sabato 31 marzo 2012

"Il sasso nello stagno."

Ecco cosa vuol dire essere uno scrittore.
È essere sempre angosciati, tormentati, infastiditi da se stessi.
Significa avere coraggio, combattere senza un vero nemico, estraniarsi e provare a descrivere un mondo in continua evoluzione che non aspetta nessuno, che viaggia come un missile verso una meta sconosciuta, straniera.
Scrivere, è come essere malati.
È una patologia dell'anima.
È dondolare tra realtà e follia.
Se qualcuno mi domanda per quale motivo scrivo, rispondo sempre che non lo so.
Si potrebbe passare tutto il pomeriggio a vaneggiare sui vari perché.
Forse è essere affamati di sé, avere una continua voglia di conoscersi, cercare in qualche modo di manifestare la propria essenza e di imprimerla su di un foglio per non farla sembrare il nulla che spesso appare.
Credo che tutti gli scrittori siano dei saccenti, malinconici saccenti.
Anche egocentrici.
Io, spesso, mi resto sui coglioni.
Ma forse non sono uno scrittore.
Ho cominciato descrivendo la natura.
Il nascere di una foglia, i prati ghiacciati, il fieno ingiallito, un fiore che sboccia.
Poi, da una qualsiasi situazione nasce una storia. Se vai dal benzinaio, al supermercato, a spasso col cane, a mangiarti un panino, a bere una birra, dal dentista, o dove cazzo vuoi andare, ti si sovrappongono migliaia di dimensioni e crei un altro mondo dentro al mondo.
Essere uno scrittore significa vivere di parole, di quelle che non esistono e te le inventi, di quelle che ormai sanno di vecchio, di quelle lunghe ed affascinanti e di quelle corte ed incisive.
Stop, super, sovramagnificentissimamente, precipitevolissimevolmente.
Uno scrittore vede un fiume e gli sembra il Gange, vede un monte e gli sembra l'Everest o il Kilimangiaro.
Uno scrittore si innamora di tutte le donne che inventa e patisce perché non può farci sesso, perché non esistono, perché sono solamente nella sua testa e fatica ad accettarlo.
Uno scrittore ha sempre la febbre e vive delirando, vive la sua vita con persone che non esistono.
Uno scrittore è forse solo un pazzo, che come un sasso piatto lanciato in uno stagno saltella per un po' e poi se ne va a fondo, affonda per il suo peso, perché è così che vuole la sua natura.
È un condannato che non ha commesso alcun reato, tranne quello, un giorno, di essersi messo una penna in mano e di aver scarabocchiato un foglio che, silenzioso, chiedeva solo inchiostro.

Astronauta.

martedì 20 marzo 2012

"Ruggine"

