domenica 11 dicembre 2011

"La sirena e l'antilope."

É Morto Piero Marezzi, aveva 87 anni. L'ho letto all'angolo di via Pananti.
Non so neanche chi sia Piero Marezzi e non mi dice nulla neanche il suo cognome. Pace all'anima del povero Piero. Il fatto è che sono fissato con gli annunci mortuari, tutte le sere devo passare a vedere chi cazzo è morto.
Ci sono certe fissazioni che ormai sono diventate un vizio, mi alzo la mattina e mi chiedo: chi è morto? È una specie di rito il mio.
Come se il passaggio alla morte volesse significarmi qualcosa, come se sapendo chi ormai è morto la signora incappucciata e con la falce mi giri alla larga.
Perché sì, la morte mi fa una dannata paura.
Il problema è che non so che cosa ci sia dopo, mi dispiacerebbe marcire sotto metri di terra mangiato da bachi che s'ingozzano di me fino a scoppiare.
Da piccolo andavo sempre a messa, facevo il chierichetto, stavo composto ed ascoltavo con interesse le parole del parroco, ricordo ancora le sue mani pelose mentre spezzavano quell'ostia enorme. Il paradiso era la mia mia unica ambizione, potermi rotolare tra le nuvole era il mio unico desiderio da bambino. Mio padre credeva che mi facessi prete, mia nonna lo sperava, mia madre invece sono sicuro che avrebbe preferito vedermi morto piuttosto che devoto al Dio dei cristiani.
Ma se ci fossero davvero o il paradiso o l'inferno dopo la morte?
Domanda di una stupidità straziante. Eppure in molti se la sono posta, in molti si sono domandati cosa potrebbe succedere con la morte, se l'anima esiste, se è mortale oppure immortale.
Mi piace la concezione orfica, quella della reincarnazione, della metempsicosi, del corpo che è una gabbia nel quale le nostre anime sono costrette a vivere per purificarsi.
Ma lasciamo stare.
Ora che ci penso, un Marezzi lo conosco. Marco Marezzi è stato mio compagno alle medie per un anno prima che si trasferisse in Liguria non so a fare cosa.
Il Marezzi, alto forse meno di un metro e largo come tre di me, simpatico da morire, il Mare lo chiamavamo, aveva sempre le gomme da masticare e le regalava a tutti, forse anche lui si ricorda di me, sta di fatto che adesso io mi sto ricordando di lui.
Bene amici miei, volevate leggere qualcosa che vi lasciasse il segno? Cercavate la catarsi?
Avete sbagliato blog, l'astronauta è in una fase strana, è in un periodo che potenzialmente è ok, ma in atto è una cosa indefinita avvolta in una nebulosa fluorescente.
Adolescenza, sono scodate di un'adolescenza che proprio non vuol finire.
Finirà?
Si diventerà mai grandi?
Voi come vi sentite?
Quante domande.
Non è importante che mi rispondiate, che mi diate consigli, va bene così, mi godo il momento, ascolto il colore proibito, bevo vino e scrivo per il piacere di scrivere.
No sense.
Vedere, è questo che cerco, qualcosa che non abbia senso, qualcosa che mi lasci libero di vaneggiare quanto cazzo mi pare senza avere un dito puntato contro ed una voce stridula che mi dice che un senso, in realtà, c'è e come, e per ogni cosa.
Vivo, e spero che la vita non abbia un senso, che nulla abbia un senso, che tutto sia perché è e basta, senza calcoli o ragionamenti, senza mani demiurgiche che hanno dato ordine al caos, senza un Dio che ci dice come fare, senza un bastardo pronto ad indicarci la strada da percorrere.
Così, come un fiume in piena, voglio vivere per sempre in questa che è per me la fine dell'adolescenza, in questi giorni senza ragione, in questi momenti di follia, di completa incertezza, di vino e musica.
Voglio vivere come uno di questi miei pensieri, assurdi ed istintivi, paradossali ed in contraddizione.
Resta il fatto che Piero Marezzi è morto e forse conosco suo nipote, che la morte è forse l'unica certezza, che sono le tre di notte e non ho voglia di andare a dormire, e che forse andrò anche al funerale del povero Piero.

sabato 3 dicembre 2011

"Tra amici."

