domenica 19 febbraio 2012

"Odore."

Ne ebbi un primo avvertimento mentre mi mettevo la gelatina nei capelli e sforzandomi sorridevo allo specchio.
Faccio stretching facciale ogni mattina, preparo così la bocca a starsene sorridente per tutto il giorno.
Sentivo i muscoli affaticati, gli occhi pesanti, freddo alle ossa, nausea e vertigini.
Ma nulla di strano. Quando vengono quei cani dei miei amici a cena si fa sempre mattina e si sa, in gruppo, si è tutti più inclini all'abuso.
Quel disgraziato di Nino, nel fine settimana, era stato con la sua tipa in un monastero ed aveva comprato uno strano liquore al sapore d'abete. Mica una bottiglia, sei. E ce le siamo bevute tutte.
Eravamo in quattro.
Normale sentirsi poco bene il giorno dopo.
Ma c'era odore di nuovo quella mattina. Ne ero certo.
Non era odore di scarpa nuova, né di macchina nuova, né di libro nuovo.
C'era profumo di vita nuova.
Quella mattina, sbadigliavo e sorridevo allo specchio guardandomi i denti che mi sembravano più storti del solito.
Il nuovo dentifricio alla menta mi lasciò un alito stranamente piacevole.
Di solito, mi puzza il fiato e me ne vergogno. Durante il giorno uso le caramelle al mentono ed eucalipto, mi sembrano le uniche capaci di alleggerirmi l'alito.
L'odore di nuovo non era dovuto al nuovo dentifricio, ci pensai, ma non era quello.
Preparai il caffè e tutto sembrò identico a sempre, gli stessi gradi per la casa, la stessa poca luce, la solita pisciata del cane sul pavimento al lato sinistro del divano, i calzini uno qua e uno là e bicchieri un po' dappertutto. E lo stesso tanfo di posacenere che aveva ormai impregnato le tende e la carta da parati a righine verdi.
Tutto, insomma, come ogni santa mattina.
Tutto tranne qualche buco in più nel muro vicino al bersaglio per le freccette che mio cugino mi regalò lo scorso Natale perché io mi allenassi ed andassi poi con lui a fare i tornei.
Ma non ci andrò mai, glielo dissi subito e glielo ripeto ogni volta che varca la porta di casa mia ed osserva i dardi piantati sul bersaglio.
Da tre giorni, c'era la neve in ogni luogo che la mia vista potesse vedere. Tanta neve. Mai vista tanta così in vita mia.
Affacciandomi alla finestra, vidi un tizio dal buffo cappello col paraorecchie in pelliccia di coniglio che, con gesti ampi, sembrava intento a seminare qualcosa davanti a sé.
Lo guardai meglio, aveva la sigaretta ficcata nella bocca, un giubbotto arancione, delle scarpe da montagna e dei guanti da lavoro. Spargeva sale sul marciapiede.
Mi venne in mente il mio amico Carmelo, il quale era stato tutta la sera a spargere consigli a tutti noi.
Ad un certo punto mi fece uggia e gli dissi di non cagare il cazzo con le sue fesserie e di andare a farsi prete o diacono se voleva andare in giro per le case a dire che “quello sì!” e “quello no!”, o cose come “sbagli a fare così”, oppure “dovresti provare a fare in questa maniera”. Odioso davvero.
Bevvi il caffè restando inebetito ad osservare l'uomo del sale. Un vero professionista.
Mi calzai gli scarponi e scesi le scale con due sacchetti pieni di bottiglie nella mano sinistra.
Nella mano destra il guinzaglio del cane ed un libro di Joice che un tizio che studia con me mi aveva consigliato e che poi ho comprato via internet risparmiando qualcosa rispetto a quanto lo avrei pagato in libreria. Ma ancora non l'ho letto e se ne sta nell'armadietto del lavoro insieme a grembiuli e cappelli da salumiere.
Il cane mi trascinava con forza per andare ad orinare. Nell'androne rischiai di cadere.
Non lo sciolgo mai, il cane. Lo trascino col guinzaglio.
Povera bestia. Povero Teo.
Da quando quel topo del mio jack russell attaccò la pelliccia di visone di una vecchia signora, sbranandogliela tutta, ha perduto la mia fiducia.
In un certo senso lo comprendo, credo l'abbia fatto per dare una lezione a quella strega. Se vedessi in giro qualcuno con una pelliccia di pelle di umano addosso, probabilmente farei la stessa cosa.
Insomma, però quella sua bravata m'è costata un botto di soldi. Pensai anche di vendere un rene per risarcire la donna dagli orecchini dorati che, quando mangio tanto, la sogno ancora mentre sbraita e mette su una tragedia con gli altri clienti del bar che fanno il coro e muovono le mani a tempo. Una vera tragedia.
Peccato che mi pietrificai mentre mi vociava sul viso, sennò avrei potuto darle un destro e lasciala a terra col mio cane a strapparle il visone. Lo dico per dire, non ne sarei capace.
Sono rimasto traumatizzato da quell'episodio.
Dovrei farmi vedere da qualcuno capace, non posso essere terrorizzato dalle donne colla pelliccia. Credo sia abbastanza semplice come problema, con poche sedute dovrei uscirne, ma forse anche senza.
Un altro problema, è che ho paura ad uscire di notte, da solo.
Anche Teo, la sera, lo lascio pisciare in casa.
Da quando un gruppo di naziskin mi spaccò di botte, alcuni anni fa, ho paura ad uscire.
Una di quelle carogne con la testa rasata so anche come si chiama: Paolo Bassi.
E so anche dove lavora e dove abita.
Questo racconto parla di Lui.
Mi picchiarono per divertimento, non gli avevo fatto nulla di male, erano ubriachi e forse gli aveva dato noia che fossi passato davanti al loro pub, lo Skrewdriver.
Sapevo una sega che quello era un posto da evitare, non sapevo cosa fosse lo Skrewdriver.
Pensavo significasse solo cacciavite. Mi sbagliavo.
Era una sera di febbraio, avevo diciassette anni, a quei tempi uscivo con un certa Sara che aveva due anni più di me.
Sara abitava vicino allo Skrewdriver, i suoi genitori non erano mai in casa e la sera andavo sempre da lei. Poteva dirmelo quella troia di non passare da lì, poteva dirmi di passare da via Corsi e non da via Pananti.
Mi fecero il viso viola quei bastardi, mi slogarono una spalla, mi ruppero tre costole ed il polso destro.
Ricordo le loro Dc. Martens coi lacci bianchi che mi colpivano il petto, i loro jeans arricciati, quelle bretelle che si muovevano nell'aria fredda della notte più fredda della mia vita, per poi sentirle frustare la mia testa ed il mio corpo dolorante.
Ricordo i loro tatuaggi, quelle ragnatele ai gomiti (erano a mezze maniche nonostante fosse inverno), volti di cane, rose, cuori, spade, rondini.
Tornai a casa e sembravo un altro. Non ce la feci ad arrivare con le mie gambe, mi ci portò un tizio che mi trovò mezzo morto vicino alla sua Panda. Gliela insanguinai tutta. Voleva portarmi all'ospedale ma poi lo convinsi a portarmi a casa. Salii le scale con una lentezza lancinante.
Mia madre si svegliò perché mi sentì piangere in bagno, non riuscivo a spogliarmi, mi guardò e dopo mille domande mi portò di forza all'ospedale.
Scesi le scale sorreggendomi da un lato al corrimano e dall'altro a mia madre.
Ero messo male.
Mi fecero una tac, m'ingessarono il polso, e poi mi tennero in osservazione per tutta la notte.
Parlavano di denunce, volevano sapere chi era stato a ridurmi in quel modo, ma io non dissi nulla. Mia madre insistette per qualche tempo ma poi si arrese.
Ora lo sa.
Conoscevo anche il padre di Paolo Bassi, Settimio, sapevo chi era ma non lo salutavo.
E Sara la chiamo troia perché l'ho beccata a fare un pompino al suo ex.
Una vera troia con la t maiuscola.
Gettai il sudicio nel cassonetto, e poi m'addentrai nel cortine per andare al lavoro.
L'aria fredda e pulita mi fece sentire meglio.
Lasciavo le mie impronte sulla neve ghiacciata, Teo anche. La neve gli dava quasi al muso.
Erano le otto e quarantacinque. Dovrei entrare alle otto, ma arrivo quasi sempre verso le nove. Mi resta più comodo.
Entrato in bottega, i colori accesi della frutta e della verdura mi fecero venire le vertigini più di quanto già non le avessi. L'odore del sugo sul fuoco e della polenta, mi strinsero lo stomaco e ebbi un insulto di vomito che sapeva d'abete. Maledissi Nino.
Quella sorda di mia nonna (comprensibile, ha 83 anni ed odia l'apparecchio acustico), se ne stava aggobbita colla sua vestaglia celeste a togliere le foglie vecchie dall'insalata e bisbigliava qualcosa a bassa voce.
Pensai che stesse dicendo il rosario, forse era così.
È alta poco più di un metro mia nonna, grassoccia, ha i capelli corti e sempre pettinati, gli occhi verdi come mio padre ed è simpatica.
Le andai vicino e le dissi -buongiorno!
Mio padre sbucò dalla cucina col mestolo della polenta in mano e prima ancora che mi togliessi il giubbotto e mandassi il cane in giardino, mi mandò a quel paese per il ritardo. Ma lo fece sorridendo e capii che non era incazzato.
Mia nonna alzò lo sguardo e lo riabbassò in un istante prima ancora che potessi vedere che colore di rossetto avesse sulle sue graziose labbra grinzose.
Verso le undici consegnai la spesa all'antipaticissima signora Costi (non mi lascia mai mezzo euro di mancia) e abita in un palazzo nel quale c'è sempre puzzo o di fritto o di minestrone.
Poi stetti in bottega a servire gente col mio sorriso splendente stampato sulla bocca.
Sono un professionista, alleno la bocca ogni mattina.
La gente viene a fare la spesa da me perché dicono che trasmetto serenità. Dovrò spiegargli, un giorno, che sono un attore nato.
E poi mi diverto con tutte quelle vecchiette (età media 70 anni), sorrido anche per questo.
Improvvisamente, accompagnato dal suono delle campane che rintoccano il mezzogiorno, sentii nuovamente quell'odore. Profumo di nuovo, di vita nuova.
Lo respirai a pieni polmoni, allargai le braccia come dopo una corsa e chiusi gli occhi per gustarlo.
Mi vene in mente la notte in cui fui pestato dalle teste rasate, mi venne in mente Paolo Bassi.
Tutte le volte che l'ho rivisto, ed è capitato spesso, sempre vestito di nero come le olive per fare il pollo alla cacciatora, ho sempre avuto timore di lui.
Però, una volta ho sognato che andavamo insieme a pescare, soli io e lui, ed eravamo amici.
I vetri del negozio erano appannati ed aprii la porta per vedere all'esterno.
In lontananza, vidi un tizio col cappotto giallo ed un berretto bianco. Camminava a testa china sulla neve che nel frattempo si era un po' sciolta.
Aveva una camminata che mi ricordava qualcuno.
Non diedi troppo peso alla cosa, ma seguii con lo sguardo quella figura che poi scomparve come inghiottita dalle case dal tetto innevato e dai balconi senza fiori.
Vennero pochi clienti quella mattina, Teo stette per tutto il tempo nella sua cuccia e lo vidi uscire solo un paio di volte per ingiallire la neve.
Finii di lavorare e non ero stanco.
Andai a fare due passi verso il centro.
Il mio cane decise di defecare proprio davanti agli annunci mortuari nei giardinetti innevati di via Bonaparte. Alzai lo sguardo e lessi:
Lunedì 12 Febbraio assistito amorevolmente dai suoi cari cristianamente è mancato
SETTIMIO
BASSI.
Di anni 67.
Ne danno il doloroso annuncio i figlio PAOLO e FRANCO, i nipoti MICHELE e GIULIA , il fratello PIERO, i cognati, i nipoti, la suocera e i parenti tutti. I funerali avranno luogo Giovedì 15 FEBBRAIO alle ore 10.00 nella Chiesa di San Lorenzo ove il caro Settimio arriverà dall'ospedale. Dopo le esequie si proseguirà per il cimitero locale. Il Santo Rosario verrà recitato Mercoledì 14 Febbraio alle ore 17.30 in Cappellina.

