: sono moralmente contro la violenza e la disprezzano fermamente.
Con la birra vecchia sulla scrivania, il lapis in mano e gli occhi stanchi, difendo la mia parte, la parte di chi non ci sta, di chi non si accontenta, di chi non è illuso.
Ma poi tutto volutamente si contraddice, le virgole diventano punti e le A, diventano Z.
Si mischiano le carte, si cambia il panno sul quale si giocava e chi ha sempre barato ha due assi in tasca restando dunque fedele a se stesso.
Fondamentalmente siamo tutti vittime, noi e quelli del club, chi bara fa finta di giocare e ci sfotte ridendo sotto i baffi.
Ma io non ci sto, e manifesto il mio disappunto con le parole di questo scritto.
Uccidiamo il baro.

martedì 11 ottobre 2011

"Albero."

Vorrei essere un albero, ma sono la pagina ingiallita di un libro caduto dietro una scaffalatura marcia, nella cantina di una biblioteca abbandonata.
Aria chiusa dentro una bottiglia nell'oceano, peli nel lavandino in una casa di campagna alla malora.
Luci in lontananza, alba e tramonto, un sospiro ed uno starnuto, un sorriso allo specchio, il detto e ridetto, l'acqua santa e la personificazione del demonio.
Sono una ragnatela che si dondola al vento, lo sbadiglio di un gatto, il pane raffermo, la muffa nell'androne, lo spazzolone da buttare, le maniche arricciate della camicia di un contadino canuto.
Sogni, speranze, illusioni, gratificazioni e delusioni.
Puzzo di morto e profumo di santità.
Anima racchiusa in piscio ed in sperma, sangue che scorre giù dal naso e bagna le mani.
Mi guardo le mani.
Sono un uomo.
Delusione che cammina a testa alta e si guarda attorno, che sfida la tempesta ed ama sentire la pioggia picchiare e sbattere sulla propria testa fino a disturbare quei pensieri talmente irrazionali da essere maledettamente tangibili.
L'inganno come unica soluzione.
La pace come utopia.
Capitoli da riempire con sudore di passione.
Eccomi come uomo, sono un cieco senza cane e bastone che cammina agitando le braccia per trovare un appiglio e non cadere.
La sigaretta ormai spenta mi cade dalla bocca, io non sogno nessuna rivolta, nessuna città da assediare, nessun colpevole da imputare.
Ho visto un albero laggiù, proprio alla fine della strada, credo che mi siederò sotto di esso e forse ci passerò la notte.
Gli alberi mi fanno stare bene, mi riportano al principio, asciugano le lacrime, danno conforto e poi fanno ripartire, lo fanno in silenzio.
Vorrei essere un albero.

giovedì 29 settembre 2011

"Radio."

Fuori piove ed i vetri di casa grondano.
Piove a vento.
Mi domanda il senso del mondo, della vita.
Io non sono in grado di dargli una risposta.
Lo guardo con interesse, osservo le sue mani paffute, i suoi capelli ricci, la sua bocca carnosa, i suoi occhi marroni.
Ricordo i suoi occhi pieni di lacrime e la forza che dimostrò nel trattenerle tutte.
Nella foresta calpestammo il dolore, ci pisciammo sopra, lo prendemmo a calci, ci sputammo sopra con la convinzione che così facendo se ne sarebbe andato.
Mi dice che per lui la vita è un gioco in cui noi siamo pedine spostate da un bimbo bendato.
Muovo la testa dall'alto verso il basso e non dico nulla.
Passo lui la pallina da tennis, è davanti a me disteso sul divano blu.
Mi passa nuovamente la pallina e con la mano sinistra mi gratto il collo.
Fuori non smette di piovere.
Ho osservato con interesse le sue innumerevoli trasformazioni, i suoi mutamenti, la sua evoluzione.
Ho goduto ogni sfumatura di quel che era e godo adesso quello che è aspettando con impazienza quel che sarà domani.
Del suo divenire uomo, io sono testimone.
Ci passiamo la pallina, la radio è al giusto volume, solo una luce è accesa, fuori piove ed io sono con mio fratello che è ormai un uomo.

mercoledì 28 settembre 2011

"?"

Ci ricaschiamo sempre.
Parlo con me.
Parlo per me.
Io ci ricasco sempre.
Merda.
Allontano con la mano destra il cellulare che squilla, cade a terra e me ne fotto.
Alzo il volume dello stereo, voglio far tremare questo cazzo di palazzo tutto bello con le piante sui balconi.
Voglio sentire forte.
Voglio mescolarmi alle vibrazioni e perdermi nell'eco che va ad infilarsi in ogni angolo di mondo in questa umida sera di fine settembre.
Voglio svegliare tutti.
Voglio, voglio, voglio.
Voglio troppo e poi mi scoccio.
Tocco il muro e poi casco.
Cado a terra e mi rotolo nel fango.
Mentre rotolo m'accorgo di volere il fango, di godere nel fango, d'essere fango.
Merda.
Quante parolacce, tante parolacce.
Sono in trappola, certe parole dovrebbero sottolineare un certo stato.
Che stato?
Passo, questa non la so.
Che tu sia benedetto.
Cercare caffè in mezzo il mare, cercare il profumo dentro al puzzo, cercare un chiodo in un fosso.
Cerco e poi m'incazzo se non trovo ciò che cercavo.
Ancora non mi spiego come sia successo,
non è questo un processo,
è giusto per parlare,
senti il mare,
è dentro questa conchiglia,
ascolta.
Io sento dolore.
Tirami dietro una panchina,
poi portami in una qualsiasi cantina.
Vorrei aver sognato tutto.
Spero che domani sia nuovamente primavera per rinascere con un fiore e per morire con la neve.
Ci sono ricascato.
Merda.

martedì 20 settembre 2011

"Dubbio."

Sabato 27 agosto, ore 10.40 del mattino.
Composi il suo numero e lo chiamai.

-Carmelo ciao, sono io, Andrea.
-Ciao Andrea come stai?
-Abbastanza bene, che ne dici se passo a farti una visita nel pomeriggio?
-Volentieri, c'è qualcosa che non va?
-Vorrei parlarti, ho un dubbio.
-Ti aspetto qui, vieni quando vuoi.

