domenica 11 dicembre 2011

"La sirena e l'antilope."

É Morto Piero Marezzi, aveva 87 anni. L'ho letto all'angolo di via Pananti.
Non so neanche chi sia Piero Marezzi e non mi dice nulla neanche il suo cognome. Pace all'anima del povero Piero. Il fatto è che sono fissato con gli annunci mortuari, tutte le sere devo passare a vedere chi cazzo è morto.
Ci sono certe fissazioni che ormai sono diventate un vizio, mi alzo la mattina e mi chiedo: chi è morto? È una specie di rito il mio.
Come se il passaggio alla morte volesse significarmi qualcosa, come se sapendo chi ormai è morto la signora incappucciata e con la falce mi giri alla larga.
Perché sì, la morte mi fa una dannata paura.
Il problema è che non so che cosa ci sia dopo, mi dispiacerebbe marcire sotto metri di terra mangiato da bachi che s'ingozzano di me fino a scoppiare.
Da piccolo andavo sempre a messa, facevo il chierichetto, stavo composto ed ascoltavo con interesse le parole del parroco, ricordo ancora le sue mani pelose mentre spezzavano quell'ostia enorme. Il paradiso era la mia mia unica ambizione, potermi rotolare tra le nuvole era il mio unico desiderio da bambino. Mio padre credeva che mi facessi prete, mia nonna lo sperava, mia madre invece sono sicuro che avrebbe preferito vedermi morto piuttosto che devoto al Dio dei cristiani.
Ma se ci fossero davvero o il paradiso o l'inferno dopo la morte?
Domanda di una stupidità straziante. Eppure in molti se la sono posta, in molti si sono domandati cosa potrebbe succedere con la morte, se l'anima esiste, se è mortale oppure immortale.
Mi piace la concezione orfica, quella della reincarnazione, della metempsicosi, del corpo che è una gabbia nel quale le nostre anime sono costrette a vivere per purificarsi.
Ma lasciamo stare.
Ora che ci penso, un Marezzi lo conosco. Marco Marezzi è stato mio compagno alle medie per un anno prima che si trasferisse in Liguria non so a fare cosa.
Il Marezzi, alto forse meno di un metro e largo come tre di me, simpatico da morire, il Mare lo chiamavamo, aveva sempre le gomme da masticare e le regalava a tutti, forse anche lui si ricorda di me, sta di fatto che adesso io mi sto ricordando di lui.
Bene amici miei, volevate leggere qualcosa che vi lasciasse il segno? Cercavate la catarsi?
Avete sbagliato blog, l'astronauta è in una fase strana, è in un periodo che potenzialmente è ok, ma in atto è una cosa indefinita avvolta in una nebulosa fluorescente.
Adolescenza, sono scodate di un'adolescenza che proprio non vuol finire.
Finirà?
Si diventerà mai grandi?
Voi come vi sentite?
Quante domande.
Non è importante che mi rispondiate, che mi diate consigli, va bene così, mi godo il momento, ascolto il colore proibito, bevo vino e scrivo per il piacere di scrivere.
No sense.
Vedere, è questo che cerco, qualcosa che non abbia senso, qualcosa che mi lasci libero di vaneggiare quanto cazzo mi pare senza avere un dito puntato contro ed una voce stridula che mi dice che un senso, in realtà, c'è e come, e per ogni cosa.
Vivo, e spero che la vita non abbia un senso, che nulla abbia un senso, che tutto sia perché è e basta, senza calcoli o ragionamenti, senza mani demiurgiche che hanno dato ordine al caos, senza un Dio che ci dice come fare, senza un bastardo pronto ad indicarci la strada da percorrere.
Così, come un fiume in piena, voglio vivere per sempre in questa che è per me la fine dell'adolescenza, in questi giorni senza ragione, in questi momenti di follia, di completa incertezza, di vino e musica.
Voglio vivere come uno di questi miei pensieri, assurdi ed istintivi, paradossali ed in contraddizione.
Resta il fatto che Piero Marezzi è morto e forse conosco suo nipote, che la morte è forse l'unica certezza, che sono le tre di notte e non ho voglia di andare a dormire, e che forse andrò anche al funerale del povero Piero.

sabato 3 dicembre 2011

"Tra amici."