La scorsa settimana, era morto il padre di Paolo.
Mi dispiacque.
Camminai pensando a non mi ricordo cosa, avevo la testa vuota.
La neve sporca ai lati delle strade aveva strane sfumature marroni.
Poi mi sbucò davanti quell'uomo col cappello bianco e il giubbotto giallo.
Fui avvolto da un'incantevole fragranza che sapeva di fiori e placenta, di latte e meraviglia, morbida come il cachemire, leggera e confortevole come il fuoco nelle case di campagna mentre fuori piove.
Il mio cane iniziò ad abbaiare insistentemente, poi si distese per terra e voltò la pancia verso il cielo.
Lo avevo sempre visto col bomber nero e la coppola in testa, jeans stretti e stivaletti neri.
Non lo riconobbi subito, ma quella camminata era la sua, quegli occhi erano i suoi.
Era Paolo Bassi.
Si era tolto il nero d'addosso e ne aveva tolto un po' anche al mondo.
Pensai che la morte di un caro costringe a guardarsi dentro, costringe a riflettere, separa il bene dal male, purifica l'anima, costringe gli uomini a diventare uomini nuovi.
Mi piace pensare che Settimio abbia scelto non di rinascere da qualche altra parte del mondo, ma abbia deciso di dare un profumo diverso alla vita di suo figlio.
Spero sia davvero così.
Resta il fatto che mentre mi mettevo la gelatina nei capelli, appena sveglio dopo una cena tra amici,
ne abbi un primo avvertimento.
Poi tutto mi fu chiaro appena lo vidi, era un uomo nuovo che profumava di vita nuova.
Forse diventeremo amici, forse andremo insieme a pescare, forse la sera porterò fuori il cane.

Stasera ho scritto questa storia, è la storia di un ragazzo che sa di nuovo.

martedì 31 gennaio 2012

"Cagna, dove sei?"

Boia della miseria.
Dove sei, cagna?
È che non trovo la musica giusta, quella, per intenderci, capace di liberarmi la scimmia.
Guardo l'orologio anche se il tempo non mi ha mai ossessionato. Lo guardo e pare guardarmi anche lui. Ci guardiamo.
Poi mi osservo le dita e vedo che ho le unghie lunghe. Penso che prima di andare a letto me le dovrei tagliare. Non uso le forbicine. Uso il tagliaunghie e mi piace che le unghie schizzano dappertutto per il bagno. Poi m'incazzo se la mattina ne pesto una col piede scalzo. Dormo solo con un calzino e l'altro piede lo lascio come mamma me lo ha fatto.
Dormo così, c'è poco da fare, nudo e con un solo calzino. Preferisco coprire il piede sinistro.
Eppure stamani ero ispirato, m'ero appuntato anche alcune parole per scriverci un racconto.
Frugo in tasca dei pantaloni. Ci trovo uno scontrino, un accendino rosso, un lapis Ikea, 40 centesimi, del tabacco, le chiavi di bottega, quelle della macchina e nient'altro.
Del fogliettino sul quale avevo appuntato l'idea non c'è traccia. Porco cane.
Stamani al lavoro ero depresso. Non avevo voglia di sorridere e servire gente.
Avevo solo voglia di scrivere. La signora Rossi se n'è accorta e mi ha domandato se mi sentivo male.
Le ho risposto che avevo solo sonno. In effetti avevo anche sonno, ma ancora di più volevo starmene a casa a scrivere.
Negli ultimi tempi sto scrivendo poco. Scrivo tutti i giorni ma poco, roba come due o trecento parole e nulla di più. Sto perdendo il ritmo, ecco, del ritmo sono ossessionato, di tutti i ritmi.
Apro un libro a caso dalla libreria.
“Neanche se avessi cento lingue e cento bocche e una voce di ferro potrei enumerare tutte le forme dei pazzi, passar in rassegna tutti i nomi assunti dalla Pazzia”.
Erasmo è troppo forte. Lo rimetto nella libreria.
Poi spengo il computer.
Vado a letto da vinto. Poi le unghie non me le sono tagliate.
Penso che forse il foglietto che cercavo è in tasca del giubbotto. Mi aggrappo a questa sottile speranza, non mi arrendo, ho la testa completamente vuota e forse quel foglietto può aiutarmi.
Mi alzo a vado a cercarlo. La mia ragazza russa come una dannata.
Non c'è nemmeno nel giubbotto.
Mi viene l'ansia, non è certo colpa del mancato ritrovamento dell'appunto, ho l'ansia perché non capisco dove diavolo sia andata quella cagna.
Eppure l'ora era quella giusta, quella che dà l'inizio al nuovo giorno.
E la casa era pulita.
Scrivo di notte dopo aver pulito casa, altrimenti non mi concentro.
Guardo nuovamente l'orologio, sono le una.
Stasera nulla, si fa passo e la cosa mi brucia da morire.
Vado in bagno a tagliarmi le unghie e mi rendo conto di avere davvero l'ansia.
Decido di vestirmi ed uscire.
Non sveglio quell'essere russante perché sennò si crede che vado a fare il ganzo con le ragazzine e mi rompe.
Mi chiedo come possa fare con un corpicino come il suo ad emettere un rumore così forte.
É tremendamente sproporzionato.
Mi pento subito di essere uscito, la nebbia è fitta e non si vede un cacchio nulla.
Ho messo le Converse e mi fa freddo ai piedi.
Attraverso i giardini col collo dentro le spalle.
Aggrovigliati come piante rampicanti ad un palo della luce, due ragazzini stanno limonando con passione.
Ora la ragazzetta bionda è a cavalcioni sul ragazzo e i due si muovono lentamente e con costanza. Bravi, penso che fanno bene.
Attraverso la strada.
Cammino sul marciapiede e le mattonelle mal fissate a terra producono una strana melodia.
Sembra di camminare su una pianola metropolitana.
Ad un certo punto torno anche indietro per pestare con la punta del piede sinistro uno strano tasto dal suono tutto particolare.
Bello, la cosa mi gasa e aumento i passi: c'è un bel ritmo.
Sotto il giubbotto ho ancora la maglia del pigiama.
Mi ritrovo all'angolo di una strada e vedo che c'è un locale aperto.
La musica che vi proviene sembra ovattata dalla nebbia.
Mi avvicino. Un gruppetto di tipi tutti molleggiati se ne sta davanti alla porta a fumare. Chiedo una sigaretta. Un galletto con la cresta rossa me ne dà una e mi fa pure accendere. Penso che è gentile.
Finisco la sigaretta, la butto ed entro.
Le luci sono basse e strane scritte tappezzano le pareti amaranto. C'è davvero una bella musica.
C'è profumo d'incenso, al bar ci sono giovani bariste che ballano e preparano colorati intrugli.
Mi avvicino alla consolle dove una scatenato mette i dischi e tiene il ritmo con la testa pelata.
Ci saranno cento persone.
Quella melodia mi avvolge e mi coinvolge, con la mano sinistra che muovo a mezz'aria seguo il tempo.
Un tizio mi dà una pacca sulla spalla e mi porge il suo bicchiere, mi sorride e mi dice di bere.
Bevo e lo ringrazio.
Ho caldo ma non posso togliermi il giubbotto.
Noto una ragazza con un culo delizioso che muove i fianchi come una dea, ha i capelli ricci e biondi che arrivano poco sotto le sue spalle minute. Ha una maglietta grigia, una gonna nera, degli stivali di un colore indistinguibile e un culo da sogno.
Un ragazzo mi porge ancora da bere, non conosco nessuno ma mi sento a casa.
La musica è potente e veloce.
Tutti si vogliono bene. Vorrei prendere qualcosa da bere tutto per me, ma mi rendo conto di non avere soldi.
Poi magicamente mi trovo in tasca un pezzo da cinque e decido di spenderlo per una birra.
Non mi viene in mente niente di poetico, nessuno spunto per scrivere, nulla di nulla. Però non ho più l'ansia.
Mi siedo. Una ragazza si siede al mio fianco e porgendomi la mano dice di chiamarsi Olga.
É la ragazza che si muoveva come una dea, quella col culo perfetto.
È davvero carina. Ha gli occhi verdi e gli stivali grigio topo. Le rispondo dicendole che sono Pino.
Mi piace inventarmi i nomi e fare il coglione con le persone che non conosco. Mi piace mettermi un numero illimitato di maschere, è un po' come abitare lo stesso corpo e far vivere tutti i propri sé quando uno vuole. Lo faccio spesso. Direi che è il mio passatempo preferito.
Mi dice che studia moda.
Le dico che il termine moda deriva dal latino modus, che significa melodia, maniera, tono, tempo, ritmo.
Mi guarda sorpresa.
Mi chiedo che cosa caspita abbia studiato.
Le dico anche che il primo ad usare il termine moda con il significato attuale fu un abate in un trattato del 1600 e rotti.
Mi sorride mostrandomi tutti i denti bianchi e piccini, poi mi dice: -ma allora sei uno studente di storia!
Grattandomi la testa riccioluta le dico una mezza verità:- no! Sono Pino e faccio il salumiere.
Non ci crede, e giocherellando col bottone del mio giubbotto fa una stupida vocina da bambina demente e mi dice di non prenderla in giro.
È ritardata, ne ho la conferma.
La lascio con una stupida scusa e mi dileguo verso il bagno.
La gente balla anche nel bagno, anche mentre orina. Ai lati del water c'è un centimetro andante di piscia.
Esco dal bagno e dal locale, ho ancora la birra in mano e la bevo in un sorso.
Il bicchiere penso di portarmelo a casa, di lavarlo e metterci l'acqua per la notte. È bello capiente. Un bicchiere normale non mi basta mai.
Quella cagna non era nemmeno lì, non era a farsi offrire da bere da tizi sconosciuti, non è stata a pisciare sul pavimento, non ha conosciuto Olga.
Torno verso casa.
Con la nebbia perdo un po' l'orientamento. Mi accorgo di non avere le chiavi. Sono uscito di casa proprio come un cane. Sulla panchina i due che facevano petting non ci sono più. Forse lui è venuto.
Arrivo davanti al portone, ho la chiave di scorta nella cassetta della posta e la inserisco nella toppa cercando di non fare tanto rumore.
Tolgo le scarpe per attutire il rumore dei miei passi.
Dalla camera proviene musica di sonno profondo.
Mi metto alla scrivania e decido di scrivere per forza.
Ma il foglio bianco mi mette in soggezione e il cursore lampeggia con una cadenza regolare che mi dà sui nervi.
Mi viene da pensare a quella tipa che dice di studiare moda, carina sì, ma non basta per conoscere il mio vero nome. Non lo vado a dire in giro a tutti i ritardati che incontro.
Olga, la santa idiota col culo benedetto.
Sono ormai le tre del mattino.
Mi arrendo.
Quella cagna aveva bisogno di starmi distante per un po', di disintossicarsi.
Chissà dove diavolo è adesso, chissà se tutte le cagne, stasera, si son prese una pausa dagli uomini della terra e hanno deciso che il 31 gennaio è il loro giorno di riposo.
Saranno forse in sciopero?
Se almeno ci fosse un sindacalista domanderei a lui.
Andarsene così, senza dire nulla, non va bene.
Quando torna deve chiedermi perdono, deve scusarsi in ginocchio e deve farmi scrivere qualcosa di forte.
E se domani non torna? Se sta con qualcuno per un po' e poi se ne va all'improvviso?
Voglio, se torna, che chieda alla lampadina che adesso è al mio fianco quanto sono stato male.
Cagna, dove sei?
La disperazione prende il sopravvento.
Mi spoglio tutto e per cambiare decido di lasciarmi il calzino destro.
Abbraccio il corpo russante e provo a dormire, a lasciarmi cullare da quella sua melodia.
Cerco di non pensare al fatto che la mia amante è andata via senza dirmi nulla.
Non dirò nulla alla mia fidanzata, mi prenderebbe per pazzo.