Ore 16.00. Casa di Carmelo.
Biascicava quei brigidini e solo a ripensarci mi viene il vomito. Sembrava una mucca nella mangiatoia con quella sua schifosa lingua bianca da malato che mi mostrava ad ogni masticata.
Che schifo, da rabbrividire.
Si rivolgeva a me con aria da saccente osservando dalla finestra il suo prato ben curato, o forse, guardava semplicemente se stesso riflesso nel vetro della finestra: è un vanesio di quelli che fanno venire il nervoso.
Ogni specchio è buono per controllarsi il caschetto biondo.
Che uggia che mi fa venire con tutti quei versi, il narcisista, il divo, il dandy, il vate, nonché filosofo e poeta, roba da restare sui coglioni anche a se stesso se riuscisse a rendersene conto.
In accappatoio, con il dopobarba che ancora rendeva lucente il suo volto sbiadito, mi parlava di quello che per lui era il problema dei problemi, o uno dei tanti.
-É enorme l'enigma, un rompicapo tremendo, roba da perderci la testa.
Parlava sputacchiando.
Il tono della sua voce, sembrava suggerirmi di evitare ogni possibile ragionamento riguardo ai temi da lui esposti.
Non avrei alleggerito il suo fardello di domande e di dubbi ma anzi, avrei peggiorato la situazione.
Stetti in silenzio.
Ero lì per esporgli un mio problema, ci tenevo che mi ascoltasse.
Altezzoso e snob, caparbio ed egocentrico, il mio amico Carmelo Corsini si pone agli uomini come generalmente si usa fare con le formiche: non dando loro considerazione.
Carmelo si tiene a distanza da quello che succede fuori, gli basta una merdina di libro per capire, essere informato e poi partire con le sue assurde riflessioni.
L'esteta, l'amante del bello.
Ha una casa arredata con suppellettili che, a detta sua, hanno un valore inestimabile, a detta mia sono cose prese a caso in un qualsiasi mercatino di fine mese nella periferia più sperduta di una città del vattelappesca stato, nel vattelappesca continente.
Roba pacchiana.
Un ghepardo in ceramica, grande come un vero ghepardo, se ne sta in salotto a fare da guardiano.
Con questo, ho detto tutto.
No, anche la moquette amaranto è un particolare degno di nota, per non parlare degli angioletti dorati e dei violini sparsi per tutta casa.
Dopo un quarto d'ora, m'ero già pentito d'essere andato a trovarlo.
Ma dovevo parlargli, dovevo avere un suo parere, avevo in testa un cosa e dovevo parlarne con qualcuno.
Lui mi sembrava perfetto.
Proprio lui sarebbe stato l'unico a potermi aiutare.
-Carmelo, ho un dubbio e vorrei parlarne con te.
-Sei qui per questo se non sbaglio.
-Si. Risposi io chinando il capo.
-É un vero e proprio problema, Carmelo, credimi.
-Problema? La vita è un problema.
Mi rispose così e le palle mi cascarono letteralmente sulla moquette amaranto.
-Seriamente Carmelo, devo parlarti di una cosa importante.
Mi guardò, inclinò la testa e si mise in bocca altri brigidini.
Che schifo.
Poi parlò, ed indicando il giardino mi disse che avrebbe preferito andare là.
Un bel giardino il suo, col prato all'inglese, delle belle piante e molti alberi secolari.
-Hai un giardiniere?
-Si, un filippino che non capisce l'italiano, ma va bene, fa comunque un bel lavoro.
Ci sedemmo in giardino sotto il suo enorme gazebo.
Sempre in accappatoio, mi versò dello whisky nel bicchiere, whisky e bicchieri che si trovavano già sul tavolo di marmo attorno al quale ci sedemmo, come se fossero stati messi lì per l'occasione e probabilmente lo erano.
-Questo è strepitoso, scozzese, invecchiato vent'anni.
Mi disse, ammiccando compiaciuto.
Sono abituato al Jack daniel's, roba da poveri.
-Buono, ottimo.
Dissi sorseggiandolo.
-Di cosa volevi parlarmi?
Mi domandò distrattamente accarezzando un cofanetto di legno che se ne stava sul tavolo.
-Amico mio, sono un po' imbarazzato ma devo parlarne con qualcuno, tu mi sembri l'unico in grado di capirmi, vedi sto affrontando una fase delicata della mia vita e.....
Suonò il telefono, io non lo sentii ma Carmelo sì.
Corse in casa e ci stette per parecchio tempo, il tempo di sei sigarette per intenderci, e io fumo piano.
Stetti ad osservare il suo giardino, davvero bello.
Alcuni piccioni s'affacciarono dal tetto della villa e poi presero il volo.
Carmelo tornò imprecando qualcosa.
-Tutto bene? gli domandai. Mi sembrava nervoso.
-Si, quella stronza di mia sorella non riusciva a connettersi ad internet, non ci capisce nulla, mi fa venire il nervoso.
Sua sorella abita in Nigeria, commercia diamanti, è lei che manda avanti tutta la baracca.
-C'è riuscita?
-No, te l'ho detto, non capisce un cazzo.
Si passò le mani tra i capelli e sputò aria dalla bocca.
-Ti stavo dicendo Carmelo.
-Si, dimmi, ti ascolto.
Aprì il cofanetto di legno che accarezzava poc'anzi e un potente odore di marijuana avvolse i miei sensi.
-Ma che fai? Da quando fumi erba?
-Da poco, la coltiva il filippino che mi fa da giardiniere, me la regala.
Non dissi nulla ma restai sorpreso.
Mi riempii il bicchiere.
Restai ad osservarlo mentre preparava il tutto, sbriciolò una cima d'erma e l'avvolse nella cartina, mise il filtro, rullò bene e leccò la colla.
Pronto che fu, accese con forti boccate e denso fumo uscì dal suo naso per poi disperdersi nella calda aria di fine agosto.
-Ti stavo dicendo.
Dissi io mentre fumava.
-Ora fuma, ti libera la mente.
Mi disse lui passandomi quell'arnese fumante dopo aver fatto pochi tiri.
Fumai, non fumavo dalle superiori.
Guardavo i suoi occhi che s'erano socchiusi ed erano diventati rossicci.
-Mi dicevi?
Disse lui con le mani conserte.
-Come?
Domandai io, ero stordito come come se m'avessero fatto l'anestesia dal dentista e m'avessero stuzzicato la bocca per ore.
Poi dissi: -Ho un dubbio Carmelo, un vero dilemma.
Carmelo agitò le braccia come per salutare qualcuno, mi voltai e vidi un tipo alto non più di un metro, scuro di pelle, con delle forbici da giardiniere in mano e un cappello di paglia.
Il giardiniere filippino, appunto.
Richiamato dall'odore della sua erba, il giardiniere si sedette al tavolo con noi, gesticolò qualcosa e ci stringemmo la mano, poi anche lui preparò un altro spinello.
Morale della favola, alle sette di sera eravamo due cretini che si scaccolavano e ridevano ai versi stupidi del filippino.
Carmelo andò in casa a prendersi i suoi brigidini, tornò fuori e si mise a biascicare.
Era ormai l'ora di cena e decisi di andarmene, mentre ero in macchina mi domandavo se Carmelo avesse fatto tutto di proposito per non ascoltare quello che avevo da dirgli, colpa del fato o di non so che, ma avevo ancora i miei dubbi.
Parcheggiai la macchina vicino casa, percorsi a piedi tutta via Firenze e pestai una merda che un qualche bastardo aveva lasciato proprio in mezzo al marciapiede.
La pulii strusciando il piede nei giardini di piazza Dante, proprio sotto casa.
Ero in condizioni pessime, del tipo che vedevo orsetti bianchi fare capriole davanti a me e donne che andavano nude in bicicletta suonando il campanellino e fischiando.
Arrivai davanti al portone di casa, le ultime luci della sera rendevano lucenti i pomelli d'ottone, mi frugai in tasca ed infilai le chiavi nella toppa.
L'androne mi sembrava enorme, enorme come non l'avevo mai veduto prima.
Entrai in casa e andai subito in bagno per farmi una sana doccia rigenerante.
Il dubbio mi pulsava nella testa, batteva nella mia nuca e sembrava una di quelle palline di gomma che rimbalzano ed intraprendono traiettorie sempre nuove, quelle del mare per intenderci, quelle dei distributori che si comprano ai bambini.
Uscii dalla doccia e misi davanti allo specchio, pulii la condensa dal vetro e mi guardai negli occhi.
Mi sembrava di aver pianto per tutto il giorno.
L'orologio del bagno segnava le otto.
Pensai al mio amico Carmelo, al fatto che non avesse voluto la mia intromissione in quello che per lui era il “problema”, il suo “enigma”, il suo “rompicapo”, il suo “dubbio”, e che non avesse voluto che gli parlassi del mio.
Mi guardai nuovamente negli occhi e poi tutto mi fu maledettamente chiaro, Carmelo m'aveva mostrato senza dire, lo capii in quel momento.
Il "dubbio", siamo noi.