Un'ora dopo la partenza mi risveglio tutto stordito, poi qualche secondo dopo riprendo conoscenza e mi rendo conto d'essere nel sedile posteriore dell'auto tutta scassata di Lorenzo.
Sono sommerso da canne, retini, secchi, stivali, giubbotti e lampadine. Mi volto sbadigliando e alla mia destra vedo un tacito mare in lontananza, allora realizzo... stiamo andando a pescare! Gabriele, rasato e con la barba appena fatta, è seduto sul sedile davanti vicino a Lorenzo (anch'egli rasato e con la barba appena fatta) e voltandosi mi dice sorridendo che siamo quasi arrivati. Sorrido e gli batto il cinque compiaciuto.
Dopo una settimana di duro lavoro ci voleva proprio una serata rilassante tra amici, per liberare la mente, riordinare i pensieri e lasciare che il mare tolga dall'anima pesantezza proprio come solo lui sa fare.
Arriviamo al porto e sono quasi le cinque, il mare è liscio come l'olio, le acque sono chiare, il vento è assente e le condizioni sembrano ottime per pescare.
Ci sistemiamo sugli scogli, davanti a noi una barca solca il mare e pare darci il suo speciale benvenuto.
Lorenzo ha provveduto a tutto, attrezzatura da pesca e cena. É lui il nostro mentore, il nostro maestro, l'esperto con la profonda passione per la pesca che ci guida per mano verso i lidi più disparati mostrandoci e spiegandoci le varie tecniche di pesca. Gabriele ed io, infatti, ci stiamo affacciando solo adesso a quel fantastico mondo che è la pesca.
C'è un fondale di circa sette metri, mentre prepariamo la lenza ci mangiamo un panino e ci beviamo un po' di Lambrusco per riscaldarci. Il vino l'ha portato Gabriele. Disponiamo le nostre canne a ventaglio, sono canne morbide e con la vetta bianca per notarne la flessione nel buio, la nostra è una pesca semplice: a fondo.
Usiamo un piombo di 60gr e con l'ago apposito inneschiamo due canne con un Bibi ed altre due con Americani belli grossi.
Alle cinque e trenta siamo tutti in pesca.
Nel cielo sole e luna sono sospesi immobili, il sole lentamente tramonta alle nostre spalle e lascia il posto alla notte la quale ci sorprenderà arroccati su quegli scogli ad attendere l'incocciata di un bel pesce o magari più di uno. Confesso a Lorenzo di portare male e di aver pescato si e no tre pesci in tutta la mia vita, ma egli mi rassicura dicendomi che la serata è perfetta.
Dopo pochi minuti, infatti, Gabriele fa un fischio ed apre le danze con un parago.
Passano poi ore di silenzio, le onde s'infrangono sugli scogli e noi ci rilassiamo fumando qualche sigaretta e bevendo Lambrusco. Lorenzo e Gabriele sono amici di mio padre e Lorenzo non esita a raccontarmi qualche aneddoto divertente della loro sregolata giovinezza ed io rido di gusto mentre Gabriele imita i protagonisti della loro vita.
Alle otto, nel nostro secchio, c'è solo un triste parago. Il mare però s'è ingrossato, è cambiata la marea.
-Te l'avevo detto che portavo male,- dico sorridendo a Lorenzo.
Non faccio in tempo a finire la frase ed il mio mulinello canta beato, mi alzo di scatto e subito dopo aver preso in mano la canna mi rendo conto che il pesce non è piccolo.
Dopo qualche minuto l' animale è nel retino, è un'ombrina di 700gr.
La slamo ballando e mi rimetto nuovamente in pesca.
Mi siedo ed accendo una sigaretta, dico a Lorenzo che ora tocca a lui e questo fa spallucce dicendomi di non preoccuparmi.
Improvvisamente si alza un coro, è la musica che volevamo sentire: abbiamo tutti e tre un pesce in canna!!
Il momento è delicato, Lorenzo è il primo che porta il pesce a sé ed io gli passo il retino inciampando, poi a Gabriele cade la lampadina in acqua cercando di avvicinarsi a noi.
Io sono eccitato e mi metto a ridere, anche gli altri lo faranno.
Sarà stata colpa del Lambrusco? No, è l'adrenalina che rende tremendamente euforici.
Alle nove e qualche minuto abbiamo cinque pesci in saccoccia, gli ultimi tre sono una mormora, un'orata e un'altra ombrina.
La notte ci ha avvolto completamente, è la fine di novembre ma siamo sbracciati ad osservare i carri nel cielo, compiaciuti della bella serata.
Lorezo ci regala un altro strike: è un'orata di 500gr.
Sono ormai le dieci e decidiamo di preparaci per tornare a casa, una barchetta pesca totani proprio a pochi metri da noi e la si vede dondolare rilassata con quelle sue luci ai lati.
Ma poi ecco un'altra cattura, è ancora Lorenzo l'artefice, sorride e fischietta mentre tira a sé un'altra stupenda orata.
Alle una di notte siamo all'autogrill a mangiarci un panino e siamo contenti.
Rimontiamo nella macchina cigolante di Lorenzo, Gabriele si addormenta e russa appagato, dico a Lorenzo che la pesca mi piace e lui mi risponde che lunedì prossimo ci riporterà nuovamente con sé: si pescherà dalla spiaggia.
Durante il ritorno non riesco ad addormentarmi, i lampioni in lontananza segnano linee di luce nel cielo, penso alla felicità, al mare, agli amici, al rumore del vento, delle onde che s'infrangono sugli scogli, penso che il mare e la pesca sono fonte di serenità, quella che ognuno di noi va cercando dappertutto.

venerdì 25 novembre 2011

"Ambarabà ciccì coccò."

Soldi, soldi, pagare, pagare, tasse, aumenti, pagare, soldi, soldi, pagare.
Paga e zitto.
Porco di un cane ladro.
Sto zitto e pago.
Costa tanto tutto ed andrà ad aumentare tutto tanto.
Pago e sto zitto.
Stamani quella melensa della bancaria mi ha telefonato per dirmi che sono sotto.
-Infinite grazie, passerò in settimana da voi- le ho risposto facendo il sorpreso.
Come se non lo sapessi.
Per forza che sono sotto, ho dovuto mettere quattro nuove merdose gomme da neve ed ho speso un botto, poi le tasse universitarie, l'affitto di casa con l'aumento dell'Istat, le bollette, il veterinario, il dentista, il decoder e qualcosa dovrò pur mangiare. Poco, ma fatemi mangiare.
Sono pulito come il cesso della stazione e anche lì ho dovuto pagare per pisciare.
Oggi ho preso il treno per andare a Firenze: la macchina è ormai un lusso.
Guardiamo il lato positivo. Ho riscoperto il mezzo pubblico.
I capelli me li sono tagliati da solo e si vede, questo giubbino nero l'ho comprato da Stefan e si vede perché mi torna maledettamente male.
Non c'è soldi, c'è crisi.
Ho amici in depressione perché sono disoccupati, parenti che si logorano il fegato perché non sanno come  fare ad arrivare alla fine del mese ed oramai si privano di tutto.
Prendiamo ad esempio mio zio Luigi. Vedovo da ormai nove anni, il buon vecchio zio era abituato a farsi una sana scopata a casa della sua professionista di fiducia. Ora non può più permettersela.
Per lui è una tragedia e adesso appaga il suo desiderio con la mano mancina tenuta sotto il culo per una mezz'ora e tanta fantasia . Povero zio, mi sono commosso quando me l'ha detto.
La gente ha fame e batte i pugni su tavoli sempre meno imbanditi.
A tavola si mangia un po' di pane con l'olio e ci si piena bevendo tanta acqua del rubinetto.
Ambarabà ciccì coccò.
Le tre civette che prima se ne stavano beatamente sul comò pronte a farsi la figlia del dottore sono rimaste in due, la terza sta raschiando il fondo del barile alla ricerca di qualche centesimo per comprare qualche briciola di pane raffermo da dividere col resto del gruppo.
Si fanno forza le civette, Coccò mi ha confidato che sono vicini al perimento, e si vede.
Non c'è da fare i moralisti se qualcuna mostra la farfalla su cam4 per pochi euro o se c'è chi si prostituisce intellettualmente.
Soprattutto non c'è da storcere il naso se la dama dà un morso al suo ermellino ingoiando tutti peli per fare tappo e sentirsi piena.
Pagare, pagare, pagare, soldi, crisi, fame.
Faccio ironia ma la situazione è grave, se qualcuno di voi vuol piangere ho i fazzoletti profumati che mi hanno dato al bagno della stazione.
Io non piango, lo faccio solo quando ho la febbre.
Mi sfogo semplicemente scrivendo, cercando così di non pensare a ciò che ci sarà da pagare domani.
Soldi, soldi, pagare, fame, tasse, aumenti, pagare, soldi, soldi, pagare, fame.

mercoledì 9 novembre 2011

"No name"