giovedì 19 gennaio 2012

"Piuma"

Sai amico mio, quella bastarda è arrivata così all'improvviso.
Ricordo bene il tuo viso da giovincello sbarbato, i tuoi occhi più profondi dell'universo, i tuoi discorsi che volutamente si estraniavano da ogni contesto, ricordo ogni tuo gesto, i nostri sguardi d'intesa, ogni tua pretesa, il modo in cui camminavi trascinandoti dietro un corpo sempre stanco e l'espressione d'abbandono quando mi dicesti quel che mi dicesti.
Sono stato con te sulla collina e ci siamo abbracciati fino a farci male, poi siamo scesi insieme là dove il mare è cosi profondo che sembra sempre notte ed abbiamo assaporato entrambi l'agrodolce sapore del sangue e delle botte.
Il caldo, il freddo, la gioia, la frustrazione, la musica veloce e quella lenta, il pane, la polenta, i fusilli al tonno, la pizza con le acciughe, la marijuana, la birra, il rum rubato al supermercato, sfidarsi a chi faceva fare più salti al sasso piatto raccolto sull'argine destro di un fiume che un tempo era pulito ma che adesso non è più lo stesso e non c'è più un sasso come si deve.
Chissà se hai trovato quel demonio di Ray Charles e stai cantando con lui “Hit the road Jack!”, prova a cercarlo in un posto che somigli alla Georgia, quello ce l'ha sempre in mente.
Sono sicuro che hai trovato Moana Pozzi e le stai facendo la posta, che hai mandato una lettera a Galileo ma non hai ricevuto risposta. Perché sì, io voglio immaginarvi tutti insieme un un crogiolo di pensieri e parole, ognuno a dire quello che pensa, tutti insieme sì, in un posto senza tempo, dove ognuno può fare quel che gli pare e si può bere anche l'acqua del mare.
Tre anni, due mesi, quattro giorni e le ore non le so, sei partito per un posto in cui prima o poi arriveremo tutti, siamo piume che lentamente cadono a terra prima di aver fluttuato qua e là per un po' e tu sei stato sfortunato e forse per il tuo peso, per il caso, per una qualche cazzo di corrente sbagliata, sei arrivato a terra con una rapidità straziante, lacerante, assordante,rimbombante.
Forse dovevano spiegarti che non era una gara, che non vince chi arriva per primo, ma lo dico semplicemente e stupidamente perché voglio illudermi d'essere un giocatore astuto.
Non escludo la metempsicosi e chissà se adesso sei un fiore o una rana, o un tasso nella sua tana, il gatto che fa le fusa su un divano maculato o se sei un seme appena piantato, se il mondo delle idee lo hai osservato e sei pronto per ricordarlo bene ed essere saggio nella tua nuova vita da uomo.
Io mi sento lo stesso di sempre ma i capelli me li sono tagliati e mi sono anche fidanzato. Sono la solita montagna di pensieri e domande, come al solito, di storie e vizi, di nausee e mal di testa.
A proposito, non sono più tornato a pesca ma prima o poi lo farò, te lo prometto.
Una lampadina punta il foglio su cui adesso sto scrivendo, la birra è finita e la sigaretta si spegne tra le mie dita, tu non ci sei e sei dove ti pare, a correre in un prato, a mangiarti un gelato affacciato ad una finestra, a scambiarti qualche carezza, a scrivere poesie, a creare armonie o a disegnar libellule argentate con cento penne piumate.
Vado cercando la felicità dappertutto, e stasera il tuo pensiero m'è bastante, anche se come un venditore ambulante son costretto a cambiar città ogni giorno per paura che quella bastarda mi porti da te.
Quella arriva all'improvviso amico mio, è una vera bastarda e tu lo sai bene.

mercoledì 11 gennaio 2012

"Dopodomani"

Ci sono alcuni momenti, certe giornate, certi frammenti di vita, in cui vorrei essere uno dei tanti e mescolarmi ai loro pianti.
Certamente siamo in molti, a volte mi illudo di essere solo e diverso solamente per giustificare il mio dolore e non affrontarlo veramente fino in fondo.
Sono un codardo, come gli struzzi nascondo la testa sotto la sabbia, come un qualche animale esotico corro a nascondermi nella foresta ed aspetto che sia finita la tempesta per poi far capolino ed osservare un paesaggio che giustamente resta identico a se stesso nonostante tutto.
Il problema, la causa di tutto, l'ho proprio davanti al pari di questo schermo cosparso da lettere bianche.
Un paio di volte ci ho provato a risolverlo, forse quattro o magari solo tre.
Vorrei smettere di martoriarmi la testa alla ricerca di qualche antidoto che abbia la potenza di districare questo groviglio pieno di pruni che graffiano le mie mani e le riempiono di un vermiglio sangue che poi tocca terra formando una pozza, manifestando così la sua vittoria e la mia ennesima sconfitta senza troppa lotta.
Bacche velenose, stelle che tentano l'incesto, lacrime di un sapore che non è sale, continua ricerca del divino, tanto vino ed anche quello m'illude e mi confonde rendendomi stupido e vanitoso come una qualsiasi mediocre attrice di fotoromanzi americani ormai fuori moda.
In certi giorni mi sento proprio un re, il sovrano di un territorio sconosciuto ed illimitato dove anche il più audace degli esploratori si sentirebbe arreso, non c'è una cartina alla quale appoggiarsi, una bussola capace di indicare un qualsiasi punto cardinale, una qualsiasi popolazione da studiare per capirne i miti od i riti ed estrapolare informazioni relative ad un territorio che forse non è né nuovo né vecchio, che forse è montuoso o magari è pianeggiante, che forse non esiste ed è solo nella mia guasta testa da ventitreenne sconsolato.
In giorni come questo la vita mi sembra la sabbia cocente di un deserto, io sono scalzo, perduto, ammalato, bruciato, con le vesciche ai piedi, e cerco disperatamente una chiazza d'ombra ed un poco d'acqua per immergerci il corpo e sperare di sentirmi meglio.
Colpa di quella cosa che ho davanti.
Avete anche voi qualcosa che vi rende infelici?
Io amo il pane col burro e le alici,
le case verniciate di verde,
il pongo, la crostata alla marmellata,
ogni tipo di torta salata,
ogni prima puntata.
Amo la filosofia,
la teurgia,
Giordano Bruno,
tutti i numeri uno,
le linguine al pesto
e la cassiera che ogni mattina mi dà il resto.
Odio l'insalata,
le religioni,
le prigioni,
il censimento e questo mio mento pronunciato che mi fa sembrare un cartone animato.
Oggi mi sento così, arruffato e sconclusionato, afflitto e poi confortato, bianco e nero.
Domani mi taglierò anche questa cazzo di barba che mi fa sembrare un eremita.
Domani farò una corsa e correrò dall'alba all'imbrunire, voglio osservare il nitrire di un cavallo, il cantare di un gallo, il barrire di un elefante, il sibilare di un serpente.
Domani mi masturberò sotto la doccia per vedere se mi scarico.
Posso fare di tutto per provare a sentirmi meglio, ma se non affronto la cosa che ho davanti continueranno i miei pianti.
Sì, continuerò a stare male e me lo ha detto anche il mare, l'ho ascoltato dentro una conchiglia proprio prima di mettermi seduto e di fare uno starnuto.
Vedo il mio gatto là sul divano, è racchiuso in posizione fetale, gli faccio un fischio e mi guarda sorpreso, poi gli grido -Non mi sono arreso!
Gli vado vicino e lo prendo in collo.
Chiudo gli occhi, mi lascio tentennare dalle fusa del gatto e penso che oggi mi son sentito un vero pazzo, ma domani sarà un nuovo giorno e forse dopodomani starò qui a scrivere della mia vittoria.
É tuttavia possibile che sentiate dire in giro che ho perso un'altra volta.

sabato 31 dicembre 2011

"Ho sentito un fischio"