giovedì 15 settembre 2011

"Piero è tranquillo"

Metà mattinata, erano all'incirca le dieci e qualche minuto.
Stavo servendo Edda Carducci, una donna paffuta e antipatica.
Antipatica come l'operaio del comune che alle sette di ogni santo giorno, o taglia l'erba, o soffia le foglie proprio nei giardini sotto la mia camera da letto e di conseguenza mi sveglia.
Mi alzo nervoso e resto stordito per colpa sua, ne sono sicuro, i bastardi del comune fanno tutto la mattina presto per farsi sentire e poi vanno a nascondersi in chissà quale cantina fino all'ora di pranzo.
Bastardirubasoldi.
Ma torniamo a noi, il solito filoncino di pane e il solito etto di salame toscano tagliato sottile, erano già nella borsa dell'insulsa signora Carducci, fu lì che m'accorsi, guardando verso la porta, quello che stava succedendo nei giardini di piazza Dante, proprio davanti alla mia bottega.
Liquidai la signora con un rapido grazie e arrivederci, poi osservai meglio quello che stava succedendo.
Un enorme lombrico umano, strisciava silenzioso nei giardini e non capivo cosa potesse rappresentare.
Qualche processione?
Sciopero dei precari?
Protesta per gli storni che smerdano tutti i giardini?
Sciopero delle badanti?
Volevo andare a vedere ma la signora Bencazzi stava entrando in negozio e rimandai.
Qualche pera matura, delle pesche bianche e due pacchetti di diana rosse morbide.
Dodici euro di spesa e qualche spicciolo, arrotondai per difetto con la furia di andare a vedere cosa fosse successo.
-Fortunatamente, hanno aperto quello sportello, siamo tutti peccatori, non trovi?
-Che sportello?
Domandai alla signora Irma Bencazzi che sembrava aver dormito nell'armadio tanto puzzava di naftalina.
-Che sportello?
Domandai nuovamente a Irma alzando il tono della mia voce per farmi sentire, non sente un cazzaccio nulla e fa le domande, mi fa venire un uggia che le schiaccerei la testa sul registratore di cassa fino a farlo aprire.
Provai con lo spelling.
-C-H-E S-P-O-R-T-E-L-L-O-?
La signora Bencazzi sorrise, non aveva capito la mia domanda e andò via borbottando qualcosa in aramaico antico.
Roba da pazzi, scene di tutti i giorni e ancora mi chiedo chi mi dia la forza per andare avanti.
Uscii dal negozio e mi avvicinai a quel gruppo di persone silenziose e con la testa china che procedevano in fila, una fila stranamente ordinata lunga un centinaio di metri. Un vero e proprio lombrico.
“Sportello? Che cazzo di sportello hanno aperto per avere una fila così?”
Mi ponevo domande ma non potevo avere risposte, mai mi sarei immaginato una cosa del genere.
La testa del lombrico, sembrava infilarsi in quella che era un tempo l'officina di Walter Rizzilli, un puttaniere che riparava macchine, ricordo che con la scusa di gonfiare le ruote della bicicletta, avrò avuto dodici o tredici anni, guardavo i calendari con le donnine nude in pose alquanto provocanti.
Walterino, lo chiamavano così, mi regalò anche un calendario che nascosi in cantina per non farmelo beccare dai miei.
Ho rischiato di diventare cieco per colpa sua.
Insomma, dopo la morte di Walter, il fondo fu venduto a qualche pezzo grosso della chiesa.
Per farci cosa non lo so, immaginavo un laboratorio specializzato in produzione di ostie a qualche gusto esotico, o roba del genere.
Poi, mi trovai davanti al fatidico sportello.
Un tizio tarchiato e con l'auricolare mi fece presente di rispettare la fila, gli risposi che volevo solo vedere che tipo di sportello avevano aperto.
Delle suore distribuivano bicchieri d'acqua alle persone in fila.
Se vi dico che sportello hanno aperto quelli della chiesa, non potete cederci.
Da restarci secchi.
Io stentai a crederci e pensavo d'essere dentro la più assurda illusione ipnagogica, oppure d'essermi messo sotto la lingua un cartoncino di Lsd e d'essermene totalmente dimenticato.
Quando vidi l'insegna lampeggiante, stille bordello del Nevada, rimasi di sasso.
INDULGENZE.
Non potevo crederci e iniziai a schiaffeggiarmi la faccia.
I componenti del lombrico tenevano la testa china e le mani unite in segno di preghiera.
“Qui si sta perdendo la testa”, pensavo, mentre di passo svelto tornavo in bottega.
Ad aspettarmi, c'erano tre ragazzi che probabilmente s'erano appena fumati l'intera Giamaica, ridevano e si prendevano a sberle con quei loro occhi rossi e socchiusi.
-Ditemi ragazzi, avete bisogno di qualcosa?
Il tizio coi dred stile fiftycent, piegato in due dal ridere disse:- Indulgenze, un chilo!
Iniziai a ridere con loro, ma da ridere non c'era proprio nulla.
In pochi minuti mi trovai in bottega la signora Conti, le sue tre sorelle, la signora Maggi e Piero Calzolai.
Tutti erano soddisfatti per il nuovo sportello appena aperto.
-Giovane, ci sei andato?
-Ancora no caro Piero, tu ci sei stato?
-Si, con 200€ mi sono messo apposto con Dio, ora posso morire tranquillo.
-Capisco Piero, capisco..
Le sorelle Conti erano entusiaste, in serata sarebbero state apposto anche loro.
La più secca delle sorelle Conti mi guardò e mi disse:- approfittane figliolo, approfittane, siamo tutti peccatori.
Sorrisi, un sorriso amaro come il primo caffè della mattina: sarei andato volentieri con quei tre ragazzi a fumare erba.

Dall'altra parte dei giardini, vendono indulgenze perché siamo tutti dei peccatori.

sabato 10 settembre 2011

"Refait surface."