Sono ancora qui, ancora davanti ad un foglio bianco.
Non posso farci nulla, è una maledetta patologia la mia.
Perdo tempo.
Avrei da fare un sacco si cose: studiare, scrivere due articoli entro venerdì, completare altri racconti per dei concorsi interessanti, farmi la doccia, tagliarmi i capelli, pagare due bollette, lo stesso per le tasse universitarie, portare il cane dal veterinario, scrivere un monologo per un cortometraggio e vattelappesca.
Dovrei anche andare a letto: se continuo così divento pazzo o alla peggio ci resto secco.
Dovrei sì, ma in realtà non ce la faccio, lo vorrei tanto ma non ce la faccio davvero.
Potrei nascondermi dietro la scusa del tempo che non c'è, del lavoro, ma siamo realisti per una minchia di volta: sono instabile.
Provo, mi sforzo, mi gratto la testa ricciuta, accendo una sigaretta, mi premo gli zigomi per svegliarmi, mi gratto le basette e la barba incolta, mi scaccolo e poi mi tolgo le scarpe.
Parto con la buona intenzione di fare un qualcosa di costruttivo insomma, di riscrivere gli appunti della lezione, di scrivere il monologo o un racconto di senso compiuto fino alla fine e non le mie solite stronzate di sempre che non hanno né capo né coda.
Ci provo, ma cado nel vizio.
Mi piace sedermi e scrivere la prima parola che mi viene alla mente, legarcene un'altra e poi un'altra ancora per completare un discorso.
Aggiungere un discorso ancora, descrivere un personaggio, un paesaggio, l'emozione di una situazione, ricordare ed inventare un'altra vita tutta nuova.
Il foglio bianco che supplica di essere impiastricciato, che non pone limiti, che vuole un personaggio scritto sul petto, una storia da mostrare soddisfatto alla corte dei fogli scarabocchiati, non riesco a non ascoltarlo, le sirene del buon vecchio Ulisse erano una pippa al confronto.
Un foglio bianco sul quale viene scritta una storia, è come un giovane che trova la sua personalità.
É questo il punto d'incontro tra la mia anima e il mondo.
Godo mentre scrivo.
La felicità è lì, scoprire me stesso in parole senza senso.
La mattina però, se non ho fatto quello che avrei dovuto fare, mi guardo allo specchio e mi sento in colpa, mi sento un fallito, un codardo, un cane con la lebbra, la personificazione della merda.
Io sono uno che ha i preconcetti, non riesco a non incazzarmi per certi comportamenti o modi di vivere, è più forte di me, voglio vedere sempre il bello e che sia come dico io.
Non ha senso, sono troppo bastardo anche con me stesso, riseco a bastonarmi anche quando dormo per come dormo.
Vivo nel paradosso, nella testa ho l'idea di ciò che dovrei fare e come dovrei farlo, ma poi in realtà nulla coincide, nulla combacia, nulla riflette ciò che avevo in mente. Giudico me stesso per l'incapacità di raggiungere i fini preposti e l'inefficacia del metodo utilizzato.
Non ce la faccio, casco sempre davanti ad un foglio bianco per andare nel mondo che mi piace e dimenticare tutto.
Forse è come mettere la testa sotto la sabbia, come mettere il mantello invisibile, come evaporare, come il perdersi nell'etere del fumo di una sigaretta qualunque.

La musica è al giusto volume, è una buona musica, la luce punta dritta sul foglio, la boccia è senza tappo e ne godo l'aroma annusandone semplicemente il collo, gli occhi sono socchiusi, la sigaretta è nella mia mano, la mia anima esprime se stessa nella collana di parole che velocemente vado componendo.
È un piacere.
Perché vendersi a quella parte bastarda di me che mi chiede di rispettare certe scadenze, certi temi, certi fottutissimi argomenti?
Perché forse è l'ora di crescere?
Perché la realtà è più potente della fantasia?
Perché la ragione è fredda e pone limiti e non va d'accordo con la fantasia che invece è calda ed indefinibile?
Che cazzo è allora la vita, in che modo deve essere affrontata, a quale parte di noi dobbiamo dare retta.
Chi aveva ragione, gli epicurei o gli stoici?
Non ne ho idea e vado a letto.
Ne ho un dannato bisogno.

lunedì 31 ottobre 2011

"La fine del mondo."


-Mi prendi per il culo? Dico io, ti sembra questo il momento di scherzare?
Provavo in tutti i modi a calmarlo e farlo ragionare, ma non mi dava ascolto.
Continuava a chiedermi se lo stavo prendevo per il culo e se mi sembrava quello il momento di scherzare.
Santo Dio, avrei voluto mettergli le mani addosso, picchiarlo e farlo svenire per non sentire più quella sua ansimante voce da pazzo sclerotico che ormai m'era entrata nella testa.
-Dai, rilassati un minuto ed ascoltami, non sta succedendo nulla, stai calmo e siediti.
Camminava per la casa freneticamente ed apriva con titubanza la tenda del soggiorno per vedere cosa stesse succedendo fuori.
Il paesaggio era buio, tutti i cani abbaiavano, gli uccelli cinguettavano e non c'era traccia di un passante per la strada.
-É la fine del mondo, io non voglio morire adesso.
-Non è la fine di nulla, è una cosa normale, succede di rado ma succede, stai tranquillo.
-Mi prendi per il culo?
Mio cugino solitamente faceva il grosso, si vantava di scopare più di ogni ragazzo della sua età, fumava per farsi vedere in giro e sembrare un grande, ma in realtà era un cacasotto di quelli numero uno.
Non riusciva a tranquillizzarsi, gli tremavano le mani e quel suo tic di grattarsi la testa nei momenti di panico divenne persistente.
Credo si sia sbucciato la testa quella mattina.
-Perché questo buio alle undici del mattino? Perché i cani sembrano impazziti? É la fine, me lo sento, moriremo tutti.
-La smetti di dire stronzate? Tra poco tutto tornerà alla normalità, anzi già questo è normale, ora basta con questa storia stupida e siediti.
-Il giorno del giudizio è arrivato.
-Sì, è la fine del mondo.
Gli dissi così per farlo contento e finalmente la finì di camminare senza senso per il salotto, paradossalmente, non so perché, in qualche momento si tranquillizzò.
Non mi lasciò finire di parlare e corse a nascondersi in cantina passando dalla scala interna della cucina.
Io avevo sedici anni e mio cugino diciotto.
Era un tipo secco e lungo infatti lo chiamavano “stecco” di soprannome, adesso ha trent'anni e la fissazione per la palestra l'ha fatto diventare un armadio.
É enorme, sembra un armadio di quelli che hanno nelle camere i genitori e dentro i quali c'è posto per la roba invernale e tutto, lenzuoli ed asciugamani puliti per tutta la famiglia compresi.
Anche per quei giubbotti usati e regalati da qualche parente che ancora non vuoi buttare perché pensi che in un futuro potrebbero tornare di moda.
Insomma, il nome è rimasto e gli amici lo chiamano ancora “stecco”.
Lo seguii in cantina e si sedette sulla poltrona della povera nonna ormai morta.
Mi chiese una sigaretta.
-Non fumo e non ce ne sono in casa di sigarette- risposi io facendo spallucce.
Iniziò a piangere disperatamente.
-Avrei voluto conoscere meglio mio padre, essere stato un bravo ragazzo, non aver rubato nel bar del Tagliaferri, non aver tradito Carla per Giada ed essere andato a messa ogni domenica come voleva nonna.
Aveva una voce affranta, dispiaciuta, angosciata e costernata mentre me lo diceva.
Accesi la luce della cantina con l'interruttore alla mia sinistra, il suo volto era mesto, rigato di lacrime e i suoi occhi velati di terrore, guardava un punto indefinito del pavimento sotto le sue ciabatte della fila.
Porco cane se era avvilito!
-Puoi rimediare, stasera dici a tuo padre che lo vuoi “conoscere”, ti presenti dal Tagliaferri e gli dici che hai rubato, domenica vai alla messa e poi dici a Carla che la ami.
Gli dissi io sorridendo, ero seduto sui primi scalini in vetta alle scale.
-Il domani non ci sarà, quel che è stato è stato, è giunta la fine, non c'è più tempo.
Poi, singhiozzando, mi mormorò:-Pantani però mi ha regalato delle belle emozioni, il Pirata m'è entrato nel cuore con le sue volate, l'anno scorso giro e tour, peccato per quest'anno.
-Tranquillizzati, vieni su con me e beviamoci qualcosa.
Abbracciai mio cugino che tremava come un pulcino bagnato e lo portai in salotto, stranamente mi dette ascolto.
Ci bevemmo un coca poi lentamente un po' di luce penetrò dalle tende ed illuminò la stanza.
Corremmo alla finestra e guardammo fuori, il sole era tornato e sembrava aver sconfitto le tenebre.
Mio cugino mi guardò e sorrise, capii che la morte gli faceva paura.
Era il 1999, l'anno di Benigni come miglior attore protagonista, dell'esclusione di Pantani dal giro d'Italia, della beatificazione di Padre Pio, del primo dei sette tour de France vinti da Amstrong, della vittoria del campionato del mitico Milan di Zaccheroni.
Fu anche l'anno dell'eclissi totale di sole, l'estate in cui mio cugino pensò che fosse la fine del mondo.
Fu l'anno in cui iniziai a volergli bene.