Disteso in questa stanza, mi rotolo divertito sull'erba bagnata da una pioggia appena caduta.
Tutto è così dolce ed amorevole, sono abbracciato dai fili d'erba, dai bianchi petali dei fiori cullato, da leggere mani accarezzato e da calde bocche baciato.
Mi muovo sopraffatto da una libido che mi fa tremare, lentamente, proprio come un lombrico nascosto tra l'erba, mi muovo e tremo d'assoluto piacere.
Poi un fischio mi fa alzare all'improvviso.
Barcollando mi affaccio alla finestra ma nella strada non vedo nessuno.
Cerco dappertutto con lo sguardo, mi sporgo, ma nulla.
Resto inebetito ad osservare alcune macchine parcheggiate a lisca di pesce due delle quali sono bianche una è nera, un'altra è verde e un'altra ancora è celeste. Guardo anche le finestre davanti a me, le persiane, i vasi senza fiori, alcune luci di Natale, lo spoglio tiglio alla fine della strada, le strisce pedonali che nessuno sta calpestando, i pomelli d'ottone del terzo portone alla mia sinistra e un cassonetto per l'immondizia che standosene lì immobile manifesta la sua abituale pigrizia.
Non si vede un'anima in tutta la via, un po' di nebbia cala lentamente dal cielo e penso che mi sono sbagliato.
Quel fischio è stata forse una mia illusione, il frutto della mia strana immaginazione.
Allora mi getto di schianto in quello che prima era un verde prato bagnato e adesso è un rosso deserto infuocato, un sole cocente m'abbronza il corpo che stranamente è già sudato, poi dal soffitto cade una strana bambagia d'un giallo fluorescente che m'avvolge il corpo e lo fa levitare orizzontalmente a mezz'aria anestetizzandolo completamente.
Sono incapace di sentirmi piedi e mani ed in aggiunta un bisbiglio incantatore mi porta in una strana, forse parallela, dimensione fino ad allora sconosciuta.
Vedo che dalla libreria alcuni libri sembrano cadere di schiena per poi aprirsi e con le loro ali prendere il volo verso Est, verso casa del Bonetti, verso il fiume, verso la Romania, verso la Cina, verso la stazione da dove oggi ho preso il treno per andare non mi ricordo bene dove.
Poi ecco ancora il fischio, chiaro, deciso, netto, s'infila nella stanza e nelle mie orecchie facendomi sobbalzare.
Cado improvvisamente sul pavimento che ora è un letto stracolmo di mandarini freddi ed arancioni, poi i mandarini aumentano continuamente e come un bambino in quei giochi del Luna Park nuoto verso la finestra e la apro.
La nebbia ha invaso tutto, non distinguo più il colore delle macchine, e non vedo più il tiglio, e non vedo più i pomelli d'ottone, e non vedo più nulla.
Cerco ma non trovo.
Allora inizio ad urlare ma non sento risposta, fischio pure io ma il tutto sembra essere ingoiato dalla nebbia.
Ululo e strillo, muovo le mani convulsamente per allontanare la nebbia e vedere se qualcosa o qualcuno sia sotto la mia finestra o più in là, ma non c'è un cazzo di nessuno.
Lascio la finestra aperta e vado verso il lavandino della cucina.
Tutto torna alla normalità, tutto è come dovrebbe essere.
In terra c'è il cotto ed i libri solo al loro posto, il frigorifero è proprio dov'era stamattina, l'albero adornato per il Natale ha le lucine con la loro solita intermittenza proprio come ieri e come l'altro ieri, sul soffitto non c'è nulla di particolare tranne qualche chiazza d'umido ingiallita.
Apro l'acqua del lavandino e ci metto sotto la testa, mi bagno le mani, il collo, bevo qualche sorso d'acqua marmata e sento che questa mi sta colando anche sulla schiena.
Una pentola se ne sta capovolta col culo rivolto all'iperuranio: è la pentola nella quale ho cotto la pasta.
Osservo la pentola dai manici sottili e vedo che questa osserva me, riflette la mia faccia allungandola un po' e smagrendola quasi facendola somigliare a quella dell'Urlo di Munch.
Sono comunque nitidi e riconoscibili i miei occhi che osservo e scruto curiosamente cercando di vedere qualcosa che fino ad allora non avevo veduto.
I miei occhi, marroni e senza particolari degni di nota, circondati da occhiaie, né belli né brutti, sono occhi di chi va cercando Dio dappertutto e che crede pure di sentirlo.

domenica 11 dicembre 2011

"La sirena e l'antilope."

É Morto Piero Marezzi, aveva 87 anni. L'ho letto all'angolo di via Pananti.
Non so neanche chi sia Piero Marezzi e non mi dice nulla neanche il suo cognome. Pace all'anima del povero Piero. Il fatto è che sono fissato con gli annunci mortuari, tutte le sere devo passare a vedere chi cazzo è morto.
Ci sono certe fissazioni che ormai sono diventate un vizio, mi alzo la mattina e mi chiedo: chi è morto? È una specie di rito il mio.
Come se il passaggio alla morte volesse significarmi qualcosa, come se sapendo chi ormai è morto la signora incappucciata e con la falce mi giri alla larga.
Perché sì, la morte mi fa una dannata paura.
Il problema è che non so che cosa ci sia dopo, mi dispiacerebbe marcire sotto metri di terra mangiato da bachi che s'ingozzano di me fino a scoppiare.
Da piccolo andavo sempre a messa, facevo il chierichetto, stavo composto ed ascoltavo con interesse le parole del parroco, ricordo ancora le sue mani pelose mentre spezzavano quell'ostia enorme. Il paradiso era la mia mia unica ambizione, potermi rotolare tra le nuvole era il mio unico desiderio da bambino. Mio padre credeva che mi facessi prete, mia nonna lo sperava, mia madre invece sono sicuro che avrebbe preferito vedermi morto piuttosto che devoto al Dio dei cristiani.
Ma se ci fossero davvero o il paradiso o l'inferno dopo la morte?
Domanda di una stupidità straziante. Eppure in molti se la sono posta, in molti si sono domandati cosa potrebbe succedere con la morte, se l'anima esiste, se è mortale oppure immortale.
Mi piace la concezione orfica, quella della reincarnazione, della metempsicosi, del corpo che è una gabbia nel quale le nostre anime sono costrette a vivere per purificarsi.
Ma lasciamo stare.
Ora che ci penso, un Marezzi lo conosco. Marco Marezzi è stato mio compagno alle medie per un anno prima che si trasferisse in Liguria non so a fare cosa.
Il Marezzi, alto forse meno di un metro e largo come tre di me, simpatico da morire, il Mare lo chiamavamo, aveva sempre le gomme da masticare e le regalava a tutti, forse anche lui si ricorda di me, sta di fatto che adesso io mi sto ricordando di lui.
Bene amici miei, volevate leggere qualcosa che vi lasciasse il segno? Cercavate la catarsi?
Avete sbagliato blog, l'astronauta è in una fase strana, è in un periodo che potenzialmente è ok, ma in atto è una cosa indefinita avvolta in una nebulosa fluorescente.
Adolescenza, sono scodate di un'adolescenza che proprio non vuol finire.
Finirà?
Si diventerà mai grandi?
Voi come vi sentite?
Quante domande.
Non è importante che mi rispondiate, che mi diate consigli, va bene così, mi godo il momento, ascolto il colore proibito, bevo vino e scrivo per il piacere di scrivere.
No sense.
Vedere, è questo che cerco, qualcosa che non abbia senso, qualcosa che mi lasci libero di vaneggiare quanto cazzo mi pare senza avere un dito puntato contro ed una voce stridula che mi dice che un senso, in realtà, c'è e come, e per ogni cosa.
Vivo, e spero che la vita non abbia un senso, che nulla abbia un senso, che tutto sia perché è e basta, senza calcoli o ragionamenti, senza mani demiurgiche che hanno dato ordine al caos, senza un Dio che ci dice come fare, senza un bastardo pronto ad indicarci la strada da percorrere.
Così, come un fiume in piena, voglio vivere per sempre in questa che è per me la fine dell'adolescenza, in questi giorni senza ragione, in questi momenti di follia, di completa incertezza, di vino e musica.
Voglio vivere come uno di questi miei pensieri, assurdi ed istintivi, paradossali ed in contraddizione.
Resta il fatto che Piero Marezzi è morto e forse conosco suo nipote, che la morte è forse l'unica certezza, che sono le tre di notte e non ho voglia di andare a dormire, e che forse andrò anche al funerale del povero Piero.

sabato 3 dicembre 2011

"Tra amici."

Un'ora dopo la partenza mi risveglio tutto stordito, poi qualche secondo dopo riprendo conoscenza e mi rendo conto d'essere nel sedile posteriore dell'auto tutta scassata di Lorenzo.
Sono sommerso da canne, retini, secchi, stivali, giubbotti e lampadine. Mi volto sbadigliando e alla mia destra vedo un tacito mare in lontananza, allora realizzo... stiamo andando a pescare! Gabriele, rasato e con la barba appena fatta, è seduto sul sedile davanti vicino a Lorenzo (anch'egli rasato e con la barba appena fatta) e voltandosi mi dice sorridendo che siamo quasi arrivati. Sorrido e gli batto il cinque compiaciuto.
Dopo una settimana di duro lavoro ci voleva proprio una serata rilassante tra amici, per liberare la mente, riordinare i pensieri e lasciare che il mare tolga dall'anima pesantezza proprio come solo lui sa fare.
Arriviamo al porto e sono quasi le cinque, il mare è liscio come l'olio, le acque sono chiare, il vento è assente e le condizioni sembrano ottime per pescare.
Ci sistemiamo sugli scogli, davanti a noi una barca solca il mare e pare darci il suo speciale benvenuto.
Lorenzo ha provveduto a tutto, attrezzatura da pesca e cena. É lui il nostro mentore, il nostro maestro, l'esperto con la profonda passione per la pesca che ci guida per mano verso i lidi più disparati mostrandoci e spiegandoci le varie tecniche di pesca. Gabriele ed io, infatti, ci stiamo affacciando solo adesso a quel fantastico mondo che è la pesca.
C'è un fondale di circa sette metri, mentre prepariamo la lenza ci mangiamo un panino e ci beviamo un po' di Lambrusco per riscaldarci. Il vino l'ha portato Gabriele. Disponiamo le nostre canne a ventaglio, sono canne morbide e con la vetta bianca per notarne la flessione nel buio, la nostra è una pesca semplice: a fondo.
Usiamo un piombo di 60gr e con l'ago apposito inneschiamo due canne con un Bibi ed altre due con Americani belli grossi.
Alle cinque e trenta siamo tutti in pesca.
Nel cielo sole e luna sono sospesi immobili, il sole lentamente tramonta alle nostre spalle e lascia il posto alla notte la quale ci sorprenderà arroccati su quegli scogli ad attendere l'incocciata di un bel pesce o magari più di uno. Confesso a Lorenzo di portare male e di aver pescato si e no tre pesci in tutta la mia vita, ma egli mi rassicura dicendomi che la serata è perfetta.
Dopo pochi minuti, infatti, Gabriele fa un fischio ed apre le danze con un parago.
Passano poi ore di silenzio, le onde s'infrangono sugli scogli e noi ci rilassiamo fumando qualche sigaretta e bevendo Lambrusco. Lorenzo e Gabriele sono amici di mio padre e Lorenzo non esita a raccontarmi qualche aneddoto divertente della loro sregolata giovinezza ed io rido di gusto mentre Gabriele imita i protagonisti della loro vita.
Alle otto, nel nostro secchio, c'è solo un triste parago. Il mare però s'è ingrossato, è cambiata la marea.
-Te l'avevo detto che portavo male,- dico sorridendo a Lorenzo.
Non faccio in tempo a finire la frase ed il mio mulinello canta beato, mi alzo di scatto e subito dopo aver preso in mano la canna mi rendo conto che il pesce non è piccolo.
Dopo qualche minuto l' animale è nel retino, è un'ombrina di 700gr.
La slamo ballando e mi rimetto nuovamente in pesca.
Mi siedo ed accendo una sigaretta, dico a Lorenzo che ora tocca a lui e questo fa spallucce dicendomi di non preoccuparmi.
Improvvisamente si alza un coro, è la musica che volevamo sentire: abbiamo tutti e tre un pesce in canna!!
Il momento è delicato, Lorenzo è il primo che porta il pesce a sé ed io gli passo il retino inciampando, poi a Gabriele cade la lampadina in acqua cercando di avvicinarsi a noi.
Io sono eccitato e mi metto a ridere, anche gli altri lo faranno.
Sarà stata colpa del Lambrusco? No, è l'adrenalina che rende tremendamente euforici.
Alle nove e qualche minuto abbiamo cinque pesci in saccoccia, gli ultimi tre sono una mormora, un'orata e un'altra ombrina.
La notte ci ha avvolto completamente, è la fine di novembre ma siamo sbracciati ad osservare i carri nel cielo, compiaciuti della bella serata.
Lorezo ci regala un altro strike: è un'orata di 500gr.
Sono ormai le dieci e decidiamo di preparaci per tornare a casa, una barchetta pesca totani proprio a pochi metri da noi e la si vede dondolare rilassata con quelle sue luci ai lati.
Ma poi ecco un'altra cattura, è ancora Lorenzo l'artefice, sorride e fischietta mentre tira a sé un'altra stupenda orata.
Alle una di notte siamo all'autogrill a mangiarci un panino e siamo contenti.
Rimontiamo nella macchina cigolante di Lorenzo, Gabriele si addormenta e russa appagato, dico a Lorenzo che la pesca mi piace e lui mi risponde che lunedì prossimo ci riporterà nuovamente con sé: si pescherà dalla spiaggia.
Durante il ritorno non riesco ad addormentarmi, i lampioni in lontananza segnano linee di luce nel cielo, penso alla felicità, al mare, agli amici, al rumore del vento, delle onde che s'infrangono sugli scogli, penso che il mare e la pesca sono fonte di serenità, quella che ognuno di noi va cercando dappertutto.

venerdì 25 novembre 2011

"Ambarabà ciccì coccò."