M'accollo le colpe per le questioni irrisolte.
Lo capisco e l'accetto.
Ma non è tutto, c'è un qualcosa di universale a farmi maledettamente male.
Sudato, con i piedi che mi lacrimano sangue, le mani lessate e la fronte corrugata, concludo questa mia giornata.
Coltelli affilati, vetri rotti, spine bramose di graffiarmi l'addome e selciato lastricato di pietre appuntite.
Eccola la strada nella quale mi trovo.
In molti si sono arresi,
eccoli là nella fossa,
son tutti morti con la testa rotta, fracassata, sbattuta, putrefatta e mangiata da cani randagi, uscita sotto forma di merda dagli stessi cani che adesso si grattano il culo strusciandolo a terra.
Menestrelli sdentati, esultano con gioia al ritorno del dolore.
É tornato, ma credo che non se ne sia mai andato, era nascosto nelle mie viscere, pronto a farsi vivo quando meno me lo sarei aspettato.
Eccolo che è tornato.
Sono costretto a saltare di palo in frasca, oggi c'è burrasca.

lunedì 5 settembre 2011

"Pesca".

Ma ad un tratto qualcuno, guardando fisso in lontananza, esclamò: “Guardate là, che cos'è?”
Sul mare, all'orizzonte sorgeva una massa grigia, enorme e confusa.
Le donne si erano alzate e guardavano, senza capire, quella cosa sorprendente mai vista prima.
Uno disse: “É la Corsica!” (tratto da: La Felicità. Maupassant)

Corsica, isola affascinante e misteriosa.
Maupassant, ne è profondamente affascinato e la menziona in molti dei suoi racconti.
Il mare è stupendo e pescoso, le montagne sono altissime ed ospitano capre che saltellano da una roccia all'altra, incuranti del pericolo.
La Corsica, è anche la meta scelta per le vacanze estive da due amici fiorentini i quali decidono di andarci con le rispettive famiglie.
Pace, tranquillità, relax e tanta pesca.
Ottimo dopo un anno di lavoro.
I due amici, uno riccioluto e l'altro rasato, sono appassionati di pesca d'altura.
Uno di loro, ha appena acquistato una nuovissima Al custom perfettamente equipaggiata e non vede l'ora di testarla, magari catturando un bel dentice o perché no, una bella ricciola.
Arrivati al porto di Bastia, le due famiglie si dirigono a Saint Florent dove una casetta immersa nel verde, che propone un ottimo panorama sul mare, li ospiterà per tutta la durata della vacanza.
Proprio al porto di Sain Frontent, è ormeggiata la nuova barca chiamata “Oligo”.
La sera stessa dell'arrivo sull'isola, i due pescatori si dedicano alla preparazione dei finali e allo studio della carta batimetrica cercando una secca dove andare a pescare.
Alle tre di notte, con il freddo e la luna a fargli compagnia, i due si dirigono al porto e partono alle ricerca di esche con le quali pescare.
L'esca che preferiscono è il calamaro.
Dunque, attirano i pesci con il vivo.
Passano molto tempo alla ricerca di calamari, il tempo speso alla ricerca di una buona esca è fondamentale.
Dopo qualche ora, hanno una vasca piena di molluschi pronti per l'innesco.
Nel frattempo, il sole sembra riemerge dallo specchio d'acqua salata e riscalda i due pescatori infreddoliti.
È l'albeggio, silenzio assoluto, il mare è liscio come il dorso di un pesce.
I due amici si guardano e sorridono, da un intero inverno attendevano quel momento.
Sono pronti, si dirigono alla secca individuata la sera prima, innescano un calamaro e calano l'esca in mare.
Procedono lentamente osservando le coste della Corsica, andatura attorno ai due nodi, si guardano e nei loro occhi brilla il desiderio di sporcare la barca con un bel animale.
Passano alcune ore e ancora neanche l'ombra di un pesce, il cielo sembra non rispondere ai loro desideri.
I due, sconfortati, mangiano alcuni panini preparati la sera prima, sono le dieci del mattino e il mulinello ancora non ha cantato.
Decidono di mettere in pesca una nuova canna.
I gabbiani, sembrano osservarli curiosi.
I due amici, parlano della vita, di tecniche di pesca e di altro.
Sono distesi e si godono il panorama, manca solo un bel pesce.
Il raffio, attende bramosamente un pesce da bucare.

-“TRRRRRRrrrrrrrrrrrrrrRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRrrrrrrrr....”
Il mulinello canta.
Strike.
Si alzano convulsamente e prendono posizione.
Centinaia di metri di lenza vengono ingoiati dal mare.
Poi una pausa.
Il tizio riccioluto afferra la canna e inizia il combattimento.
La sigaretta che era tra le sue mani finisce in acqua.
-“TrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRRRRrrrrrrrRRRrrrrrrrr...”
Che musica per le loro orecchie!
Il pesce è un osso duro e la lotta si fa intensa.
Adrenalina allo stato puro.
La canna è completamente piegata.
Cercano di mantenere la calma, l'altro pescatore è al timone e guida la barca facendo attenzione che il filo non vada sotto lo scafo.
Sono momenti concitati.
“TrrrrrrRRRRRRRrrrrrrrRRRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRR”
L'ultimo anello della canna è quasi in acqua.
Il pescatore urla la sua gioia.
Venti minuti di battaglia poi dal fondo del mare una chiazza bianca avverte loro che il raffio deve prepararsi a bucare.
Il tizio riccioluto ha le mani che vibrano dallo sforzo ma non sente la fatica: adrenalina in circolo.
L'uomo rasato afferra il raffio ed è pronto ad arpionare il pesce.
Siamo nelle fasi finali del combattimento.
È un momento delicato.
-“Stsch....” colpo secco e potente.
Il pesce è in barca.
Uno splendido esemplare di ricciola di 23 chilogrammi.
I due si guardano soddisfatti, la barca è stata battezzata.
Missione compiuta, si dirigono verso il porto di Saint Florent con un sorriso di soddisfazione stampato in faccia.
Il vento che plasma i loro volti, il sole che brilla sopra le loro teste, il pesce in barca: sono felici.
Arrivano al porto entusiasti della mattinata trascorsa, parcheggiano l'imbarcazione e la lavano con cura.
Portano la ricciola nella loro casetta immersa nel verde e la tagliano con attenzione.
Cena di pesce, le loro mogli ed i loro figli ne vanno ghiotti.

È sera, il sole, ormai scomparso, aveva lasciato tracce rosate del suo passaggio nel cielo, soffuso d'un polverio d'oro; e il Mediterraneo, senza un'increspatura, senza un brivido, calmo, ancora splendente, sotto la luce che andava morendo, sembrava una lastra di metallo levigata e immensa. (Maupassant)

I due pescatori vanno a letto presto, l'indomani sarà di nuovo pesca.

giovedì 1 settembre 2011

"Un cane abbaia, vorrebbe partecipare alla festa."