Un'ora dopo la partenza mi risveglio tutto stordito, poi qualche secondo dopo riprendo conoscenza e mi rendo conto d'essere nel sedile posteriore dell'auto tutta scassata di Lorenzo.
Sono sommerso da canne, retini, secchi, stivali, giubbotti e lampadine. Mi volto sbadigliando e alla mia destra vedo un tacito mare in lontananza, allora realizzo... stiamo andando a pescare! Gabriele, rasato e con la barba appena fatta, è seduto sul sedile davanti vicino a Lorenzo (anch'egli rasato e con la barba appena fatta) e voltandosi mi dice sorridendo che siamo quasi arrivati. Sorrido e gli batto il cinque compiaciuto.
Dopo una settimana di duro lavoro ci voleva proprio una serata rilassante tra amici, per liberare la mente, riordinare i pensieri e lasciare che il mare tolga dall'anima pesantezza proprio come solo lui sa fare.
Arriviamo al porto e sono quasi le cinque, il mare è liscio come l'olio, le acque sono chiare, il vento è assente e le condizioni sembrano ottime per pescare.
Ci sistemiamo sugli scogli, davanti a noi una barca solca il mare e pare darci il suo speciale benvenuto.
Lorenzo ha provveduto a tutto, attrezzatura da pesca e cena. É lui il nostro mentore, il nostro maestro, l'esperto con la profonda passione per la pesca che ci guida per mano verso i lidi più disparati mostrandoci e spiegandoci le varie tecniche di pesca. Gabriele ed io, infatti, ci stiamo affacciando solo adesso a quel fantastico mondo che è la pesca.
C'è un fondale di circa sette metri, mentre prepariamo la lenza ci mangiamo un panino e ci beviamo un po' di Lambrusco per riscaldarci. Il vino l'ha portato Gabriele. Disponiamo le nostre canne a ventaglio, sono canne morbide e con la vetta bianca per notarne la flessione nel buio, la nostra è una pesca semplice: a fondo.
Usiamo un piombo di 60gr e con l'ago apposito inneschiamo due canne con un Bibi ed altre due con Americani belli grossi.
Alle cinque e trenta siamo tutti in pesca.
Nel cielo sole e luna sono sospesi immobili, il sole lentamente tramonta alle nostre spalle e lascia il posto alla notte la quale ci sorprenderà arroccati su quegli scogli ad attendere l'incocciata di un bel pesce o magari più di uno. Confesso a Lorenzo di portare male e di aver pescato si e no tre pesci in tutta la mia vita, ma egli mi rassicura dicendomi che la serata è perfetta.
Dopo pochi minuti, infatti, Gabriele fa un fischio ed apre le danze con un parago.
Passano poi ore di silenzio, le onde s'infrangono sugli scogli e noi ci rilassiamo fumando qualche sigaretta e bevendo Lambrusco. Lorenzo e Gabriele sono amici di mio padre e Lorenzo non esita a raccontarmi qualche aneddoto divertente della loro sregolata giovinezza ed io rido di gusto mentre Gabriele imita i protagonisti della loro vita.
Alle otto, nel nostro secchio, c'è solo un triste parago. Il mare però s'è ingrossato, è cambiata la marea.
-Te l'avevo detto che portavo male,- dico sorridendo a Lorenzo.
Non faccio in tempo a finire la frase ed il mio mulinello canta beato, mi alzo di scatto e subito dopo aver preso in mano la canna mi rendo conto che il pesce non è piccolo.
Dopo qualche minuto l' animale è nel retino, è un'ombrina di 700gr.
La slamo ballando e mi rimetto nuovamente in pesca.
Mi siedo ed accendo una sigaretta, dico a Lorenzo che ora tocca a lui e questo fa spallucce dicendomi di non preoccuparmi.
Improvvisamente si alza un coro, è la musica che volevamo sentire: abbiamo tutti e tre un pesce in canna!!
Il momento è delicato, Lorenzo è il primo che porta il pesce a sé ed io gli passo il retino inciampando, poi a Gabriele cade la lampadina in acqua cercando di avvicinarsi a noi.
Io sono eccitato e mi metto a ridere, anche gli altri lo faranno.
Sarà stata colpa del Lambrusco? No, è l'adrenalina che rende tremendamente euforici.
Alle nove e qualche minuto abbiamo cinque pesci in saccoccia, gli ultimi tre sono una mormora, un'orata e un'altra ombrina.
La notte ci ha avvolto completamente, è la fine di novembre ma siamo sbracciati ad osservare i carri nel cielo, compiaciuti della bella serata.
Lorezo ci regala un altro strike: è un'orata di 500gr.
Sono ormai le dieci e decidiamo di preparaci per tornare a casa, una barchetta pesca totani proprio a pochi metri da noi e la si vede dondolare rilassata con quelle sue luci ai lati.
Ma poi ecco un'altra cattura, è ancora Lorenzo l'artefice, sorride e fischietta mentre tira a sé un'altra stupenda orata.
Alle una di notte siamo all'autogrill a mangiarci un panino e siamo contenti.
Rimontiamo nella macchina cigolante di Lorenzo, Gabriele si addormenta e russa appagato, dico a Lorenzo che la pesca mi piace e lui mi risponde che lunedì prossimo ci riporterà nuovamente con sé: si pescherà dalla spiaggia.
Durante il ritorno non riesco ad addormentarmi, i lampioni in lontananza segnano linee di luce nel cielo, penso alla felicità, al mare, agli amici, al rumore del vento, delle onde che s'infrangono sugli scogli, penso che il mare e la pesca sono fonte di serenità, quella che ognuno di noi va cercando dappertutto.