Soldi, soldi, pagare, pagare, tasse, aumenti, pagare, soldi, soldi, pagare.
Paga e zitto.
Porco di un cane ladro.
Sto zitto e pago.
Costa tanto tutto ed andrà ad aumentare tutto tanto.
Pago e sto zitto.
Stamani quella melensa della bancaria mi ha telefonato per dirmi che sono sotto.
-Infinite grazie, passerò in settimana da voi- le ho risposto facendo il sorpreso.
Come se non lo sapessi.
Per forza che sono sotto, ho dovuto mettere quattro nuove merdose gomme da neve ed ho speso un botto, poi le tasse universitarie, l'affitto di casa con l'aumento dell'Istat, le bollette, il veterinario, il dentista, il decoder e qualcosa dovrò pur mangiare. Poco, ma fatemi mangiare.
Sono pulito come il cesso della stazione e anche lì ho dovuto pagare per pisciare.
Oggi ho preso il treno per andare a Firenze: la macchina è ormai un lusso.
Guardiamo il lato positivo. Ho riscoperto il mezzo pubblico.
I capelli me li sono tagliati da solo e si vede, questo giubbino nero l'ho comprato da Stefan e si vede perché mi torna maledettamente male.
Non c'è soldi, c'è crisi.
Ho amici in depressione perché sono disoccupati, parenti che si logorano il fegato perché non sanno come  fare ad arrivare alla fine del mese ed oramai si privano di tutto.
Prendiamo ad esempio mio zio Luigi. Vedovo da ormai nove anni, il buon vecchio zio era abituato a farsi una sana scopata a casa della sua professionista di fiducia. Ora non può più permettersela.
Per lui è una tragedia e adesso appaga il suo desiderio con la mano mancina tenuta sotto il culo per una mezz'ora e tanta fantasia . Povero zio, mi sono commosso quando me l'ha detto.
La gente ha fame e batte i pugni su tavoli sempre meno imbanditi.
A tavola si mangia un po' di pane con l'olio e ci si piena bevendo tanta acqua del rubinetto.
Ambarabà ciccì coccò.
Le tre civette che prima se ne stavano beatamente sul comò pronte a farsi la figlia del dottore sono rimaste in due, la terza sta raschiando il fondo del barile alla ricerca di qualche centesimo per comprare qualche briciola di pane raffermo da dividere col resto del gruppo.
Si fanno forza le civette, Coccò mi ha confidato che sono vicini al perimento, e si vede.
Non c'è da fare i moralisti se qualcuna mostra la farfalla su cam4 per pochi euro o se c'è chi si prostituisce intellettualmente.
Soprattutto non c'è da storcere il naso se la dama dà un morso al suo ermellino ingoiando tutti peli per fare tappo e sentirsi piena.
Pagare, pagare, pagare, soldi, crisi, fame.
Faccio ironia ma la situazione è grave, se qualcuno di voi vuol piangere ho i fazzoletti profumati che mi hanno dato al bagno della stazione.
Io non piango, lo faccio solo quando ho la febbre.
Mi sfogo semplicemente scrivendo, cercando così di non pensare a ciò che ci sarà da pagare domani.
Soldi, soldi, pagare, fame, tasse, aumenti, pagare, soldi, soldi, pagare, fame.

mercoledì 9 novembre 2011

"No name"

Sono ancora qui, ancora davanti ad un foglio bianco.
Non posso farci nulla, è una maledetta patologia la mia.
Perdo tempo.
Avrei da fare un sacco si cose: studiare, scrivere due articoli entro venerdì, completare altri racconti per dei concorsi interessanti, farmi la doccia, tagliarmi i capelli, pagare due bollette, lo stesso per le tasse universitarie, portare il cane dal veterinario, scrivere un monologo per un cortometraggio e vattelappesca.
Dovrei anche andare a letto: se continuo così divento pazzo o alla peggio ci resto secco.
Dovrei sì, ma in realtà non ce la faccio, lo vorrei tanto ma non ce la faccio davvero.
Potrei nascondermi dietro la scusa del tempo che non c'è, del lavoro, ma siamo realisti per una minchia di volta: sono instabile.
Provo, mi sforzo, mi gratto la testa ricciuta, accendo una sigaretta, mi premo gli zigomi per svegliarmi, mi gratto le basette e la barba incolta, mi scaccolo e poi mi tolgo le scarpe.
Parto con la buona intenzione di fare un qualcosa di costruttivo insomma, di riscrivere gli appunti della lezione, di scrivere il monologo o un racconto di senso compiuto fino alla fine e non le mie solite stronzate di sempre che non hanno né capo né coda.
Ci provo, ma cado nel vizio.
Mi piace sedermi e scrivere la prima parola che mi viene alla mente, legarcene un'altra e poi un'altra ancora per completare un discorso.
Aggiungere un discorso ancora, descrivere un personaggio, un paesaggio, l'emozione di una situazione, ricordare ed inventare un'altra vita tutta nuova.
Il foglio bianco che supplica di essere impiastricciato, che non pone limiti, che vuole un personaggio scritto sul petto, una storia da mostrare soddisfatto alla corte dei fogli scarabocchiati, non riesco a non ascoltarlo, le sirene del buon vecchio Ulisse erano una pippa al confronto.
Un foglio bianco sul quale viene scritta una storia, è come un giovane che trova la sua personalità.
É questo il punto d'incontro tra la mia anima e il mondo.
Godo mentre scrivo.
La felicità è lì, scoprire me stesso in parole senza senso.
La mattina però, se non ho fatto quello che avrei dovuto fare, mi guardo allo specchio e mi sento in colpa, mi sento un fallito, un codardo, un cane con la lebbra, la personificazione della merda.
Io sono uno che ha i preconcetti, non riesco a non incazzarmi per certi comportamenti o modi di vivere, è più forte di me, voglio vedere sempre il bello e che sia come dico io.
Non ha senso, sono troppo bastardo anche con me stesso, riseco a bastonarmi anche quando dormo per come dormo.
Vivo nel paradosso, nella testa ho l'idea di ciò che dovrei fare e come dovrei farlo, ma poi in realtà nulla coincide, nulla combacia, nulla riflette ciò che avevo in mente. Giudico me stesso per l'incapacità di raggiungere i fini preposti e l'inefficacia del metodo utilizzato.
Non ce la faccio, casco sempre davanti ad un foglio bianco per andare nel mondo che mi piace e dimenticare tutto.
Forse è come mettere la testa sotto la sabbia, come mettere il mantello invisibile, come evaporare, come il perdersi nell'etere del fumo di una sigaretta qualunque.

La musica è al giusto volume, è una buona musica, la luce punta dritta sul foglio, la boccia è senza tappo e ne godo l'aroma annusandone semplicemente il collo, gli occhi sono socchiusi, la sigaretta è nella mia mano, la mia anima esprime se stessa nella collana di parole che velocemente vado componendo.
È un piacere.
Perché vendersi a quella parte bastarda di me che mi chiede di rispettare certe scadenze, certi temi, certi fottutissimi argomenti?
Perché forse è l'ora di crescere?
Perché la realtà è più potente della fantasia?
Perché la ragione è fredda e pone limiti e non va d'accordo con la fantasia che invece è calda ed indefinibile?
Che cazzo è allora la vita, in che modo deve essere affrontata, a quale parte di noi dobbiamo dare retta.
Chi aveva ragione, gli epicurei o gli stoici?
Non ne ho idea e vado a letto.
Ne ho un dannato bisogno.

lunedì 31 ottobre 2011

"La fine del mondo."