lunedì 24 ottobre 2011

"Mano."

Ciò che un giorno tenevo stretto in questa mano,
adesso l'osservo da lontano.
Eccola là, dietro quella porta,
silenziosa e allo stesso tempo assordante,
potente e soave,
leggera e pesante.
Ottima come il migliore degli auspici e necessaria come la peggiore delle sconfitte.
Partita per un viaggio del quale non so nulla, andata verso qualcuno che non conosco, scappata per capire se stessa e quindi decretare il mio destino che è tuttavia segnato, marcato sulla mia schiena da un fuoco che un tempo era amico.
Là, oltre quella porta, c'è un qualcosa che ormai appartiene al passato.
Sento il suo profumo, profumo di pane e di crostata alla marmellata, fragranza di me in un corpo di donna.
Come faccio a sopportare la sua assenza, come faccio ad affrontare il mio destino, come, come faccio stupido foglio e stupido cursore, ditemelo voi.
Adesso sono al tappeto ed il mio avversario continua a darmi calci in testa.
Uccidimi, finiscimi, ti prego distruggimi e poi lasciami in pace.
Con le mani unite come in una specie di preghiera pagana, la testa inclinata, il volto rigato da lacrime che poi vanno a bagnarmi le labbra, mi rendo conto d'aver perduto una parte di me.
Non capisco come questo sia potuto accadere, ma adesso è così.
Mi trastullo con l'idea di ciò che sarà di me domani, spero che il suo profumo torni ad essere il mio, che i suoi occhi sia nuovamente pieni di me e che il sole torni a brillare.
Piove, mi distendo sul prato e mi guardo la mano, un tempo c'era lei.

giovedì 20 ottobre 2011

"Sbagliati schieramenti."

Sì, è vero, la colpa è di chi crede che tutto sia come si manifesta e che tutto vada maledettamente bene.
Bastardi.
È colpa loro, dei dannati, ne ho la certezza.
Si sono arresi ed inconsapevolmente godono sapendo che anche tu sei ad un passo dalla resa.
Ma loro non lo sanno, sono ignorati, e si masturbano con l'idea che potresti passare dalla loro parte anche se non sanno di appartenere a qualcosa, di essere identificati con una “parte” e di essere un club con tanto di logo registrato.
Sborrano perché un qualcosa li eccita enormemente, perché sentono nell'aria che qualcuno è vicino, che qualcuno si unirà a loro.
Sembra ieri che pensavo a come poter alzare bandiera bianca, con quale mano alzarla, con che smorfia presentarmi all'ingresso del loro circolo, come vestirmi.
Mi avrebbero accolto con baci e pacche sulle spalle, offrendomi da bere, facendomi spazio sul loro divanetto in pelle d'elefante.
I bastardi sono cordiali, gentili, altruisti e senza dubbio possessori di un grande senso estetico.
Sicuramente avrei bevuto roba strepitosa dal retrogusto esotico, servita in appositi calici in cristallo lucente.
Una volti entrati, non se ne esce, è più forte di una qualsiasi cazzo di droga, dall'eroina ne esci ma da lì non si può.
La morte è l'unica soluzione.
Provo pena per loro perchè si sono arresi.
Nessuno ti obbliga a restare, sei tu che dimentichi tutto e credi che quella che stai vivendo sia la realtà.
Non provare a dire loro che tutto non è come sembra, che sono illusi, che stanno sbagliano: diventano cattivi e mostrano i denti come i lupi affamati.
Non ti sbraneranno: sono moralmente contro la violenza e la disprezzano fermamente.
Con la birra vecchia sulla scrivania, il lapis in mano e gli occhi stanchi, difendo la mia parte, la parte di chi non ci sta, di chi non si accontenta, di chi non è illuso.
Ma poi tutto volutamente si contraddice, le virgole diventano punti e le A, diventano Z.
Si mischiano le carte, si cambia il panno sul quale si giocava e chi ha sempre barato ha due assi in tasca restando dunque fedele a se stesso.
Fondamentalmente siamo tutti vittime, noi e quelli del club, chi bara fa finta di giocare e ci sfotte ridendo sotto i baffi.
Ma io non ci sto, e manifesto il mio disappunto con le parole di questo scritto.
Uccidiamo il baro.

martedì 11 ottobre 2011

"Albero."