venerdì 25 novembre 2011

"Ambarabà ciccì coccò."

Soldi, soldi, pagare, pagare, tasse, aumenti, pagare, soldi, soldi, pagare.
Paga e zitto.
Porco di un cane ladro.
Sto zitto e pago.
Costa tanto tutto ed andrà ad aumentare tutto tanto.
Pago e sto zitto.
Stamani quella melensa della bancaria mi ha telefonato per dirmi che sono sotto.
-Infinite grazie, passerò in settimana da voi- le ho risposto facendo il sorpreso.
Come se non lo sapessi.
Per forza che sono sotto, ho dovuto mettere quattro nuove merdose gomme da neve ed ho speso un botto, poi le tasse universitarie, l'affitto di casa con l'aumento dell'Istat, le bollette, il veterinario, il dentista, il decoder e qualcosa dovrò pur mangiare. Poco, ma fatemi mangiare.
Sono pulito come il cesso della stazione e anche lì ho dovuto pagare per pisciare.
Oggi ho preso il treno per andare a Firenze: la macchina è ormai un lusso.
Guardiamo il lato positivo. Ho riscoperto il mezzo pubblico.
I capelli me li sono tagliati da solo e si vede, questo giubbino nero l'ho comprato da Stefan e si vede perché mi torna maledettamente male.
Non c'è soldi, c'è crisi.
Ho amici in depressione perché sono disoccupati, parenti che si logorano il fegato perché non sanno come  fare ad arrivare alla fine del mese ed oramai si privano di tutto.
Prendiamo ad esempio mio zio Luigi. Vedovo da ormai nove anni, il buon vecchio zio era abituato a farsi una sana scopata a casa della sua professionista di fiducia. Ora non può più permettersela.
Per lui è una tragedia e adesso appaga il suo desiderio con la mano mancina tenuta sotto il culo per una mezz'ora e tanta fantasia . Povero zio, mi sono commosso quando me l'ha detto.
La gente ha fame e batte i pugni su tavoli sempre meno imbanditi.
A tavola si mangia un po' di pane con l'olio e ci si piena bevendo tanta acqua del rubinetto.
Ambarabà ciccì coccò.
Le tre civette che prima se ne stavano beatamente sul comò pronte a farsi la figlia del dottore sono rimaste in due, la terza sta raschiando il fondo del barile alla ricerca di qualche centesimo per comprare qualche briciola di pane raffermo da dividere col resto del gruppo.
Si fanno forza le civette, Coccò mi ha confidato che sono vicini al perimento, e si vede.
Non c'è da fare i moralisti se qualcuna mostra la farfalla su cam4 per pochi euro o se c'è chi si prostituisce intellettualmente.
Soprattutto non c'è da storcere il naso se la dama dà un morso al suo ermellino ingoiando tutti peli per fare tappo e sentirsi piena.
Pagare, pagare, pagare, soldi, crisi, fame.
Faccio ironia ma la situazione è grave, se qualcuno di voi vuol piangere ho i fazzoletti profumati che mi hanno dato al bagno della stazione.
Io non piango, lo faccio solo quando ho la febbre.
Mi sfogo semplicemente scrivendo, cercando così di non pensare a ciò che ci sarà da pagare domani.
Soldi, soldi, pagare, fame, tasse, aumenti, pagare, soldi, soldi, pagare, fame.