Un raggio di sole attraversa tende color panna e filtra in una cucina dove illumina un tavolo color mogano sul quale sapori antichi fanno gola ad un gatto bianco che osserva il tutto leccandosi i baffi.
Rossiccio e giallastro, il cielo sovrasta un giardino nel quale donne e uomini si stringono mani sudate.
Baci e saluti, abbracci e cinque sbattuti.
È l'imbrunire, siamo in Toscana.
Alte e stanche piante d'ortica si fan cullare dal vento.
Calici riempiti di vino si scontrano l'uno con l'altro.
Una chitarra, suona una ballata antica e semplice, elementare e familiare.
Una donna bionda e formosa, danza muovendo i fianchi.
Le colline dondolano silenziose.
Un tizio riccioluto riempie i bicchieri ed impone un brindisi alzando il braccio.
Un uomo tarchiato e tatuato, sta accendendo il carbone del barbecue.
Dita schioccano, bocche fischiano, lingue leccano e nasi annusano l'odore della campagna ingiallita.
Un uomo calvo, ha tra le mani una pila di piatti di ceramica e una tovaglia amaranto.
Un tizio abbronzato stende la tovaglia con un gesto ampio sul tavolo di legno.
Cavallette saltellano, cicale friniscono, un gatto miagola, un tacchino gorgoglia ed un moscerino vola scattando alla ricerca di qualcosa.
Il moscerino cerca se stesso, non si trova ed è nuovamente al punto di partenza.
Una ragazza incita, appena arrivata con un uomo brizzolato, entra in cucina e saluta le altre ragazze che la baciano e le accarezzano il pancione.
Sempre il tizio calvo, dispone sul tavolo i piatti.
Una ragazza bruna esce dalla cucina con una cesta di vimini piena di posate.
Il cielo è violaceo, il sole è pronto a nascondersi dietro le colline per poi infilarsi nel ventre della terra. La madre terra .
Dodici piatti, dodici bicchieri, dodici coltelli e dodici forchette.
Anche dodici tovaglioli vengono inseriti tra la tovaglia e le posate.
Due tabagisti, sono in disparte per non fumare vicino alla ragazza incinta e parlano fitto fitto.
Il tizio riccioluto, versa nuovamente del vino nei bicchieri.
Il sole è andato ma si lascia una scia di luce alle spalle.
È solo per qualche minuto, poi saranno la luna e le stelle ad illuminare la serata.
Una donna minuta e sottile, si gratta la nuca con veemenza.
Bottiglie, pane, cavatappi, ghiaccio e brocche traboccanti acqua sono al centro della tavola.
Alcuni zampironi emettono linee verticali di fumo.
Sempre il tizio riccioluto, porta delle sedie da dentro casa e le dispone al tavolo.
Arriva un ragazzo con la camicia e dei mocassini, ha tra le mani una confezione rossa con una coccarda dorata.
Ancora un brindisi, la ragazza incinta piega il capo e sorride.
Seduti, c'è un nuovo cincin e la ragazza gestante non trattiene lacrime che scivolano dal suo volto fino a raggiungere la gonfia pancia.
Una donna dai capelli rossi, che fino ad allora era stata in casa, esce in giardino con un pentolone fumante.
Forchette suonano sui piatti mentre bocche masticano.
Sul barbecue vengono disposte salcicce e bistecche.
Brindisi, applausi, risate e fischi.
La chitarra riprende a suonare e si mescola al canto dei grilli.
Ballano a piedi nudi, mangiano del dolce sorreggendo passito.
Una candela si consuma silenziosa.
Agitazione, frenesia, eccitazione e forse ansia.
Tutti appaiano così, anche questa specie di racconto.
La ragazza col pancione è seduta e attende pacifica, tra pochi mesi nascerà un pargolo e per il momento deve solo stare ferma ed aspettare.
Apparentemente, la panciuta, è calma e rilassata.
Apparentemente.
Un cane abbaia, vorrebbe partecipare alla festa.
Sì, sì, è una festa.
Laura è incinta.

domenica 28 agosto 2011

"Senzanome"



Non c'è un cazzo da ridere.
Ma proprio niente.
Non chiedetemi perché è morto, l'ha fatto e basta, è sempre stato uno spirito libero e credo abbia scelto di morire quando glie n'è venuta la voglia.
Era fatto così.
Per tutta la vita, ha fatto tutto quello che gli passava per la testa.
Ha scelto di morire e l'ha fatto.
Che bastardofigliodiputtana, potrei urlarlo per tutta la notte.
Come diavolo faccio adesso?
Cristo santo, che stronzo di merda.
Quello che mi fa incazzare, è che ha deciso di morire così, all'improvviso, senza avvertirmi.
Mi ha lasciato solo.
Passavo a trovarlo ogni notte e ci fumavamo una sigaretta insieme, anche due o tre.
Ci parlavo di tutto e ascoltava, girava la testa da destra verso sinistra per disapprovare e dal basso verso l'alto per acconsentire.
In silenzio, in rispettoso silenzio.
La sua bocca non emetteva suoni tranne qualche tossicone catarroso.
Non ho mai udito il suono della sua voce, magari era muto e non me ne sono mai accorto.
Se ne stava nei giardini di Piazza Dante, sulla sua panchina sotto i tigli.
Estate ed inverno, autunno e primavera.
Quella era la sua casa, il firmamento come tetto e i sassi come pavimento.
Si mescolava con le foglie in autunno, tra le merde degli storni in agosto e nel fango nei lunghi giorni di pioggia.
Cazzo se gli volevo bene, era come avere un'amante con la quale soddisfare ogni recondito desiderio erotico.
Mi fungeva da confessionale, o da psicologo, da persona che ascolta e non giudica, da persona che inconsapevolmente è in grado di guidarti silenziosamente alla verità.
Che teorie ha ascoltato, era un rifugio per la mia anima e la mia mente, mi permetteva di inventare il mondo, di disfarlo e di rifarlo al contrario.
Era una specie di terapia, una valvola di sfogo necessaria.
Come fumare oppio su una stuoia in riva al mare con le onde che ti accarezzano i piedi, spesso mi sentivo così mentre stavo con lui, lasciavo i miei pensieri liberi di fluttuare nell'universo alla ricerca di una meta illusoria, e lui ascoltava.
Aveva scelto di vivere nei giardini di Piazza Dante, ribellandosi al sistema e infischiarsi di tutto.
Era bello con tutti i suoi fagotti lerci tutt'attorno, il suo giaccone sfinito, quel cappello logoro e pulcioso.
Rideva spalancando la bocca tutte le volte che mi vedeva, un solo dente, un incisivo giallo e sicuramente malato.
-Che cazzo avrai da dirti con un malato di mente?
Questa è la domanda che l'amico Luca mi rivolgeva continuamente.
Malato di mente, si fa presto a giudicare.
Era un bastardo adorabile.
Anche il mio cane gli voleva bene, scodinzolava appena lo vedeva e si sedeva vicino alle sue gambe per ricevere carezze.
Lo vidi una mattina di maggio di due anni fa per la prima volta, spuntato all'improvviso come certi funghi che in una sola notte si presentando al mondo.
I primi tempi, mi piaceva osservarlo da lontano mentre fissava il cielo in cerca di qualche risposta.
Magari non aspettava nessuna risposta, esaminava l'universo semplicemente per trastullo.
Bastardo.
Bastardo.
É morto ieri mattina, l'hanno trovato gli spazzini mentre pulivano i giardini.
É morto in silenzio per non disturbare il mondo.
A chi cazzo dico adesso le mie stronzate?
“Bastrardofigliodiunaputtanaansimante, mi lasci solo in questo mondo di pazzi e te ne fotti di tutto.”
Il suo nome non l'ho mai saputo, so solo che stava sempre in silenzio e mi capiva.
Come lo chiamereste, homeless? Barbone?
Io, lo chiamavo Amico.
Mi nascondo dietro un lenzuolo per piangere, è morto il mio amico e non c'è proprio un cazzo niente da ridere.

giovedì 18 agosto 2011

"Muratti & ciliegie."