-Mi prendi per il culo? Dico io, ti sembra questo il momento di scherzare?
Provavo in tutti i modi a calmarlo e farlo ragionare, ma non mi dava ascolto.
Continuava a chiedermi se lo stavo prendevo per il culo e se mi sembrava quello il momento di scherzare.
Santo Dio, avrei voluto mettergli le mani addosso, picchiarlo e farlo svenire per non sentire più quella sua ansimante voce da pazzo sclerotico che ormai m'era entrata nella testa.
-Dai, rilassati un minuto ed ascoltami, non sta succedendo nulla, stai calmo e siediti.
Camminava per la casa freneticamente ed apriva con titubanza la tenda del soggiorno per vedere cosa stesse succedendo fuori.
Il paesaggio era buio, tutti i cani abbaiavano, gli uccelli cinguettavano e non c'era traccia di un passante per la strada.
-É la fine del mondo, io non voglio morire adesso.
-Non è la fine di nulla, è una cosa normale, succede di rado ma succede, stai tranquillo.
-Mi prendi per il culo?
Mio cugino solitamente faceva il grosso, si vantava di scopare più di ogni ragazzo della sua età, fumava per farsi vedere in giro e sembrare un grande, ma in realtà era un cacasotto di quelli numero uno.
Non riusciva a tranquillizzarsi, gli tremavano le mani e quel suo tic di grattarsi la testa nei momenti di panico divenne persistente.
Credo si sia sbucciato la testa quella mattina.
-Perché questo buio alle undici del mattino? Perché i cani sembrano impazziti? É la fine, me lo sento, moriremo tutti.
-La smetti di dire stronzate? Tra poco tutto tornerà alla normalità, anzi già questo è normale, ora basta con questa storia stupida e siediti.
-Il giorno del giudizio è arrivato.
-Sì, è la fine del mondo.
Gli dissi così per farlo contento e finalmente la finì di camminare senza senso per il salotto, paradossalmente, non so perché, in qualche momento si tranquillizzò.
Non mi lasciò finire di parlare e corse a nascondersi in cantina passando dalla scala interna della cucina.
Io avevo sedici anni e mio cugino diciotto.
Era un tipo secco e lungo infatti lo chiamavano “stecco” di soprannome, adesso ha trent'anni e la fissazione per la palestra l'ha fatto diventare un armadio.
É enorme, sembra un armadio di quelli che hanno nelle camere i genitori e dentro i quali c'è posto per la roba invernale e tutto, lenzuoli ed asciugamani puliti per tutta la famiglia compresi.
Anche per quei giubbotti usati e regalati da qualche parente che ancora non vuoi buttare perché pensi che in un futuro potrebbero tornare di moda.
Insomma, il nome è rimasto e gli amici lo chiamano ancora “stecco”.
Lo seguii in cantina e si sedette sulla poltrona della povera nonna ormai morta.
Mi chiese una sigaretta.
-Non fumo e non ce ne sono in casa di sigarette- risposi io facendo spallucce.
Iniziò a piangere disperatamente.
-Avrei voluto conoscere meglio mio padre, essere stato un bravo ragazzo, non aver rubato nel bar del Tagliaferri, non aver tradito Carla per Giada ed essere andato a messa ogni domenica come voleva nonna.
Aveva una voce affranta, dispiaciuta, angosciata e costernata mentre me lo diceva.
Accesi la luce della cantina con l'interruttore alla mia sinistra, il suo volto era mesto, rigato di lacrime e i suoi occhi velati di terrore, guardava un punto indefinito del pavimento sotto le sue ciabatte della fila.
Porco cane se era avvilito!
-Puoi rimediare, stasera dici a tuo padre che lo vuoi “conoscere”, ti presenti dal Tagliaferri e gli dici che hai rubato, domenica vai alla messa e poi dici a Carla che la ami.
Gli dissi io sorridendo, ero seduto sui primi scalini in vetta alle scale.
-Il domani non ci sarà, quel che è stato è stato, è giunta la fine, non c'è più tempo.
Poi, singhiozzando, mi mormorò:-Pantani però mi ha regalato delle belle emozioni, il Pirata m'è entrato nel cuore con le sue volate, l'anno scorso giro e tour, peccato per quest'anno.
-Tranquillizzati, vieni su con me e beviamoci qualcosa.
Abbracciai mio cugino che tremava come un pulcino bagnato e lo portai in salotto, stranamente mi dette ascolto.
Ci bevemmo un coca poi lentamente un po' di luce penetrò dalle tende ed illuminò la stanza.
Corremmo alla finestra e guardammo fuori, il sole era tornato e sembrava aver sconfitto le tenebre.
Mio cugino mi guardò e sorrise, capii che la morte gli faceva paura.
Era il 1999, l'anno di Benigni come miglior attore protagonista, dell'esclusione di Pantani dal giro d'Italia, della beatificazione di Padre Pio, del primo dei sette tour de France vinti da Amstrong, della vittoria del campionato del mitico Milan di Zaccheroni.
Fu anche l'anno dell'eclissi totale di sole, l'estate in cui mio cugino pensò che fosse la fine del mondo.
Fu l'anno in cui iniziai a volergli bene.

lunedì 24 ottobre 2011

"Mano."

Ciò che un giorno tenevo stretto in questa mano,
adesso l'osservo da lontano.
Eccola là, dietro quella porta,
silenziosa e allo stesso tempo assordante,
potente e soave,
leggera e pesante.
Ottima come il migliore degli auspici e necessaria come la peggiore delle sconfitte.
Partita per un viaggio del quale non so nulla, andata verso qualcuno che non conosco, scappata per capire se stessa e quindi decretare il mio destino che è tuttavia segnato, marcato sulla mia schiena da un fuoco che un tempo era amico.
Là, oltre quella porta, c'è un qualcosa che ormai appartiene al passato.
Sento il suo profumo, profumo di pane e di crostata alla marmellata, fragranza di me in un corpo di donna.
Come faccio a sopportare la sua assenza, come faccio ad affrontare il mio destino, come, come faccio stupido foglio e stupido cursore, ditemelo voi.
Adesso sono al tappeto ed il mio avversario continua a darmi calci in testa.
Uccidimi, finiscimi, ti prego distruggimi e poi lasciami in pace.
Con le mani unite come in una specie di preghiera pagana, la testa inclinata, il volto rigato da lacrime che poi vanno a bagnarmi le labbra, mi rendo conto d'aver perduto una parte di me.
Non capisco come questo sia potuto accadere, ma adesso è così.
Mi trastullo con l'idea di ciò che sarà di me domani, spero che il suo profumo torni ad essere il mio, che i suoi occhi sia nuovamente pieni di me e che il sole torni a brillare.
Piove, mi distendo sul prato e mi guardo la mano, un tempo c'era lei.

giovedì 20 ottobre 2011

"Sbagliati schieramenti."

Sì, è vero, la colpa è di chi crede che tutto sia come si manifesta e che tutto vada maledettamente bene.
Bastardi.
È colpa loro, dei dannati, ne ho la certezza.
Si sono arresi ed inconsapevolmente godono sapendo che anche tu sei ad un passo dalla resa.
Ma loro non lo sanno, sono ignorati, e si masturbano con l'idea che potresti passare dalla loro parte anche se non sanno di appartenere a qualcosa, di essere identificati con una “parte” e di essere un club con tanto di logo registrato.
Sborrano perché un qualcosa li eccita enormemente, perché sentono nell'aria che qualcuno è vicino, che qualcuno si unirà a loro.
Sembra ieri che pensavo a come poter alzare bandiera bianca, con quale mano alzarla, con che smorfia presentarmi all'ingresso del loro circolo, come vestirmi.
Mi avrebbero accolto con baci e pacche sulle spalle, offrendomi da bere, facendomi spazio sul loro divanetto in pelle d'elefante.
I bastardi sono cordiali, gentili, altruisti e senza dubbio possessori di un grande senso estetico.
Sicuramente avrei bevuto roba strepitosa dal retrogusto esotico, servita in appositi calici in cristallo lucente.
Una volti entrati, non se ne esce, è più forte di una qualsiasi cazzo di droga, dall'eroina ne esci ma da lì non si può.
La morte è l'unica soluzione.
Provo pena per loro perchè si sono arresi.
Nessuno ti obbliga a restare, sei tu che dimentichi tutto e credi che quella che stai vivendo sia la realtà.
Non provare a dire loro che tutto non è come sembra, che sono illusi, che stanno sbagliano: diventano cattivi e mostrano i denti come i lupi affamati.
Non ti sbraneranno: sono moralmente contro la violenza e la disprezzano fermamente.
Con la birra vecchia sulla scrivania, il lapis in mano e gli occhi stanchi, difendo la mia parte, la parte di chi non ci sta, di chi non si accontenta, di chi non è illuso.
Ma poi tutto volutamente si contraddice, le virgole diventano punti e le A, diventano Z.
Si mischiano le carte, si cambia il panno sul quale si giocava e chi ha sempre barato ha due assi in tasca restando dunque fedele a se stesso.
Fondamentalmente siamo tutti vittime, noi e quelli del club, chi bara fa finta di giocare e ci sfotte ridendo sotto i baffi.
Ma io non ci sto, e manifesto il mio disappunto con le parole di questo scritto.
Uccidiamo il baro.

martedì 11 ottobre 2011

"Albero."

Vorrei essere un albero, ma sono la pagina ingiallita di un libro caduto dietro una scaffalatura marcia, nella cantina di una biblioteca abbandonata.
Aria chiusa dentro una bottiglia nell'oceano, peli nel lavandino in una casa di campagna alla malora.
Luci in lontananza, alba e tramonto, un sospiro ed uno starnuto, un sorriso allo specchio, il detto e ridetto, l'acqua santa e la personificazione del demonio.
Sono una ragnatela che si dondola al vento, lo sbadiglio di un gatto, il pane raffermo, la muffa nell'androne, lo spazzolone da buttare, le maniche arricciate della camicia di un contadino canuto.
Sogni, speranze, illusioni, gratificazioni e delusioni.
Puzzo di morto e profumo di santità.
Anima racchiusa in piscio ed in sperma, sangue che scorre giù dal naso e bagna le mani.
Mi guardo le mani.
Sono un uomo.
Delusione che cammina a testa alta e si guarda attorno, che sfida la tempesta ed ama sentire la pioggia picchiare e sbattere sulla propria testa fino a disturbare quei pensieri talmente irrazionali da essere maledettamente tangibili.
L'inganno come unica soluzione.
La pace come utopia.
Capitoli da riempire con sudore di passione.
Eccomi come uomo, sono un cieco senza cane e bastone che cammina agitando le braccia per trovare un appiglio e non cadere.
La sigaretta ormai spenta mi cade dalla bocca, io non sogno nessuna rivolta, nessuna città da assediare, nessun colpevole da imputare.
Ho visto un albero laggiù, proprio alla fine della strada, credo che mi siederò sotto di esso e forse ci passerò la notte.
Gli alberi mi fanno stare bene, mi riportano al principio, asciugano le lacrime, danno conforto e poi fanno ripartire, lo fanno in silenzio.
Vorrei essere un albero.

giovedì 29 settembre 2011

"Radio."

Fuori piove ed i vetri di casa grondano.
Piove a vento.
Mi domanda il senso del mondo, della vita.
Io non sono in grado di dargli una risposta.
Lo guardo con interesse, osservo le sue mani paffute, i suoi capelli ricci, la sua bocca carnosa, i suoi occhi marroni.
Ricordo i suoi occhi pieni di lacrime e la forza che dimostrò nel trattenerle tutte.
Nella foresta calpestammo il dolore, ci pisciammo sopra, lo prendemmo a calci, ci sputammo sopra con la convinzione che così facendo se ne sarebbe andato.
Mi dice che per lui la vita è un gioco in cui noi siamo pedine spostate da un bimbo bendato.
Muovo la testa dall'alto verso il basso e non dico nulla.
Passo lui la pallina da tennis, è davanti a me disteso sul divano blu.
Mi passa nuovamente la pallina e con la mano sinistra mi gratto il collo.
Fuori non smette di piovere.
Ho osservato con interesse le sue innumerevoli trasformazioni, i suoi mutamenti, la sua evoluzione.
Ho goduto ogni sfumatura di quel che era e godo adesso quello che è aspettando con impazienza quel che sarà domani.
Del suo divenire uomo, io sono testimone.
Ci passiamo la pallina, la radio è al giusto volume, solo una luce è accesa, fuori piove ed io sono con mio fratello che è ormai un uomo.

mercoledì 28 settembre 2011

"?"

Ci ricaschiamo sempre.
Parlo con me.
Parlo per me.
Io ci ricasco sempre.
Merda.
Allontano con la mano destra il cellulare che squilla, cade a terra e me ne fotto.
Alzo il volume dello stereo, voglio far tremare questo cazzo di palazzo tutto bello con le piante sui balconi.
Voglio sentire forte.
Voglio mescolarmi alle vibrazioni e perdermi nell'eco che va ad infilarsi in ogni angolo di mondo in questa umida sera di fine settembre.
Voglio svegliare tutti.
Voglio, voglio, voglio.
Voglio troppo e poi mi scoccio.
Tocco il muro e poi casco.
Cado a terra e mi rotolo nel fango.
Mentre rotolo m'accorgo di volere il fango, di godere nel fango, d'essere fango.
Merda.
Quante parolacce, tante parolacce.
Sono in trappola, certe parole dovrebbero sottolineare un certo stato.
Che stato?
Passo, questa non la so.
Che tu sia benedetto.
Cercare caffè in mezzo il mare, cercare il profumo dentro al puzzo, cercare un chiodo in un fosso.
Cerco e poi m'incazzo se non trovo ciò che cercavo.
Ancora non mi spiego come sia successo,
non è questo un processo,
è giusto per parlare,
senti il mare,
è dentro questa conchiglia,
ascolta.
Io sento dolore.
Tirami dietro una panchina,
poi portami in una qualsiasi cantina.
Vorrei aver sognato tutto.
Spero che domani sia nuovamente primavera per rinascere con un fiore e per morire con la neve.
Ci sono ricascato.
Merda.

martedì 20 settembre 2011

"Dubbio."