mercoledì 9 novembre 2011

"No name"

Sono ancora qui, ancora davanti ad un foglio bianco.
Non posso farci nulla, è una maledetta patologia la mia.
Perdo tempo.
Avrei da fare un sacco si cose: studiare, scrivere due articoli entro venerdì, completare altri racconti per dei concorsi interessanti, farmi la doccia, tagliarmi i capelli, pagare due bollette, lo stesso per le tasse universitarie, portare il cane dal veterinario, scrivere un monologo per un cortometraggio e vattelappesca.
Dovrei anche andare a letto: se continuo così divento pazzo o alla peggio ci resto secco.
Dovrei sì, ma in realtà non ce la faccio, lo vorrei tanto ma non ce la faccio davvero.
Potrei nascondermi dietro la scusa del tempo che non c'è, del lavoro, ma siamo realisti per una minchia di volta: sono instabile.
Provo, mi sforzo, mi gratto la testa ricciuta, accendo una sigaretta, mi premo gli zigomi per svegliarmi, mi gratto le basette e la barba incolta, mi scaccolo e poi mi tolgo le scarpe.
Parto con la buona intenzione di fare un qualcosa di costruttivo insomma, di riscrivere gli appunti della lezione, di scrivere il monologo o un racconto di senso compiuto fino alla fine e non le mie solite stronzate di sempre che non hanno né capo né coda.
Ci provo, ma cado nel vizio.
Mi piace sedermi e scrivere la prima parola che mi viene alla mente, legarcene un'altra e poi un'altra ancora per completare un discorso.
Aggiungere un discorso ancora, descrivere un personaggio, un paesaggio, l'emozione di una situazione, ricordare ed inventare un'altra vita tutta nuova.
Il foglio bianco che supplica di essere impiastricciato, che non pone limiti, che vuole un personaggio scritto sul petto, una storia da mostrare soddisfatto alla corte dei fogli scarabocchiati, non riesco a non ascoltarlo, le sirene del buon vecchio Ulisse erano una pippa al confronto.
Un foglio bianco sul quale viene scritta una storia, è come un giovane che trova la sua personalità.
É questo il punto d'incontro tra la mia anima e il mondo.
Godo mentre scrivo.
La felicità è lì, scoprire me stesso in parole senza senso.
La mattina però, se non ho fatto quello che avrei dovuto fare, mi guardo allo specchio e mi sento in colpa, mi sento un fallito, un codardo, un cane con la lebbra, la personificazione della merda.
Io sono uno che ha i preconcetti, non riesco a non incazzarmi per certi comportamenti o modi di vivere, è più forte di me, voglio vedere sempre il bello e che sia come dico io.
Non ha senso, sono troppo bastardo anche con me stesso, riseco a bastonarmi anche quando dormo per come dormo.
Vivo nel paradosso, nella testa ho l'idea di ciò che dovrei fare e come dovrei farlo, ma poi in realtà nulla coincide, nulla combacia, nulla riflette ciò che avevo in mente. Giudico me stesso per l'incapacità di raggiungere i fini preposti e l'inefficacia del metodo utilizzato.
Non ce la faccio, casco sempre davanti ad un foglio bianco per andare nel mondo che mi piace e dimenticare tutto.
Forse è come mettere la testa sotto la sabbia, come mettere il mantello invisibile, come evaporare, come il perdersi nell'etere del fumo di una sigaretta qualunque.