Vorrei essere un albero, ma sono la pagina ingiallita di un libro caduto dietro una scaffalatura marcia, nella cantina di una biblioteca abbandonata.
Aria chiusa dentro una bottiglia nell'oceano, peli nel lavandino in una casa di campagna alla malora.
Luci in lontananza, alba e tramonto, un sospiro ed uno starnuto, un sorriso allo specchio, il detto e ridetto, l'acqua santa e la personificazione del demonio.
Sono una ragnatela che si dondola al vento, lo sbadiglio di un gatto, il pane raffermo, la muffa nell'androne, lo spazzolone da buttare, le maniche arricciate della camicia di un contadino canuto.
Sogni, speranze, illusioni, gratificazioni e delusioni.
Puzzo di morto e profumo di santità.
Anima racchiusa in piscio ed in sperma, sangue che scorre giù dal naso e bagna le mani.
Mi guardo le mani.
Sono un uomo.
Delusione che cammina a testa alta e si guarda attorno, che sfida la tempesta ed ama sentire la pioggia picchiare e sbattere sulla propria testa fino a disturbare quei pensieri talmente irrazionali da essere maledettamente tangibili.
L'inganno come unica soluzione.
La pace come utopia.
Capitoli da riempire con sudore di passione.
Eccomi come uomo, sono un cieco senza cane e bastone che cammina agitando le braccia per trovare un appiglio e non cadere.
La sigaretta ormai spenta mi cade dalla bocca, io non sogno nessuna rivolta, nessuna città da assediare, nessun colpevole da imputare.
Ho visto un albero laggiù, proprio alla fine della strada, credo che mi siederò sotto di esso e forse ci passerò la notte.
Gli alberi mi fanno stare bene, mi riportano al principio, asciugano le lacrime, danno conforto e poi fanno ripartire, lo fanno in silenzio.
Vorrei essere un albero.

giovedì 29 settembre 2011

"Radio."

Fuori piove ed i vetri di casa grondano.
Piove a vento.
Mi domanda il senso del mondo, della vita.
Io non sono in grado di dargli una risposta.
Lo guardo con interesse, osservo le sue mani paffute, i suoi capelli ricci, la sua bocca carnosa, i suoi occhi marroni.
Ricordo i suoi occhi pieni di lacrime e la forza che dimostrò nel trattenerle tutte.
Nella foresta calpestammo il dolore, ci pisciammo sopra, lo prendemmo a calci, ci sputammo sopra con la convinzione che così facendo se ne sarebbe andato.
Mi dice che per lui la vita è un gioco in cui noi siamo pedine spostate da un bimbo bendato.
Muovo la testa dall'alto verso il basso e non dico nulla.
Passo lui la pallina da tennis, è davanti a me disteso sul divano blu.
Mi passa nuovamente la pallina e con la mano sinistra mi gratto il collo.
Fuori non smette di piovere.
Ho osservato con interesse le sue innumerevoli trasformazioni, i suoi mutamenti, la sua evoluzione.
Ho goduto ogni sfumatura di quel che era e godo adesso quello che è aspettando con impazienza quel che sarà domani.
Del suo divenire uomo, io sono testimone.
Ci passiamo la pallina, la radio è al giusto volume, solo una luce è accesa, fuori piove ed io sono con mio fratello che è ormai un uomo.

mercoledì 28 settembre 2011

"?"

Ci ricaschiamo sempre.
Parlo con me.
Parlo per me.
Io ci ricasco sempre.
Merda.
Allontano con la mano destra il cellulare che squilla, cade a terra e me ne fotto.
Alzo il volume dello stereo, voglio far tremare questo cazzo di palazzo tutto bello con le piante sui balconi.
Voglio sentire forte.
Voglio mescolarmi alle vibrazioni e perdermi nell'eco che va ad infilarsi in ogni angolo di mondo in questa umida sera di fine settembre.
Voglio svegliare tutti.
Voglio, voglio, voglio.
Voglio troppo e poi mi scoccio.
Tocco il muro e poi casco.
Cado a terra e mi rotolo nel fango.
Mentre rotolo m'accorgo di volere il fango, di godere nel fango, d'essere fango.
Merda.
Quante parolacce, tante parolacce.
Sono in trappola, certe parole dovrebbero sottolineare un certo stato.
Che stato?
Passo, questa non la so.
Che tu sia benedetto.
Cercare caffè in mezzo il mare, cercare il profumo dentro al puzzo, cercare un chiodo in un fosso.
Cerco e poi m'incazzo se non trovo ciò che cercavo.
Ancora non mi spiego come sia successo,
non è questo un processo,
è giusto per parlare,
senti il mare,
è dentro questa conchiglia,
ascolta.
Io sento dolore.
Tirami dietro una panchina,
poi portami in una qualsiasi cantina.
Vorrei aver sognato tutto.
Spero che domani sia nuovamente primavera per rinascere con un fiore e per morire con la neve.
Ci sono ricascato.
Merda.

martedì 20 settembre 2011

"Dubbio."

Sabato 27 agosto, ore 10.40 del mattino.
Composi il suo numero e lo chiamai.

-Carmelo ciao, sono io, Andrea.
-Ciao Andrea come stai?
-Abbastanza bene, che ne dici se passo a farti una visita nel pomeriggio?
-Volentieri, c'è qualcosa che non va?
-Vorrei parlarti, ho un dubbio.
-Ti aspetto qui, vieni quando vuoi.