Leggeva e si pettinava i capelli. 
Restai ad osservarla per alcuni minuti mentre con quel suo pettine rosso sembrava si mondasse la testa.
Tossì e poi accese una sigaretta, una di quelle col filtro bianco, una Muratti.
Posò la sigaretta nel posacenere.
Con un movimento lento e delicato, tolse dal pettine i capelli ormai perduti e li fece cadere a terra spargendoli come si usa fare col sale sull'insalata.
Ripose il pettine nel taschino della camicia.
Mi avvicinai.
Lei riprese a fumare, forti boccate riempivano la sua bocca di denso fumo.
Mi sedetti vicino a lei.
-Nonna, come stai?
Non rispose, ma poi si girò e mi guardò.
-Chi sei?
-Sono Andrea, tuo nipote.
-Mi fai così vecchia? Non ho nessun nipote, ho solo 16 anni. Fuori dai piedi sporco nazista.
-Sono Andrea, tuo nipote, non sono un nazista.
Riprese a leggere e a fumare senza badare a me, come se non esistessi e non fossi lì seduto su quella sedia di plastica bianca.
-Cosa leggi nonna?
Domandai grattandomi il collo, una zanzara mi aveva appena punzecchiato.
Mi guardò con la coda dell'occhio, scosse la testa e borbottò frasi illogiche.
-Questi sono per te, mettili nella tua camera se ti va.
Poggiai sul tavolo un mazzo di fiori colorati, lei mi guardò.
Proprio non mi riconosceva.
-Dai nonna, non percepisci niente nel vedermi? Non ti ricordi quando mi portavi al mare? Quando venivo a dormire a casa tua?  
Mi guardò con aria interrogativa.
-Stanotte dovremmo lasciare questa casa, è troppo rischioso, sono vicini.
Sei una spia? É? Non li troverete mai là nel bosco.. E non mi concedo a nessuno per proteggerli, sporco nazista, riportati via quei fiori.
- Dai nonna sono io, Andrea. Cosa leggi?
-Carte, strategie, appunti, se non tengo il conto dei viveri siamo fritti, dobbiamo fare attenzione alle provviste.
-Quanto manca alla fine? Della guerra intendo.
Domandai lei cercando di mettermi al suo pari.
-I tedeschi sono imprevedibili, ci portano alla stremo, è una guerra infinita.
-Nonna, la guerra è finita, sei in una casa di riposo dove nessuno può farti del male e dove puoi stare tranquilla. Vedi quelle donne con il camice bianco? Sono infermiere che ti aiuteranno a stare meglio, smettila di pensare alla guerra, è finita.
-Vuoi farmi diventare pazza? Dico, ti sembra il momento di scherzare? È guerra psicologica questa? Sei un tedesco che parla bene l'italiano, ti riconosco sai, ma non ci casco. Io non ho nessun nipote, ho solo 16 anni.

La lasciai a leggere le sue carte e mi addentrai all'interno del pallido e maestoso edificio, tanto marmo, costruzione risalente sicuramente al periodo fascista.  
Incontrai una ragazza bella e gentile, un'infermiera alle prime esperienze, lo si capiva dalla faccia impaurita e stanca.
-Conosce la signora Tina?
Domandai all'infermiera mentre il mio sguardo fu rapito da un'ortensia dalle palle rosa che dondolavano in una corte interna.
-Si, c'è qualche problema?
Chiese la ragazza con tono preoccupato.
-Sono suo nipote, vorrei sapere qualcosa riguardo alla malattia, oggi non mi ha riconosciuto, la vedo molto peggiorata.
La signorina sospirò, sentii il suo alito che sapeva di caramella alla menta.
Stava ciucciando una Polo.
-Andrà sempre peggio, ieri notte l'abbiamo ripresa nel campo mentre scappava a piedi nudi. Sua nonna è in guerra, ci sono nazisti dappertutto per lei. Non ci saranno miglioramenti.
-Capisco, lo dice anche mia madre. Posso fare qualcosa?
-C'è poco da fare.
Salutai l'infermiera e la ringraziai.
Uscii e mi sedetti di nuovo vicino a mia nonna.
-Chi sei?
Mi chiese nuovamente.
-Sono tuo nipote, il figlio di tua figlia.
Mi guardò e sorrise, poggiai la mia mano sulla sua spalla e stetti in silenzio.
Non sapeva chi fossi, i suoi occhi erano smarriti.  
La salutai dandole un bacio sulla fronte e uno sulla bocca.
Montai in macchina e pensai a quando era in testa e mi faceva giocare.
Quando mi stringeva e mi portava al mare, ci arrampicavamo sul ciliegio e stavamo seduti a mangiarne i frutti.
Mi parlava della guerra, delle pugnalate che questa aveva inflitto alla sua anima. 
Accostai la macchina davanti al primo tabaccaio che incontrai per strada e comprai una stecca di Muratti.
Poi, trovai un ortolano e comprai un chilo di ciliegie.
Tornai da mia nonna.
Mi presentai davanti a lei con la stecca di sigarette ed un sacchetto pieno di ciliegie.
Dissi semplicemente che le mandavano dal bosco per ringraziarla del lavoro che stava svolgendo.
Guerra, quante vittime riesce a fare una maledettissima guerra.

giovedì 4 agosto 2011

"Immagini."



Chiudo gli occhi.
Nel vuoto della mia mente osservo il riecheggiare di ombre contorte, scopro che sono asettiche frasi desunte da antologie studiate in precedenza.
La titubanza di Carlo Alberto, il ramo di iperbole equilatera uscente dall'origine delle assi, “codesto” che è un pronome dimostrativo, “nessuno” che è un pronome indefinito, il dare e l'avere, i presocratici, Talete e l'acqua, Democrito e gli atomi, ma, ta sa, mon, ton, son.
Soltanto ombre.
Ma c'è altro, vedo alberi colorati che sfidano la forza di gravità e puntano dritti verso il centro dell'universo.
C'è anche qualcosa della giornata appena vissuta, il volto stanco della signora Carelli, le rughe di mia nonna, gli orecchini della signora Verdi che brillano sotto la luce dei neon, miliardi di pesche, decine di cocomeri, una distesa infinita di pasta fresca che fa il giro del mondo e lo avvolge fino a formare un immenso raviolo ripieno di noi.
Realtà e fantasia.
Mare in tempesta, neri che si dondolano su un albero spoglio, corpi nudi mentre si attorcigliano sudati su prati, pane e companatico, il sole e il firmamento, la domenica alla messa e cavalieri alla riscossa.
Apro gli occhi.
Mi alzo dal divano.
Cerco carta e penna, vorrei anche un cd di buona musica.
Mi siedo alla scrivania, ho in mente qualcosa.
Per non creare scompiglio e non disturbare i vicini, mi metto le cuffie e ascolto a tutto volume il sound strepitoso dei Duft Punk.
Tengo il tempo con il piede destro, con le braccia agito aria elettrica sopra la mia testa.
Osservo il foglio e le sue righe orizzontali.
La musica mi carica come dovrebbe e le immagini scorrono velocemente nella mia mente.
Raccolgo con la mia mano sinistra un pennarello e come uno di quei pittori schizzati e folli, rapiti da un'ispirazione istintiva e, a suo modo, irruenta, dipingo sul foglio parole che non hanno la pretesa di essere nient'altro che parole su di un foglio.
Un foglio non mi basta, la mia mano riempie spazi vuoti con la voracità di un lupo, provo piacere, è un piacere che dà dipendenza e mi imprigiona.
Finisco di scrivere, ho la sensazione di aver finito e questo è bastante per interrompere le mie gesta.
Rileggo quello che ho scritto, ci sono pagine intere riempite anche solo da verbi.
Sembra il lavoro di uno psicopatico.
Rileggo.
Il tutto, finisce così:

“Ok, sono l'ostica ostia offerta da un oste ubriaco all'ostile intreccio di intenzioni e aspirazioni.
Ok, la panzana è stata fatta, non è possibile poter tornare indietro.
Allora, mi lascio mangiare, consapevole di essere solo un povero Cristo.”