La musica è al giusto volume, è una buona musica, la luce punta dritta sul foglio, la boccia è senza tappo e ne godo l'aroma annusandone semplicemente il collo, gli occhi sono socchiusi, la sigaretta è nella mia mano, la mia anima esprime se stessa nella collana di parole che velocemente vado componendo.
È un piacere.
Perché vendersi a quella parte bastarda di me che mi chiede di rispettare certe scadenze, certi temi, certi fottutissimi argomenti?
Perché forse è l'ora di crescere?
Perché la realtà è più potente della fantasia?
Perché la ragione è fredda e pone limiti e non va d'accordo con la fantasia che invece è calda ed indefinibile?
Che cazzo è allora la vita, in che modo deve essere affrontata, a quale parte di noi dobbiamo dare retta.
Chi aveva ragione, gli epicurei o gli stoici?
Non ne ho idea e vado a letto.
Ne ho un dannato bisogno.

lunedì 31 ottobre 2011

"La fine del mondo."


-Mi prendi per il culo? Dico io, ti sembra questo il momento di scherzare?
Provavo in tutti i modi a calmarlo e farlo ragionare, ma non mi dava ascolto.
Continuava a chiedermi se lo stavo prendevo per il culo e se mi sembrava quello il momento di scherzare.
Santo Dio, avrei voluto mettergli le mani addosso, picchiarlo e farlo svenire per non sentire più quella sua ansimante voce da pazzo sclerotico che ormai m'era entrata nella testa.
-Dai, rilassati un minuto ed ascoltami, non sta succedendo nulla, stai calmo e siediti.
Camminava per la casa freneticamente ed apriva con titubanza la tenda del soggiorno per vedere cosa stesse succedendo fuori.
Il paesaggio era buio, tutti i cani abbaiavano, gli uccelli cinguettavano e non c'era traccia di un passante per la strada.
-É la fine del mondo, io non voglio morire adesso.
-Non è la fine di nulla, è una cosa normale, succede di rado ma succede, stai tranquillo.
-Mi prendi per il culo?
Mio cugino solitamente faceva il grosso, si vantava di scopare più di ogni ragazzo della sua età, fumava per farsi vedere in giro e sembrare un grande, ma in realtà era un cacasotto di quelli numero uno.
Non riusciva a tranquillizzarsi, gli tremavano le mani e quel suo tic di grattarsi la testa nei momenti di panico divenne persistente.
Credo si sia sbucciato la testa quella mattina.
-Perché questo buio alle undici del mattino? Perché i cani sembrano impazziti? É la fine, me lo sento, moriremo tutti.
-La smetti di dire stronzate? Tra poco tutto tornerà alla normalità, anzi già questo è normale, ora basta con questa storia stupida e siediti.
-Il giorno del giudizio è arrivato.
-Sì, è la fine del mondo.
Gli dissi così per farlo contento e finalmente la finì di camminare senza senso per il salotto, paradossalmente, non so perché, in qualche momento si tranquillizzò.
Non mi lasciò finire di parlare e corse a nascondersi in cantina passando dalla scala interna della cucina.
Io avevo sedici anni e mio cugino diciotto.
Era un tipo secco e lungo infatti lo chiamavano “stecco” di soprannome, adesso ha trent'anni e la fissazione per la palestra l'ha fatto diventare un armadio.
É enorme, sembra un armadio di quelli che hanno nelle camere i genitori e dentro i quali c'è posto per la roba invernale e tutto, lenzuoli ed asciugamani puliti per tutta la famiglia compresi.
Anche per quei giubbotti usati e regalati da qualche parente che ancora non vuoi buttare perché pensi che in un futuro potrebbero tornare di moda.
Insomma, il nome è rimasto e gli amici lo chiamano ancora “stecco”.
Lo seguii in cantina e si sedette sulla poltrona della povera nonna ormai morta.
Mi chiese una sigaretta.
-Non fumo e non ce ne sono in casa di sigarette- risposi io facendo spallucce.
Iniziò a piangere disperatamente.
-Avrei voluto conoscere meglio mio padre, essere stato un bravo ragazzo, non aver rubato nel bar del Tagliaferri, non aver tradito Carla per Giada ed essere andato a messa ogni domenica come voleva nonna.
Aveva una voce affranta, dispiaciuta, angosciata e costernata mentre me lo diceva.
Accesi la luce della cantina con l'interruttore alla mia sinistra, il suo volto era mesto, rigato di lacrime e i suoi occhi velati di terrore, guardava un punto indefinito del pavimento sotto le sue ciabatte della fila.
Porco cane se era avvilito!
-Puoi rimediare, stasera dici a tuo padre che lo vuoi “conoscere”, ti presenti dal Tagliaferri e gli dici che hai rubato, domenica vai alla messa e poi dici a Carla che la ami.
Gli dissi io sorridendo, ero seduto sui primi scalini in vetta alle scale.
-Il domani non ci sarà, quel che è stato è stato, è giunta la fine, non c'è più tempo.
Poi, singhiozzando, mi mormorò:-Pantani però mi ha regalato delle belle emozioni, il Pirata m'è entrato nel cuore con le sue volate, l'anno scorso giro e tour, peccato per quest'anno.
-Tranquillizzati, vieni su con me e beviamoci qualcosa.
Abbracciai mio cugino che tremava come un pulcino bagnato e lo portai in salotto, stranamente mi dette ascolto.
Ci bevemmo un coca poi lentamente un po' di luce penetrò dalle tende ed illuminò la stanza.
Corremmo alla finestra e guardammo fuori, il sole era tornato e sembrava aver sconfitto le tenebre.
Mio cugino mi guardò e sorrise, capii che la morte gli faceva paura.
Era il 1999, l'anno di Benigni come miglior attore protagonista, dell'esclusione di Pantani dal giro d'Italia, della beatificazione di Padre Pio, del primo dei sette tour de France vinti da Amstrong, della vittoria del campionato del mitico Milan di Zaccheroni.
Fu anche l'anno dell'eclissi totale di sole, l'estate in cui mio cugino pensò che fosse la fine del mondo.
Fu l'anno in cui iniziai a volergli bene.