Sabato 27 agosto, ore 10.40 del mattino.
Composi il suo numero e lo chiamai.

-Carmelo ciao, sono io, Andrea.
-Ciao Andrea come stai?
-Abbastanza bene, che ne dici se passo a farti una visita nel pomeriggio?
-Volentieri, c'è qualcosa che non va?
-Vorrei parlarti, ho un dubbio.
-Ti aspetto qui, vieni quando vuoi.

Ore 16.00. Casa di Carmelo.
Biascicava quei brigidini e solo a ripensarci mi viene il vomito. Sembrava una mucca nella mangiatoia con quella sua schifosa lingua bianca da malato che mi mostrava ad ogni masticata.
Che schifo, da rabbrividire.
Si rivolgeva a me con aria da saccente osservando dalla finestra il suo prato ben curato, o forse, guardava semplicemente se stesso riflesso nel vetro della finestra: è un vanesio di quelli che fanno venire il nervoso.
Ogni specchio è buono per controllarsi il caschetto biondo.
Che uggia che mi fa venire con tutti quei versi, il narcisista, il divo, il dandy, il vate, nonché filosofo e poeta, roba da restare sui coglioni anche a se stesso se riuscisse a rendersene conto.
In accappatoio, con il dopobarba che ancora rendeva lucente il suo volto sbiadito, mi parlava di quello che per lui era il problema dei problemi, o uno dei tanti.
-É enorme l'enigma, un rompicapo tremendo, roba da perderci la testa.
Parlava sputacchiando.
Il tono della sua voce, sembrava suggerirmi di evitare ogni possibile ragionamento riguardo ai temi da lui esposti.
Non avrei alleggerito il suo fardello di domande e di dubbi ma anzi, avrei peggiorato la situazione.
Stetti in silenzio.
Ero lì per esporgli un mio problema, ci tenevo che mi ascoltasse.
Altezzoso e snob, caparbio ed egocentrico, il mio amico Carmelo Corsini si pone agli uomini come generalmente si usa fare con le formiche: non dando loro considerazione.
Carmelo si tiene a distanza da quello che succede fuori, gli basta una merdina di libro per capire, essere informato e poi partire con le sue assurde riflessioni.
L'esteta, l'amante del bello.
Ha una casa arredata con suppellettili che, a detta sua, hanno un valore inestimabile, a detta mia sono cose prese a caso in un qualsiasi mercatino di fine mese nella periferia più sperduta di una città del vattelappesca stato, nel vattelappesca continente.
Roba pacchiana.
Un ghepardo in ceramica, grande come un vero ghepardo, se ne sta in salotto a fare da guardiano.
Con questo, ho detto tutto.
No, anche la moquette amaranto è un particolare degno di nota, per non parlare degli angioletti dorati e dei violini sparsi per tutta casa.
Dopo un quarto d'ora, m'ero già pentito d'essere andato a trovarlo.
Ma dovevo parlargli, dovevo avere un suo parere, avevo in testa un cosa e dovevo parlarne con qualcuno.
Lui mi sembrava perfetto.
Proprio lui sarebbe stato l'unico a potermi aiutare.
-Carmelo, ho un dubbio e vorrei parlarne con te.
-Sei qui per questo se non sbaglio.
-Si. Risposi io chinando il capo.
-É un vero e proprio problema, Carmelo, credimi.
-Problema? La vita è un problema.
Mi rispose così e le palle mi cascarono letteralmente sulla moquette amaranto.
-Seriamente Carmelo, devo parlarti di una cosa importante.
Mi guardò, inclinò la testa e si mise in bocca altri brigidini.
Che schifo.
Poi parlò, ed indicando il giardino mi disse che avrebbe preferito andare là.
Un bel giardino il suo, col prato all'inglese, delle belle piante e molti alberi secolari.
-Hai un giardiniere?
-Si, un filippino che non capisce l'italiano, ma va bene, fa comunque un bel lavoro.
Ci sedemmo in giardino sotto il suo enorme gazebo.
Sempre in accappatoio, mi versò dello whisky nel bicchiere, whisky e bicchieri che si trovavano già sul tavolo di marmo attorno al quale ci sedemmo, come se fossero stati messi lì per l'occasione e probabilmente lo erano.
-Questo è strepitoso, scozzese, invecchiato vent'anni.
Mi disse, ammiccando compiaciuto.
Sono abituato al Jack daniel's, roba da poveri.
-Buono, ottimo.
Dissi sorseggiandolo.
-Di cosa volevi parlarmi?
Mi domandò distrattamente accarezzando un cofanetto di legno che se ne stava sul tavolo.
-Amico mio, sono un po' imbarazzato ma devo parlarne con qualcuno, tu mi sembri l'unico in grado di capirmi, vedi sto affrontando una fase delicata della mia vita e.....
Suonò il telefono, io non lo sentii ma Carmelo sì.
Corse in casa e ci stette per parecchio tempo, il tempo di sei sigarette per intenderci, e io fumo piano.
Stetti ad osservare il suo giardino, davvero bello.
Alcuni piccioni s'affacciarono dal tetto della villa e poi presero il volo.
Carmelo tornò imprecando qualcosa.
-Tutto bene? gli domandai. Mi sembrava nervoso.
-Si, quella stronza di mia sorella non riusciva a connettersi ad internet, non ci capisce nulla, mi fa venire il nervoso.
Sua sorella abita in Nigeria, commercia diamanti, è lei che manda avanti tutta la baracca.
-C'è riuscita?
-No, te l'ho detto, non capisce un cazzo.
Si passò le mani tra i capelli e sputò aria dalla bocca.
-Ti stavo dicendo Carmelo.
-Si, dimmi, ti ascolto.
Aprì il cofanetto di legno che accarezzava poc'anzi e un potente odore di marijuana avvolse i miei sensi.
-Ma che fai? Da quando fumi erba?
-Da poco, la coltiva il filippino che mi fa da giardiniere, me la regala.
Non dissi nulla ma restai sorpreso.
Mi riempii il bicchiere.
Restai ad osservarlo mentre preparava il tutto, sbriciolò una cima d'erma e l'avvolse nella cartina, mise il filtro, rullò bene e leccò la colla.
Pronto che fu, accese con forti boccate e denso fumo uscì dal suo naso per poi disperdersi nella calda aria di fine agosto.
-Ti stavo dicendo.
Dissi io mentre fumava.
-Ora fuma, ti libera la mente.
Mi disse lui passandomi quell'arnese fumante dopo aver fatto pochi tiri.
Fumai, non fumavo dalle superiori.
Guardavo i suoi occhi che s'erano socchiusi ed erano diventati rossicci.
-Mi dicevi?
Disse lui con le mani conserte.
-Come?
Domandai io, ero stordito come come se m'avessero fatto l'anestesia dal dentista e m'avessero stuzzicato la bocca per ore.
Poi dissi: -Ho un dubbio Carmelo, un vero dilemma.
Carmelo agitò le braccia come per salutare qualcuno, mi voltai e vidi un tipo alto non più di un metro, scuro di pelle, con delle forbici da giardiniere in mano e un cappello di paglia.
Il giardiniere filippino, appunto.
Richiamato dall'odore della sua erba, il giardiniere si sedette al tavolo con noi, gesticolò qualcosa e ci stringemmo la mano, poi anche lui preparò un altro spinello.
Morale della favola, alle sette di sera eravamo due cretini che si scaccolavano e ridevano ai versi stupidi del filippino.
Carmelo andò in casa a prendersi i suoi brigidini, tornò fuori e si mise a biascicare.
Era ormai l'ora di cena e decisi di andarmene, mentre ero in macchina mi domandavo se Carmelo avesse fatto tutto di proposito per non ascoltare quello che avevo da dirgli, colpa del fato o di non so che, ma avevo ancora i miei dubbi.
Parcheggiai la macchina vicino casa, percorsi a piedi tutta via Firenze e pestai una merda che un qualche bastardo aveva lasciato proprio in mezzo al marciapiede.
La pulii strusciando il piede nei giardini di piazza Dante, proprio sotto casa.
Ero in condizioni pessime, del tipo che vedevo orsetti bianchi fare capriole davanti a me e donne che andavano nude in bicicletta suonando il campanellino e fischiando.
Arrivai davanti al portone di casa, le ultime luci della sera rendevano lucenti i pomelli d'ottone, mi frugai in tasca ed infilai le chiavi nella toppa.
L'androne mi sembrava enorme, enorme come non l'avevo mai veduto prima.
Entrai in casa e andai subito in bagno per farmi una sana doccia rigenerante.
Il dubbio mi pulsava nella testa, batteva nella mia nuca e sembrava una di quelle palline di gomma che rimbalzano ed intraprendono traiettorie sempre nuove, quelle del mare per intenderci, quelle dei distributori che si comprano ai bambini.
Uscii dalla doccia e misi davanti allo specchio, pulii la condensa dal vetro e mi guardai negli occhi.
Mi sembrava di aver pianto per tutto il giorno.
L'orologio del bagno segnava le otto.
Pensai al mio amico Carmelo, al fatto che non avesse voluto la mia intromissione in quello che per lui era il “problema”, il suo “enigma”, il suo “rompicapo”, il suo “dubbio”, e che non avesse voluto che gli parlassi del mio.
Mi guardai nuovamente negli occhi e poi tutto mi fu maledettamente chiaro, Carmelo m'aveva mostrato senza dire, lo capii in quel momento.
Il "dubbio", siamo noi.

giovedì 15 settembre 2011

"Piero è tranquillo"