Chiudo gli occhi, le immagini continuano a scorrere e tengo il tempo della musica con il pennarello marrone con il quale ho scritto il tutto, lo sbatto sulla scrivania e seguo il ritmo.
La musica pompa forte e godo come un pazzo.
Mi abbandono nuovamente all'osservazione di quello che la mia mente si figura, bambini scalzi che rincorrono una palla rossa, un vecchio uomo panzone che si guarda la macchia di vino sulla canottiera bianca, mio fratello che incita la folla sotto di sé e la invita a lasciarsi andare.
Un crisantemo, un proiettile, un cotton fioc usato, un posacenere con sopra raffigurata una gondola, Holden che chiede a Luce come sono le asiatiche, fumo d' uovo affrittellato e un campo appena arato.
Riprendo in mano i fogli sui quali ho disegnato le parole.
Sono curioso di sapere quello che c'è disegnato.
Leggo, precedentemente a quello sopra già detto, c'è scritto:

“Non parliamo di me, ma degli animali, parliamo delle lucciole e dei serpenti, delle libellule e dei rinoceronti.
È giusto che sia così?
Dici di si?
Dici?
Voglio dire, devo lasciarmi fumare e lacerare dal dolore solo perché è così e basta?
Povero me.
Povere le libellule e i castori, le termiti e i tori.
È così e basta, non c'è tempo per un'altra canasta.
Chissà, se le piante e gli animali, capiscono quello che voglio dire, se anche loro hanno le mie stesse sensazioni.
Credo di si.
Ma ci sono, ora, su questa terra, e un motivo ci sarà.
Astronauta del cazzo, se non sai chi sei, è inutile star qui a parlare.
Lasciati trasportare.”

Mentre leggo, la musica si interrompe.
È saltata la corrente, c'è la lavatrice accesa e l'impianto non regge.
Lascio stare, mi preoccupa solo il freezer, ci sono delle pizze e forse si sciuperanno.
Scendo le scale e con un semplice gesto faccio brillare nuovamente tutte le spie di casa.
Mi rimetto le cuffie.
Riprendo tra le mani i fogli, manifesto della mia pazzia, ormai voglio rileggere tutto.
In principio, recitano le seguenti considerazioni:

“Tanti morsi sento sulla faccia, graffi sulla pancia e sul dorso.
Inadatto al sistema, troppo a mio modo, sono accettato a metà.
Realtà crudele, mi rendi incapace di vivere sereno.”

Prendo i fogli e li accartoccio, faccio un'enorme palla di pazzia e carta.
Spengo la musica e le luci, mi distendo sull'impiantito e mi pare ghiacciato.
Poi, mi alzo e metto la testa sotto l'acqua del lavandino.
Ho scritto io?
Mi guardo allo specchio del bagno e interrogo la mia faccia.
Pare di si.
Io, sono anche questo.

giovedì 28 luglio 2011

"23".