Ore 16.00. Casa di Carmelo.
Biascicava quei brigidini e solo a ripensarci mi viene il vomito. Sembrava una mucca nella mangiatoia con quella sua schifosa lingua bianca da malato che mi mostrava ad ogni masticata.
Che schifo, da rabbrividire.
Si rivolgeva a me con aria da saccente osservando dalla finestra il suo prato ben curato, o forse, guardava semplicemente se stesso riflesso nel vetro della finestra: è un vanesio di quelli che fanno venire il nervoso.
Ogni specchio è buono per controllarsi il caschetto biondo.
Che uggia che mi fa venire con tutti quei versi, il narcisista, il divo, il dandy, il vate, nonché filosofo e poeta, roba da restare sui coglioni anche a se stesso se riuscisse a rendersene conto.
In accappatoio, con il dopobarba che ancora rendeva lucente il suo volto sbiadito, mi parlava di quello che per lui era il problema dei problemi, o uno dei tanti.
-É enorme l'enigma, un rompicapo tremendo, roba da perderci la testa.
Parlava sputacchiando.
Il tono della sua voce, sembrava suggerirmi di evitare ogni possibile ragionamento riguardo ai temi da lui esposti.
Non avrei alleggerito il suo fardello di domande e di dubbi ma anzi, avrei peggiorato la situazione.
Stetti in silenzio.
Ero lì per esporgli un mio problema, ci tenevo che mi ascoltasse.
Altezzoso e snob, caparbio ed egocentrico, il mio amico Carmelo Corsini si pone agli uomini come generalmente si usa fare con le formiche: non dando loro considerazione.
Carmelo si tiene a distanza da quello che succede fuori, gli basta una merdina di libro per capire, essere informato e poi partire con le sue assurde riflessioni.
L'esteta, l'amante del bello.
Ha una casa arredata con suppellettili che, a detta sua, hanno un valore inestimabile, a detta mia sono cose prese a caso in un qualsiasi mercatino di fine mese nella periferia più sperduta di una città del vattelappesca stato, nel vattelappesca continente.
Roba pacchiana.
Un ghepardo in ceramica, grande come un vero ghepardo, se ne sta in salotto a fare da guardiano.
Con questo, ho detto tutto.
No, anche la moquette amaranto è un particolare degno di nota, per non parlare degli angioletti dorati e dei violini sparsi per tutta casa.
Dopo un quarto d'ora, m'ero già pentito d'essere andato a trovarlo.
Ma dovevo parlargli, dovevo avere un suo parere, avevo in testa un cosa e dovevo parlarne con qualcuno.
Lui mi sembrava perfetto.
Proprio lui sarebbe stato l'unico a potermi aiutare.
-Carmelo, ho un dubbio e vorrei parlarne con te.
-Sei qui per questo se non sbaglio.
-Si. Risposi io chinando il capo.
-É un vero e proprio problema, Carmelo, credimi.
-Problema? La vita è un problema.
Mi rispose così e le palle mi cascarono letteralmente sulla moquette amaranto.
-Seriamente Carmelo, devo parlarti di una cosa importante.
Mi guardò, inclinò la testa e si mise in bocca altri brigidini.
Che schifo.
Poi parlò, ed indicando il giardino mi disse che avrebbe preferito andare là.
Un bel giardino il suo, col prato all'inglese, delle belle piante e molti alberi secolari.
-Hai un giardiniere?
-Si, un filippino che non capisce l'italiano, ma va bene, fa comunque un bel lavoro.
Ci sedemmo in giardino sotto il suo enorme gazebo.
Sempre in accappatoio, mi versò dello whisky nel bicchiere, whisky e bicchieri che si trovavano già sul tavolo di marmo attorno al quale ci sedemmo, come se fossero stati messi lì per l'occasione e probabilmente lo erano.
-Questo è strepitoso, scozzese, invecchiato vent'anni.
Mi disse, ammiccando compiaciuto.
Sono abituato al Jack daniel's, roba da poveri.
-Buono, ottimo.
Dissi sorseggiandolo.
-Di cosa volevi parlarmi?
Mi domandò distrattamente accarezzando un cofanetto di legno che se ne stava sul tavolo.
-Amico mio, sono un po' imbarazzato ma devo parlarne con qualcuno, tu mi sembri l'unico in grado di capirmi, vedi sto affrontando una fase delicata della mia vita e.....
Suonò il telefono, io non lo sentii ma Carmelo sì.
Corse in casa e ci stette per parecchio tempo, il tempo di sei sigarette per intenderci, e io fumo piano.
Stetti ad osservare il suo giardino, davvero bello.
Alcuni piccioni s'affacciarono dal tetto della villa e poi presero il volo.
Carmelo tornò imprecando qualcosa.
-Tutto bene? gli domandai. Mi sembrava nervoso.
-Si, quella stronza di mia sorella non riusciva a connettersi ad internet, non ci capisce nulla, mi fa venire il nervoso.
Sua sorella abita in Nigeria, commercia diamanti, è lei che manda avanti tutta la baracca.
-C'è riuscita?
-No, te l'ho detto, non capisce un cazzo.
Si passò le mani tra i capelli e sputò aria dalla bocca.
-Ti stavo dicendo Carmelo.
-Si, dimmi, ti ascolto.
Aprì il cofanetto di legno che accarezzava poc'anzi e un potente odore di marijuana avvolse i miei sensi.
-Ma che fai? Da quando fumi erba?
-Da poco, la coltiva il filippino che mi fa da giardiniere, me la regala.
Non dissi nulla ma restai sorpreso.
Mi riempii il bicchiere.
Restai ad osservarlo mentre preparava il tutto, sbriciolò una cima d'erma e l'avvolse nella cartina, mise il filtro, rullò bene e leccò la colla.
Pronto che fu, accese con forti boccate e denso fumo uscì dal suo naso per poi disperdersi nella calda aria di fine agosto.
-Ti stavo dicendo.
Dissi io mentre fumava.
-Ora fuma, ti libera la mente.
Mi disse lui passandomi quell'arnese fumante dopo aver fatto pochi tiri.
Fumai, non fumavo dalle superiori.
Guardavo i suoi occhi che s'erano socchiusi ed erano diventati rossicci.
-Mi dicevi?
Disse lui con le mani conserte.
-Come?
Domandai io, ero stordito come come se m'avessero fatto l'anestesia dal dentista e m'avessero stuzzicato la bocca per ore.
Poi dissi: -Ho un dubbio Carmelo, un vero dilemma.
Carmelo agitò le braccia come per salutare qualcuno, mi voltai e vidi un tipo alto non più di un metro, scuro di pelle, con delle forbici da giardiniere in mano e un cappello di paglia.
Il giardiniere filippino, appunto.
Richiamato dall'odore della sua erba, il giardiniere si sedette al tavolo con noi, gesticolò qualcosa e ci stringemmo la mano, poi anche lui preparò un altro spinello.
Morale della favola, alle sette di sera eravamo due cretini che si scaccolavano e ridevano ai versi stupidi del filippino.
Carmelo andò in casa a prendersi i suoi brigidini, tornò fuori e si mise a biascicare.
Era ormai l'ora di cena e decisi di andarmene, mentre ero in macchina mi domandavo se Carmelo avesse fatto tutto di proposito per non ascoltare quello che avevo da dirgli, colpa del fato o di non so che, ma avevo ancora i miei dubbi.
Parcheggiai la macchina vicino casa, percorsi a piedi tutta via Firenze e pestai una merda che un qualche bastardo aveva lasciato proprio in mezzo al marciapiede.
La pulii strusciando il piede nei giardini di piazza Dante, proprio sotto casa.
Ero in condizioni pessime, del tipo che vedevo orsetti bianchi fare capriole davanti a me e donne che andavano nude in bicicletta suonando il campanellino e fischiando.
Arrivai davanti al portone di casa, le ultime luci della sera rendevano lucenti i pomelli d'ottone, mi frugai in tasca ed infilai le chiavi nella toppa.
L'androne mi sembrava enorme, enorme come non l'avevo mai veduto prima.
Entrai in casa e andai subito in bagno per farmi una sana doccia rigenerante.
Il dubbio mi pulsava nella testa, batteva nella mia nuca e sembrava una di quelle palline di gomma che rimbalzano ed intraprendono traiettorie sempre nuove, quelle del mare per intenderci, quelle dei distributori che si comprano ai bambini.
Uscii dalla doccia e misi davanti allo specchio, pulii la condensa dal vetro e mi guardai negli occhi.
Mi sembrava di aver pianto per tutto il giorno.
L'orologio del bagno segnava le otto.
Pensai al mio amico Carmelo, al fatto che non avesse voluto la mia intromissione in quello che per lui era il “problema”, il suo “enigma”, il suo “rompicapo”, il suo “dubbio”, e che non avesse voluto che gli parlassi del mio.
Mi guardai nuovamente negli occhi e poi tutto mi fu maledettamente chiaro, Carmelo m'aveva mostrato senza dire, lo capii in quel momento.
Il "dubbio", siamo noi.