lunedì 24 ottobre 2011

"Mano."

Ciò che un giorno tenevo stretto in questa mano,
adesso l'osservo da lontano.
Eccola là, dietro quella porta,
silenziosa e allo stesso tempo assordante,
potente e soave,
leggera e pesante.
Ottima come il migliore degli auspici e necessaria come la peggiore delle sconfitte.
Partita per un viaggio del quale non so nulla, andata verso qualcuno che non conosco, scappata per capire se stessa e quindi decretare il mio destino che è tuttavia segnato, marcato sulla mia schiena da un fuoco che un tempo era amico.
Là, oltre quella porta, c'è un qualcosa che ormai appartiene al passato.
Sento il suo profumo, profumo di pane e di crostata alla marmellata, fragranza di me in un corpo di donna.
Come faccio a sopportare la sua assenza, come faccio ad affrontare il mio destino, come, come faccio stupido foglio e stupido cursore, ditemelo voi.
Adesso sono al tappeto ed il mio avversario continua a darmi calci in testa.
Uccidimi, finiscimi, ti prego distruggimi e poi lasciami in pace.
Con le mani unite come in una specie di preghiera pagana, la testa inclinata, il volto rigato da lacrime che poi vanno a bagnarmi le labbra, mi rendo conto d'aver perduto una parte di me.
Non capisco come questo sia potuto accadere, ma adesso è così.
Mi trastullo con l'idea di ciò che sarà di me domani, spero che il suo profumo torni ad essere il mio, che i suoi occhi sia nuovamente pieni di me e che il sole torni a brillare.
Piove, mi distendo sul prato e mi guardo la mano, un tempo c'era lei.

giovedì 20 ottobre 2011

"Sbagliati schieramenti."