Ebbi, subito, mentre mi lavavo i denti con un briciolo di dentifricio rimasto nel tubetto, dopo averlo diviso per lasciarne un po' anche per la mia ragazza, l'amara sensazione che la giornata che stavo per affrontare, sarebbe stata identica alle altre giornate della mia vita.
Medesima alla precedente intendo, spiccicata alla successiva, piatta come le altre già vissute.
Mentre la moka, non intendeva farmi il beneamato caffè, mi facevo coraggio e pensavo che avrei potuto affrontare la giornata con il sorriso stampato in faccia, magari baciando tutte le mie anziane clienti puzzolenti di lacca e urlare nei loro timpani: “è il mio compleanno!”.
“é?”, “é?”, “Auguri, tanti auguri, dammi un bacino”.
Avrebbero risposto così, sono tutte sorde le mie clienti, sorde da non sentire proprio nulla.
Voglio bene a tutte, ma certe volte le odio, dicono sempre le stesse maledette tre cose: emorroidi, cataratta, osteoporosi...
Per non parlare del tempo, se piove, piove troppo, se è freddo, è troppo freddo e se è caldo, è troppo caldo.
Ci sono di quelle che vengono a fare la spesa con la badante rumena, forse avrei preso qualche bacio al mentolo anche da loro, pensavo.
Il caffè, finalmente, inondò con il suo odore la cucina e lo bevvi bollente e amaro, come piace a me.
Camicia, oggi camicia, con la camicia mi sento ganzo.
Considerando che, mi sarei divertito a fare i pagliaccio per tutto il giorno, ho pensato che con la camicia sarei stato più a mio agio.
Quelli con la camicia, mi danno un che da pagliacci, non posso farci nulla.
Nell'armadio, ho soltanto due camicie comprate sotto ricatto di mia madre per metterle al matrimonio di qualche mio cugino.
Bene, mentre mi vestivo in silenzio, ho sentito il primo “Buon Compleanno” della giornata. É uscito dalla bocca assonnata di Claudia, la mia ragazza.
“Buon compleanno amore mio”. Mi ha detto.
“Grazie amore”. Le ho risposto.
La mattina, non la bacio mai, ha un alito che proprio non me l'accollo.
Nonostante sia di una bellezza divina, con quei suoi occhi stupendi e un corpo da fiaba, la mattina non la bacio mai, il primo bacio ce lo diamo in giornata dopo che si è lavata i denti.
Sono arrivato a lavoro in ritardo di qualche minuto, come sempre, non che mi aspettassi una bigne con ventitré candeline o che so io, ma la prima cosa che mi sono sentito dire è stata: “Cazzo, il martedì c'è sempre da fare e tu arrivi in ritardo, Dio santo che dormiente che sei, sono qui dalle sette io”.
“Auguri, tanti auguri!”, ho risposto con un sorrisino da idiota, la giornata avevo intenzione di passarla così, da idiota.
Mio padre, perché io e mio padre lavoriamo insieme nella bottega che un tempo fu di mio nonno, non si abbandona mai a spassionati baci o abbracci. Ha risposto al mio “auguri-tanti auguri!” con un : “ventitré? Auguri.. ”.
Dal tono sincero e sorridente.
Ho sorriso, non ho fatto fatica perché sono entrato in negozio sorridendo.
Il mio pormi alla giornata in maniera positiva, con un plastico sorriso stampato in faccia proprio come gli stolti, mi rendeva stupidamente felice.
Alle nove e qualche minuto, la mia camicia è rimasta impigliata nella scaffalatura di metallo sulla quale teniamo i detersivi e si è strappata.
Uno squarcio partiva dal mio fianco sinistro e raggiungeva la scapola destra.
Sembrava avessi fatto a pugni con un teppista, o avessi partecipato alla finale di calcio storico in piazza a Firenze.
Ho tolto la camicia ed ho messo una polo anonima comprata al mercato che da due anni o forse più stava nel mio armadietto vicino a qualche libro e ad una boccetta di Autan.
Mi sono levato la camicia ed il mio umore è cambiato, magicamente, non potevo più fare il buffone e non ne avevo più troppa voglia.
La giornata era cupa, il sole sembrava non essere intenzionato a far brillare le gocce d'acqua che, la notte, aveva lasciato sulle foglie dei tigli nel parco davanti al negozio.
La notte precedente, infatti, un forte temporale estivo confortò il mio dormire.
Amo la pioggia, specialmente di notte.
Meglio così ho pensato, la giornata si prospettava tetra, ottimo, odio l'estate come cantava il grande Martino.
In estate, quando scrivo, non riesco a concentrarmi, scrivo delle stronzate senza senso, superficiali, il bello dell'estate è che sono leggero, mi interrogo poco e non vado alla radice delle cose, credo sia questo il bello dell'estate se proprio devo trovare un aspetto positivo a questa stagione.
L'inverno, aiuta la concentrazione, sembra che il buio e il freddo delle sue giornate sia parte del buio e del freddo che ognuno di noi ha dentro.
Se consideriamo la scrittura come autoanalisi, come conoscenza di sé, come meditazione su ciò che si è, l'inverno mi aiuta molto, è certamente la stagione più introspettiva, più riflessiva, la stagione nella quale guardando il buio delle giornate ti domandi a cosa corrisponde quel buio che è allo stesso tempo all'interno della tua anima.
In inverno, diventa un'ossessione scoprire e riflettere sul dolore, sulle ferite, sui tormenti, ed è come se fossi obbligato a scoprirne l'essenza.
L'estate, è felice e sorridente, a tratti oserei dire superficiale e mi porta chiaramente a scrivere cose che rispecchiano la considerazione che ho della stagione presa in questione.
Probabilmente, ne state avendo la conferma proprio adesso, leggendo quello che state leggendo.
Se vi chiedete dove vorrei arrivare con questo post, non lo so, siete avvertiti.
Potrei finire e concludere il tutto parlando della verruca che è spuntata sulla pianta del mio piede destro.
Ci può stare, come può starci benissimo che questo che dovrebbe essere il resoconto della giornata del ventisei luglio(giorno del mio compleanno), diventi un racconto vero e proprio con tanto di protagonista che per l'occasione potrei chiamare “Felice”.
Levandomi la camicia, sono tornato me stesso, la pioggia che aveva iniziato a cadere mi immerse maggiormente nelle mie riflessioni e nei miei consueti tormenti.
Ero a mio agio.
Ho una polo anonima, fuori piove, i miei capelli sono ricci e arruffati, sono a lavorare, devo tagliarmi le unghie, ho la testa nelle mie storie, vorrei fare l'università, ho quattro capelli bianchi, due gatti e un cane, abito con Claudia, ho voglia di scrivere una poesia e di fare l'amore. Pensavo questo mentre affettavo del prosciutto alla formosa e sorda signora Cantini sempre tutta adornata di pessima bigiotteria: Questo, sono io.
Io sono questo, nel bene e nel male.
Tornando a noi, per chi fosse interessato all'astrologia, sono leone ascendente leone.
Io, non sono interessato all'astrologia.
Nacqui ventitré anni fa tra le urla di mia madre, in un ospedale che adesso è la dimora fissa di migliaia di piccioni.
Provo ad immaginarmi la commozione dei miei genitori, sono il loro primogenito.
Tre anni dopo, nacque mio fratello e sei anni dopo la nascita di mio fratello, i miei si separarono.
Forse, non ve ne frega un bel niente ma ormai che scrivo di me è giusto che lo sappiate.
La giornata di martedì ventisei, non ha importanti considerazioni da annotare, volete sapere quanto ha speso la signora Cantini?
Poco, ve lo dico apertamente.
I regali che ho ricevuto?
Vestiti, due libri, e qualche soldo che lunedì girerò senza batter ciglio alla compagnia assicurativa perché l'assicurazione della mia macchina scade sei giorni dopo il mio compleanno.
Il più bel regalo però, me lo ha fatto la natura, mentre rientravo a casa verso le otto di sera o giù di lì, stanco e sconsolato, non pioveva più e sulla collina davanti a me ho visto uno stupendo arcobaleno.
Sono rimasto incantato per alcuni istanti a vederlo, sono sicuro che sia stato fatto per me.
Ho sorriso, felice, sono sicuro che la natura si sia ricordata del mio compleanno.
Rientrando a casa, la mia dolce ragazza mi ha fatto trovare una deliziosa cena di pesce.
Tavola imbandita con candele e prosecco, piatti di ceramica e cucchiaino per il dolce.
Abbiamo mangiato, scherzato, le ho raccontato del regalo della natura, della camicia strappata, della faccia sorridente che per quasi un' ora sono riuscito a mantenere.
È un giorno come un altro quello del compleanno, dove ti sforzi per essere felice e poi ti arrendi al fatto che “Felice”, è semplicemente il nome del protagonista del racconto che potrei scrivere se questo che per ora ho scritto diventerà un racconto.
-Ti senti più saggio?
Che palle con questa storia della saggezza, mi stanno talmente antipatici quelli che sono definiti saggi che non potete immaginarvelo.
-Come ti senti allora?
Mi sento me stesso, e provo ad accettarmi con tutti i miei difetti e i miei turbamenti, con i miei demoni e le mie maschere, con le diverse sfaccettature del mio io e le mie paturnie. Credevo che i miei tormenti prima o poi trovassero fine, magari crescendo, se trovassi pace da questa maledetta angoscia di vivere potrei definirmi felice.
Credo.
Se volete sapere chi odio, odio proprio quelli che dicono di avere la chiave della felicità, sono solo ciarlatani.
Li odio più dei comunisti, dei fascisti, dei democristiani e dei socialisti.
Dei ricchi che fanno i ricchi, dei poveri che fanno i poveri e delle mamme apprensive.
Odio le persone magre, la forfora, la Nutella, le mandorle e le gallette di riso, specialmente quando le sento biascicare nella bocca dalle labbra fini di mia madre.
Odio la globalizzazione, la stagflazione, la deflazione e l'inflazione, odio i cardinali e i sacrestani, il ping-pong, il tetris, per non parlare della marijuana che mi rende apatico e con la bocca impastata.
Amo l'inverno, svegliarmi ogni mattina al fianco di Claudia, scrivere storie e il pensiero di poter un giorno pubblicare un libro.
Bene, quelli che un giorno compreranno un mio libro, se riuscirò a pubblicarne uno, dopo che avranno letto questo post, potranno dire di conoscermi, sono quello che si nascondeva dietro la maschera di Astronauta.
Auguri.