giovedì 15 settembre 2011

"Piero è tranquillo"

Metà mattinata, erano all'incirca le dieci e qualche minuto.
Stavo servendo Edda Carducci, una donna paffuta e antipatica.
Antipatica come l'operaio del comune che alle sette di ogni santo giorno, o taglia l'erba, o soffia le foglie proprio nei giardini sotto la mia camera da letto e di conseguenza mi sveglia.
Mi alzo nervoso e resto stordito per colpa sua, ne sono sicuro, i bastardi del comune fanno tutto la mattina presto per farsi sentire e poi vanno a nascondersi in chissà quale cantina fino all'ora di pranzo.
Bastardirubasoldi.
Ma torniamo a noi, il solito filoncino di pane e il solito etto di salame toscano tagliato sottile, erano già nella borsa dell'insulsa signora Carducci, fu lì che m'accorsi, guardando verso la porta, quello che stava succedendo nei giardini di piazza Dante, proprio davanti alla mia bottega.
Liquidai la signora con un rapido grazie e arrivederci, poi osservai meglio quello che stava succedendo.
Un enorme lombrico umano, strisciava silenzioso nei giardini e non capivo cosa potesse rappresentare.
Qualche processione?
Sciopero dei precari?
Protesta per gli storni che smerdano tutti i giardini?
Sciopero delle badanti?
Volevo andare a vedere ma la signora Bencazzi stava entrando in negozio e rimandai.
Qualche pera matura, delle pesche bianche e due pacchetti di diana rosse morbide.
Dodici euro di spesa e qualche spicciolo, arrotondai per difetto con la furia di andare a vedere cosa fosse successo.
-Fortunatamente, hanno aperto quello sportello, siamo tutti peccatori, non trovi?
-Che sportello?
Domandai alla signora Irma Bencazzi che sembrava aver dormito nell'armadio tanto puzzava di naftalina.
-Che sportello?
Domandai nuovamente a Irma alzando il tono della mia voce per farmi sentire, non sente un cazzaccio nulla e fa le domande, mi fa venire un uggia che le schiaccerei la testa sul registratore di cassa fino a farlo aprire.
Provai con lo spelling.
-C-H-E S-P-O-R-T-E-L-L-O-?
La signora Bencazzi sorrise, non aveva capito la mia domanda e andò via borbottando qualcosa in aramaico antico.
Roba da pazzi, scene di tutti i giorni e ancora mi chiedo chi mi dia la forza per andare avanti.
Uscii dal negozio e mi avvicinai a quel gruppo di persone silenziose e con la testa china che procedevano in fila, una fila stranamente ordinata lunga un centinaio di metri. Un vero e proprio lombrico.
“Sportello? Che cazzo di sportello hanno aperto per avere una fila così?”
Mi ponevo domande ma non potevo avere risposte, mai mi sarei immaginato una cosa del genere.
La testa del lombrico, sembrava infilarsi in quella che era un tempo l'officina di Walter Rizzilli, un puttaniere che riparava macchine, ricordo che con la scusa di gonfiare le ruote della bicicletta, avrò avuto dodici o tredici anni, guardavo i calendari con le donnine nude in pose alquanto provocanti.
Walterino, lo chiamavano così, mi regalò anche un calendario che nascosi in cantina per non farmelo beccare dai miei.
Ho rischiato di diventare cieco per colpa sua.
Insomma, dopo la morte di Walter, il fondo fu venduto a qualche pezzo grosso della chiesa.
Per farci cosa non lo so, immaginavo un laboratorio specializzato in produzione di ostie a qualche gusto esotico, o roba del genere.
Poi, mi trovai davanti al fatidico sportello.
Un tizio tarchiato e con l'auricolare mi fece presente di rispettare la fila, gli risposi che volevo solo vedere che tipo di sportello avevano aperto.
Delle suore distribuivano bicchieri d'acqua alle persone in fila.
Se vi dico che sportello hanno aperto quelli della chiesa, non potete cederci.
Da restarci secchi.
Io stentai a crederci e pensavo d'essere dentro la più assurda illusione ipnagogica, oppure d'essermi messo sotto la lingua un cartoncino di Lsd e d'essermene totalmente dimenticato.
Quando vidi l'insegna lampeggiante, stille bordello del Nevada, rimasi di sasso.
INDULGENZE.
Non potevo crederci e iniziai a schiaffeggiarmi la faccia.
I componenti del lombrico tenevano la testa china e le mani unite in segno di preghiera.
“Qui si sta perdendo la testa”, pensavo, mentre di passo svelto tornavo in bottega.
Ad aspettarmi, c'erano tre ragazzi che probabilmente s'erano appena fumati l'intera Giamaica, ridevano e si prendevano a sberle con quei loro occhi rossi e socchiusi.
-Ditemi ragazzi, avete bisogno di qualcosa?
Il tizio coi dred stile fiftycent, piegato in due dal ridere disse:- Indulgenze, un chilo!
Iniziai a ridere con loro, ma da ridere non c'era proprio nulla.
In pochi minuti mi trovai in bottega la signora Conti, le sue tre sorelle, la signora Maggi e Piero Calzolai.
Tutti erano soddisfatti per il nuovo sportello appena aperto.
-Giovane, ci sei andato?
-Ancora no caro Piero, tu ci sei stato?
-Si, con 200€ mi sono messo apposto con Dio, ora posso morire tranquillo.
-Capisco Piero, capisco..
Le sorelle Conti erano entusiaste, in serata sarebbero state apposto anche loro.
La più secca delle sorelle Conti mi guardò e mi disse:- approfittane figliolo, approfittane, siamo tutti peccatori.
Sorrisi, un sorriso amaro come il primo caffè della mattina: sarei andato volentieri con quei tre ragazzi a fumare erba.

Dall'altra parte dei giardini, vendono indulgenze perché siamo tutti dei peccatori.

sabato 10 settembre 2011

"Refait surface."