Sì, è vero, la colpa è di chi crede che tutto sia come si manifesta e che tutto vada maledettamente bene.
Bastardi.
È colpa loro, dei dannati, ne ho la certezza.
Si sono arresi ed inconsapevolmente godono sapendo che anche tu sei ad un passo dalla resa.
Ma loro non lo sanno, sono ignorati, e si masturbano con l'idea che potresti passare dalla loro parte anche se non sanno di appartenere a qualcosa, di essere identificati con una “parte” e di essere un club con tanto di logo registrato.
Sborrano perché un qualcosa li eccita enormemente, perché sentono nell'aria che qualcuno è vicino, che qualcuno si unirà a loro.
Sembra ieri che pensavo a come poter alzare bandiera bianca, con quale mano alzarla, con che smorfia presentarmi all'ingresso del loro circolo, come vestirmi.
Mi avrebbero accolto con baci e pacche sulle spalle, offrendomi da bere, facendomi spazio sul loro divanetto in pelle d'elefante.
I bastardi sono cordiali, gentili, altruisti e senza dubbio possessori di un grande senso estetico.
Sicuramente avrei bevuto roba strepitosa dal retrogusto esotico, servita in appositi calici in cristallo lucente.
Una volti entrati, non se ne esce, è più forte di una qualsiasi cazzo di droga, dall'eroina ne esci ma da lì non si può.
La morte è l'unica soluzione.
Provo pena per loro perchè si sono arresi.
Nessuno ti obbliga a restare, sei tu che dimentichi tutto e credi che quella che stai vivendo sia la realtà.
Non provare a dire loro che tutto non è come sembra, che sono illusi, che stanno sbagliano: diventano cattivi e mostrano i denti come i lupi affamati.
Non ti sbraneranno: sono moralmente contro la violenza e la disprezzano fermamente.
Con la birra vecchia sulla scrivania, il lapis in mano e gli occhi stanchi, difendo la mia parte, la parte di chi non ci sta, di chi non si accontenta, di chi non è illuso.
Ma poi tutto volutamente si contraddice, le virgole diventano punti e le A, diventano Z.
Si mischiano le carte, si cambia il panno sul quale si giocava e chi ha sempre barato ha due assi in tasca restando dunque fedele a se stesso.
Fondamentalmente siamo tutti vittime, noi e quelli del club, chi bara fa finta di giocare e ci sfotte ridendo sotto i baffi.
Ma io non ci sto, e manifesto il mio disappunto con le parole di questo scritto.
Uccidiamo il baro.

martedì 11 ottobre 2011

"Albero."

Vorrei essere un albero, ma sono la pagina ingiallita di un libro caduto dietro una scaffalatura marcia, nella cantina di una biblioteca abbandonata.
Aria chiusa dentro una bottiglia nell'oceano, peli nel lavandino in una casa di campagna alla malora.
Luci in lontananza, alba e tramonto, un sospiro ed uno starnuto, un sorriso allo specchio, il detto e ridetto, l'acqua santa e la personificazione del demonio.
Sono una ragnatela che si dondola al vento, lo sbadiglio di un gatto, il pane raffermo, la muffa nell'androne, lo spazzolone da buttare, le maniche arricciate della camicia di un contadino canuto.
Sogni, speranze, illusioni, gratificazioni e delusioni.
Puzzo di morto e profumo di santità.
Anima racchiusa in piscio ed in sperma, sangue che scorre giù dal naso e bagna le mani.
Mi guardo le mani.
Sono un uomo.
Delusione che cammina a testa alta e si guarda attorno, che sfida la tempesta ed ama sentire la pioggia picchiare e sbattere sulla propria testa fino a disturbare quei pensieri talmente irrazionali da essere maledettamente tangibili.
L'inganno come unica soluzione.
La pace come utopia.
Capitoli da riempire con sudore di passione.
Eccomi come uomo, sono un cieco senza cane e bastone che cammina agitando le braccia per trovare un appiglio e non cadere.
La sigaretta ormai spenta mi cade dalla bocca, io non sogno nessuna rivolta, nessuna città da assediare, nessun colpevole da imputare.
Ho visto un albero laggiù, proprio alla fine della strada, credo che mi siederò sotto di esso e forse ci passerò la notte.
Gli alberi mi fanno stare bene, mi riportano al principio, asciugano le lacrime, danno conforto e poi fanno ripartire, lo fanno in silenzio.
Vorrei essere un albero.