Metà mattinata, erano all'incirca le dieci e qualche minuto.
Stavo servendo Edda Carducci, una donna paffuta e antipatica.
Antipatica come l'operaio del comune che alle sette di ogni santo giorno, o taglia l'erba, o soffia le foglie proprio nei giardini sotto la mia camera da letto e di conseguenza mi sveglia.
Mi alzo nervoso e resto stordito per colpa sua, ne sono sicuro, i bastardi del comune fanno tutto la mattina presto per farsi sentire e poi vanno a nascondersi in chissà quale cantina fino all'ora di pranzo.
Bastardirubasoldi.
Ma torniamo a noi, il solito filoncino di pane e il solito etto di salame toscano tagliato sottile, erano già nella borsa dell'insulsa signora Carducci, fu lì che m'accorsi, guardando verso la porta, quello che stava succedendo nei giardini di piazza Dante, proprio davanti alla mia bottega.
Liquidai la signora con un rapido grazie e arrivederci, poi osservai meglio quello che stava succedendo.
Un enorme lombrico umano, strisciava silenzioso nei giardini e non capivo cosa potesse rappresentare.
Qualche processione?
Sciopero dei precari?
Protesta per gli storni che smerdano tutti i giardini?
Sciopero delle badanti?
Volevo andare a vedere ma la signora Bencazzi stava entrando in negozio e rimandai.
Qualche pera matura, delle pesche bianche e due pacchetti di diana rosse morbide.
Dodici euro di spesa e qualche spicciolo, arrotondai per difetto con la furia di andare a vedere cosa fosse successo.
-Fortunatamente, hanno aperto quello sportello, siamo tutti peccatori, non trovi?
-Che sportello?
Domandai alla signora Irma Bencazzi che sembrava aver dormito nell'armadio tanto puzzava di naftalina.
-Che sportello?
Domandai nuovamente a Irma alzando il tono della mia voce per farmi sentire, non sente un cazzaccio nulla e fa le domande, mi fa venire un uggia che le schiaccerei la testa sul registratore di cassa fino a farlo aprire.
Provai con lo spelling.
-C-H-E S-P-O-R-T-E-L-L-O-?
La signora Bencazzi sorrise, non aveva capito la mia domanda e andò via borbottando qualcosa in aramaico antico.
Roba da pazzi, scene di tutti i giorni e ancora mi chiedo chi mi dia la forza per andare avanti.
Uscii dal negozio e mi avvicinai a quel gruppo di persone silenziose e con la testa china che procedevano in fila, una fila stranamente ordinata lunga un centinaio di metri. Un vero e proprio lombrico.
“Sportello? Che cazzo di sportello hanno aperto per avere una fila così?”
Mi ponevo domande ma non potevo avere risposte, mai mi sarei immaginato una cosa del genere.
La testa del lombrico, sembrava infilarsi in quella che era un tempo l'officina di Walter Rizzilli, un puttaniere che riparava macchine, ricordo che con la scusa di gonfiare le ruote della bicicletta, avrò avuto dodici o tredici anni, guardavo i calendari con le donnine nude in pose alquanto provocanti.
Walterino, lo chiamavano così, mi regalò anche un calendario che nascosi in cantina per non farmelo beccare dai miei.
Ho rischiato di diventare cieco per colpa sua.
Insomma, dopo la morte di Walter, il fondo fu venduto a qualche pezzo grosso della chiesa.
Per farci cosa non lo so, immaginavo un laboratorio specializzato in produzione di ostie a qualche gusto esotico, o roba del genere.
Poi, mi trovai davanti al fatidico sportello.
Un tizio tarchiato e con l'auricolare mi fece presente di rispettare la fila, gli risposi che volevo solo vedere che tipo di sportello avevano aperto.
Delle suore distribuivano bicchieri d'acqua alle persone in fila.
Se vi dico che sportello hanno aperto quelli della chiesa, non potete cederci.
Da restarci secchi.
Io stentai a crederci e pensavo d'essere dentro la più assurda illusione ipnagogica, oppure d'essermi messo sotto la lingua un cartoncino di Lsd e d'essermene totalmente dimenticato.
Quando vidi l'insegna lampeggiante, stille bordello del Nevada, rimasi di sasso.
INDULGENZE.
Non potevo crederci e iniziai a schiaffeggiarmi la faccia.
I componenti del lombrico tenevano la testa china e le mani unite in segno di preghiera.
“Qui si sta perdendo la testa”, pensavo, mentre di passo svelto tornavo in bottega.
Ad aspettarmi, c'erano tre ragazzi che probabilmente s'erano appena fumati l'intera Giamaica, ridevano e si prendevano a sberle con quei loro occhi rossi e socchiusi.
-Ditemi ragazzi, avete bisogno di qualcosa?
Il tizio coi dred stile fiftycent, piegato in due dal ridere disse:- Indulgenze, un chilo!
Iniziai a ridere con loro, ma da ridere non c'era proprio nulla.
In pochi minuti mi trovai in bottega la signora Conti, le sue tre sorelle, la signora Maggi e Piero Calzolai.
Tutti erano soddisfatti per il nuovo sportello appena aperto.
-Giovane, ci sei andato?
-Ancora no caro Piero, tu ci sei stato?
-Si, con 200€ mi sono messo apposto con Dio, ora posso morire tranquillo.
-Capisco Piero, capisco..
Le sorelle Conti erano entusiaste, in serata sarebbero state apposto anche loro.
La più secca delle sorelle Conti mi guardò e mi disse:- approfittane figliolo, approfittane, siamo tutti peccatori.
Sorrisi, un sorriso amaro come il primo caffè della mattina: sarei andato volentieri con quei tre ragazzi a fumare erba.

Dall'altra parte dei giardini, vendono indulgenze perché siamo tutti dei peccatori.

sabato 10 settembre 2011

"Refait surface."


M'accollo le colpe per le questioni irrisolte.
Lo capisco e l'accetto.
Ma non è tutto, c'è un qualcosa di universale a farmi maledettamente male.
Sudato, con i piedi che mi lacrimano sangue, le mani lessate e la fronte corrugata, concludo questa mia giornata.
Coltelli affilati, vetri rotti, spine bramose di graffiarmi l'addome e selciato lastricato di pietre appuntite.
Eccola la strada nella quale mi trovo.
In molti si sono arresi,
eccoli là nella fossa,
son tutti morti con la testa rotta, fracassata, sbattuta, putrefatta e mangiata da cani randagi, uscita sotto forma di merda dagli stessi cani che adesso si grattano il culo strusciandolo a terra.
Menestrelli sdentati, esultano con gioia al ritorno del dolore.
É tornato, ma credo che non se ne sia mai andato, era nascosto nelle mie viscere, pronto a farsi vivo quando meno me lo sarei aspettato.
Eccolo che è tornato.
Sono costretto a saltare di palo in frasca, oggi c'è burrasca.

lunedì 5 settembre 2011

"Pesca".

Ma ad un tratto qualcuno, guardando fisso in lontananza, esclamò: “Guardate là, che cos'è?”
Sul mare, all'orizzonte sorgeva una massa grigia, enorme e confusa.
Le donne si erano alzate e guardavano, senza capire, quella cosa sorprendente mai vista prima.
Uno disse: “É la Corsica!” (tratto da: La Felicità. Maupassant)

Corsica, isola affascinante e misteriosa.
Maupassant, ne è profondamente affascinato e la menziona in molti dei suoi racconti.
Il mare è stupendo e pescoso, le montagne sono altissime ed ospitano capre che saltellano da una roccia all'altra, incuranti del pericolo.
La Corsica, è anche la meta scelta per le vacanze estive da due amici fiorentini i quali decidono di andarci con le rispettive famiglie.
Pace, tranquillità, relax e tanta pesca.
Ottimo dopo un anno di lavoro.
I due amici, uno riccioluto e l'altro rasato, sono appassionati di pesca d'altura.
Uno di loro, ha appena acquistato una nuovissima Al custom perfettamente equipaggiata e non vede l'ora di testarla, magari catturando un bel dentice o perché no, una bella ricciola.
Arrivati al porto di Bastia, le due famiglie si dirigono a Saint Florent dove una casetta immersa nel verde, che propone un ottimo panorama sul mare, li ospiterà per tutta la durata della vacanza.
Proprio al porto di Sain Frontent, è ormeggiata la nuova barca chiamata “Oligo”.
La sera stessa dell'arrivo sull'isola, i due pescatori si dedicano alla preparazione dei finali e allo studio della carta batimetrica cercando una secca dove andare a pescare.
Alle tre di notte, con il freddo e la luna a fargli compagnia, i due si dirigono al porto e partono alle ricerca di esche con le quali pescare.
L'esca che preferiscono è il calamaro.
Dunque, attirano i pesci con il vivo.
Passano molto tempo alla ricerca di calamari, il tempo speso alla ricerca di una buona esca è fondamentale.
Dopo qualche ora, hanno una vasca piena di molluschi pronti per l'innesco.
Nel frattempo, il sole sembra riemerge dallo specchio d'acqua salata e riscalda i due pescatori infreddoliti.
È l'albeggio, silenzio assoluto, il mare è liscio come il dorso di un pesce.
I due amici si guardano e sorridono, da un intero inverno attendevano quel momento.
Sono pronti, si dirigono alla secca individuata la sera prima, innescano un calamaro e calano l'esca in mare.
Procedono lentamente osservando le coste della Corsica, andatura attorno ai due nodi, si guardano e nei loro occhi brilla il desiderio di sporcare la barca con un bel animale.
Passano alcune ore e ancora neanche l'ombra di un pesce, il cielo sembra non rispondere ai loro desideri.
I due, sconfortati, mangiano alcuni panini preparati la sera prima, sono le dieci del mattino e il mulinello ancora non ha cantato.
Decidono di mettere in pesca una nuova canna.
I gabbiani, sembrano osservarli curiosi.
I due amici, parlano della vita, di tecniche di pesca e di altro.
Sono distesi e si godono il panorama, manca solo un bel pesce.
Il raffio, attende bramosamente un pesce da bucare.

-“TRRRRRRrrrrrrrrrrrrrrRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRrrrrrrrr....”
Il mulinello canta.
Strike.
Si alzano convulsamente e prendono posizione.
Centinaia di metri di lenza vengono ingoiati dal mare.
Poi una pausa.
Il tizio riccioluto afferra la canna e inizia il combattimento.
La sigaretta che era tra le sue mani finisce in acqua.
-“TrrrrrrrrrrrrrrrRRRRRRRRrrrrrrrRRRrrrrrrrr...”
Che musica per le loro orecchie!
Il pesce è un osso duro e la lotta si fa intensa.
Adrenalina allo stato puro.
La canna è completamente piegata.
Cercano di mantenere la calma, l'altro pescatore è al timone e guida la barca facendo attenzione che il filo non vada sotto lo scafo.
Sono momenti concitati.
“TrrrrrrRRRRRRRrrrrrrrRRRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrRRRR”
L'ultimo anello della canna è quasi in acqua.
Il pescatore urla la sua gioia.
Venti minuti di battaglia poi dal fondo del mare una chiazza bianca avverte loro che il raffio deve prepararsi a bucare.
Il tizio riccioluto ha le mani che vibrano dallo sforzo ma non sente la fatica: adrenalina in circolo.
L'uomo rasato afferra il raffio ed è pronto ad arpionare il pesce.
Siamo nelle fasi finali del combattimento.
È un momento delicato.
-“Stsch....” colpo secco e potente.
Il pesce è in barca.
Uno splendido esemplare di ricciola di 23 chilogrammi.
I due si guardano soddisfatti, la barca è stata battezzata.
Missione compiuta, si dirigono verso il porto di Saint Florent con un sorriso di soddisfazione stampato in faccia.
Il vento che plasma i loro volti, il sole che brilla sopra le loro teste, il pesce in barca: sono felici.
Arrivano al porto entusiasti della mattinata trascorsa, parcheggiano l'imbarcazione e la lavano con cura.
Portano la ricciola nella loro casetta immersa nel verde e la tagliano con attenzione.
Cena di pesce, le loro mogli ed i loro figli ne vanno ghiotti.

È sera, il sole, ormai scomparso, aveva lasciato tracce rosate del suo passaggio nel cielo, soffuso d'un polverio d'oro; e il Mediterraneo, senza un'increspatura, senza un brivido, calmo, ancora splendente, sotto la luce che andava morendo, sembrava una lastra di metallo levigata e immensa. (Maupassant)

I due pescatori vanno a letto presto, l'indomani sarà di nuovo pesca.