M'accollo le colpe per le questioni irrisolte.
Lo capisco e l'accetto.
Ma non è tutto, c'è un qualcosa di universale a farmi maledettamente male.
Sudato, con i piedi che mi lacrimano sangue, le mani lessate e la fronte corrugata, concludo questa mia giornata.
Coltelli affilati, vetri rotti, spine bramose di graffiarmi l'addome e selciato lastricato di pietre appuntite.
Eccola la strada nella quale mi trovo.
In molti si sono arresi,
eccoli là nella fossa,
son tutti morti con la testa rotta, fracassata, sbattuta, putrefatta e mangiata da cani randagi, uscita sotto forma di merda dagli stessi cani che adesso si grattano il culo strusciandolo a terra.
Menestrelli sdentati, esultano con gioia al ritorno del dolore.
É tornato, ma credo che non se ne sia mai andato, era nascosto nelle mie viscere, pronto a farsi vivo quando meno me lo sarei aspettato.
Eccolo che è tornato.
Sono costretto a saltare di palo in frasca, oggi c'è burrasca.

lunedì 5 settembre 2011

"Pesca".

Ma ad un tratto qualcuno, guardando fisso in lontananza, esclamò: “Guardate là, che cos'è?”
Sul mare, all'orizzonte sorgeva una massa grigia, enorme e confusa.
Le donne si erano alzate e guardavano, senza capire, quella cosa sorprendente mai vista prima.
Uno disse: “É la Corsica!” (tratto da: La Felicità. Maupassant)

Corsica, isola affascinante e misteriosa.
Maupassant, ne è profondamente affascinato e la menziona in molti dei suoi racconti.
Il mare è stupendo e pescoso, le montagne sono altissime ed ospitano capre che saltellano da una roccia all'altra, incuranti del pericolo.
La Corsica, è anche la meta scelta per le vacanze estive da due amici fiorentini i quali decidono di andarci con le rispettive famiglie.
Pace, tranquillità, relax e tanta pesca.
Ottimo dopo un anno di lavoro.
I due amici, uno riccioluto e l'altro rasato, sono appassionati di pesca d'altura.
Uno di loro, ha appena acquistato una nuovissima Al custom perfettamente equipaggiata e non vede l'ora di testarla, magari catturando un bel dentice o perché no, una bella ricciola.
Arrivati al porto di Bastia, le due famiglie si dirigono a Saint Florent dove una casetta immersa nel verde, che propone un ottimo panorama sul mare, li ospiterà per tutta la durata della vacanza.
Proprio al porto di Sain Frontent, è ormeggiata la nuova barca chiamata “Oligo”.
La sera stessa dell'arrivo sull'isola, i due pescatori si dedicano alla preparazione dei finali e allo studio della carta batimetrica cercando una secca dove andare a pescare.
Alle tre di notte, con il freddo e la luna a fargli compagnia, i due si dirigono al porto e partono alle ricerca di esche con le quali pescare.
L'esca che preferiscono è il calamaro.
Dunque, attirano i pesci con il vivo.
Passano molto tempo alla ricerca di calamari, il tempo speso alla ricerca di una buona esca è fondamentale.
Dopo qualche ora, hanno una vasca piena di molluschi pronti per l'innesco.
Nel frattempo, il sole sembra riemerge dallo specchio d'acqua salata e riscalda i due pescatori infreddoliti.
È l'albeggio, silenzio assoluto, il mare è liscio come il dorso di un pesce.
I due amici si guardano e sorridono, da un intero inverno attendevano quel momento.
Sono pronti, si dirigono alla secca individuata la sera prima, innescano un calamaro e calano l'esca in mare.
Procedono lentamente osservando le coste della Corsica, andatura attorno ai due nodi, si guardano e nei loro occhi brilla il desiderio di sporcare la barca con un bel animale.
Passano alcune ore e ancora neanche l'ombra di un pesce, il cielo sembra non rispondere ai loro desideri.
I due, sconfortati, mangiano alcuni panini preparati la sera prima, sono le dieci del mattino e il mulinello ancora non ha cantato.
Decidono di mettere in pesca una nuova canna.
I gabbiani, sembrano osservarli curiosi.
I due amici, parlano della vita, di tecniche di pesca e di altro.
Sono distesi e si godono il panorama, manca solo un bel pesce.
Il raffio, attende bramosamente un pesce da bucare.

-“TRRRRRRrrrrrrrrrrrrrrRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRrrrrrrrr....”
Il mulinello canta.
Strike.
Si alzano convulsamente e prendono posizione.
Centinaia di metri di lenza vengono ingoiati dal mare.
Poi una pausa.
Il tizio riccioluto afferra la canna e inizia il combattimento.
La sigaretta che era tra le sue mani finisce in acqua.
-“TrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRRRRrrrrrrrRRRrrrrrrrr...”
Che musica per le loro orecchie!
Il pesce è un osso duro e la lotta si fa intensa.
Adrenalina allo stato puro.
La canna è completamente piegata.
Cercano di mantenere la calma, l'altro pescatore è al timone e guida la barca facendo attenzione che il filo non vada sotto lo scafo.
Sono momenti concitati.
“TrrrrrrRRRRRRRrrrrrrrRRRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRR”
L'ultimo anello della canna è quasi in acqua.
Il pescatore urla la sua gioia.
Venti minuti di battaglia poi dal fondo del mare una chiazza bianca avverte loro che il raffio deve prepararsi a bucare.
Il tizio riccioluto ha le mani che vibrano dallo sforzo ma non sente la fatica: adrenalina in circolo.
L'uomo rasato afferra il raffio ed è pronto ad arpionare il pesce.
Siamo nelle fasi finali del combattimento.
È un momento delicato.
-“Stsch....” colpo secco e potente.
Il pesce è in barca.
Uno splendido esemplare di ricciola di 23 chilogrammi.
I due si guardano soddisfatti, la barca è stata battezzata.
Missione compiuta, si dirigono verso il porto di Saint Florent con un sorriso di soddisfazione stampato in faccia.
Il vento che plasma i loro volti, il sole che brilla sopra le loro teste, il pesce in barca: sono felici.
Arrivano al porto entusiasti della mattinata trascorsa, parcheggiano l'imbarcazione e la lavano con cura.
Portano la ricciola nella loro casetta immersa nel verde e la tagliano con attenzione.
Cena di pesce, le loro mogli ed i loro figli ne vanno ghiotti.

È sera, il sole, ormai scomparso, aveva lasciato tracce rosate del suo passaggio nel cielo, soffuso d'un polverio d'oro; e il Mediterraneo, senza un'increspatura, senza un brivido, calmo, ancora splendente, sotto la luce che andava morendo, sembrava una lastra di metallo levigata e immensa. (Maupassant)

I due pescatori vanno a letto presto, l'indomani sarà di nuovo pesca.