Pietro non è più mio amico.
Pietro non è più nulla.
L'adolescenza unisce.
Crea legami profondi.
Ci siamo conosciuti da adolescenti, nella stagione del non pensare a ciò che è veramente importante, nella stagione in cui filosofeggi inconsapevolmente, dove bevi e provi tutte le droghe del mondo perché nulla è più importante del presente e te ne fotti di tutto il parlottare della gente.
Puoi fare tutto, c'è sempre la tua stagione a farti da ombrello per quello che combini.
Ci volevamo bene.
Gliene voglio ancora.
Ora è perduto in una foresta dove tutto è altro da ciò che sembra, dove non sei sicuro se stai calpestando erba o altro, dove le farfalle sono aquiloni, dove tutti i gatti sono armati e marroni, e scappi, e corri perché hai paura che tutti attorno a te siano affamati predoni.
Pietro scappa dalla realtà, fugge dalle parole, si nasconde dove non c'è il sole.
È scappato anche da me, è scappato da tutti noi.
Ho regalato lui un diario. Speravo ci scrivesse qualcosa. Non ci ha scritto nulla.
Ha perso la testa.
Ti chiedi in che modo sia potuto accadere, se sei anche tu, in qualche modo, l'artefice di tutto.
Provo sempre un grande disgusto.
A stento trattengo il vomito, ma poi mi guardo allo specchio e dico che la colpa non è mia.
Certi giorni penso che forse potevo fare di più.
Ci sono stato davvero male, tutt'ora ne porto i lividi.
Anche questo graffio nell'anima, non smette di perdere sangue.
Ho chiesto consiglio anche al mare.
Mi sono fatto due ore di macchina per sedermi silenzioso al cospetto del maestro.
Ho annusato il vento.
Poi mi sono svestito, mi son buttato tra le onde ed ho pianto mescolando le mie lacrime salate con quelle di altra gente disperata e rapita dai propri demoni.
Con gli occhi aperti, sotto l'acqua, non si vedeva nulla.
Era un continuo sciabordare, è come ritornare finalmente nel ventre ancestrale dove ti spogli da tutte quelle caratteristiche con le quali la realtà ti individua e non ti senti nient'altro che te stesso, pulito e magnifico, semplice, in ogni tuo difetto.
Mi sono disteso sul bagnasciuga, la sabbia dappertutto sul corpo.
Ho pensato che non potevo più andare avanti in quel modo, che dovevo provare a ripartire.
È facile lasciarsi marcire.
Più facile di quanto si pensi,
più semplice di lavarsi i denti,
di sputare a terra,
di dire no a una guerra.
Poi, s'arriva al punto in cui o salti o resti immobile.
Restare immobile è come farsi corrodere dalla ruggine.
Salti per non diventare come quel tuo vecchio amico.
Una volta ero ubriaco e lui mi infilò due dita in gola per farmi vomitare. Mi sentii meglio.
Io ci ho provato a farlo vomitare, l'ho portato da qualcuno che lo potesse aiutare, qualcuno che potesse farlo sentire meglio. Avevo la speranza che la sua vita diventasse diversa.
Lo vidi scappare dalla finestra e lo ritrovammo solo dopo sei ore, seduto sulla sponda di un fiume che potente scorreva a valle. Mi disse che lo volevano ammazzare, che erano tutte balle, tutto architettato per farlo fuori, che il problema eravamo noi.
Per un periodo ha dormito in macchina per paura che il lenzuolo lo soffocasse, beveva solo alle fontane per paura che qualcuno lo avvelenasse.
La sua, è stata una normale evoluzione.
Si parte colla depressione e poi si va oltre, oltre la realtà, oltre la ragione, oltre ogni esperienza dei sensi, oltre quello che credi lui pensi, oltre questa dimensione.
Polizia, ospedale, fuga, polizia, urla in piazza, polizia, ospedale, chiamate nel mezzo della notte, bruciare la propria macchina perché posseduta dal diavolo, polizia, ricovero forzato, fuga in mutande per nascondersi nei bagni della stazione, polizia, psichiatria.

Se ne sta immobile ad osservare il suo pesce rosso.
Forse crede d'essere quel pesce.
Ha sempre avuto paura dell'acqua. È annegato nella realtà.
Ora non è più nulla.
Imbottito di tutta quella merda è solo un corpo.
Non sogna nessuna riscossa, non sogna più una vita.
Forse sa che la sua è svanita, forse non sa proprio nulla.
Se solo potessi togliergli quella pietra dalla testa.
Ieri sono andato a trovarlo a casa, ha detto che non voleva più vedermi, che non ero un suo amico, che non sapeva chi io fossi.
La vita va avanti scandita dai ricordi e dalle domande, pensi che se anche il mondo è grande e pieno di gente, nessuno è come quel tuo vecchio amico.
Le cose importanti, nella vita, ti accorgi che sono davvero poche. Se poi una di queste cose la perdi malamente per la strada, guardi il mondo con occhi diversi e tutto ha un altro sapore, quello cattivo, quello della ruggine.

lunedì 5 marzo 2012

"Corri papà, vieni, prendimi!"

Ieri, sono morto.
Mi sono lasciato cadere. 

Ho sentito che il mio corpo andava giù verso il buio. 
Poi, non ho sentito più nulla. Né la terra, né le braccia dei miei soccorritori, né il caldo.
Un tuffo nel vuoto. 
Pensavo di avercela fatta.

Ma sono morto solo per un po'. 
Mi sono svegliato per l'acqua. 
Ero in una baracca torrida e lercia. In piedi, di fronte a me, il capo!
rideva e continuava a buttarmi acqua sul volto. Mi sono ripreso così.
Dalla sua bocca sdentata e grinzosa, penzolava una sigaretta.
Grasso, pelato, sporco, maleodorante, colla canottiera e gli aloni giallastri sotto le ascelle. 
Rideva ed urlava.
-Negro, alzati!
La sua voce m'è penetrata nelle ossa e nell'anima. Volevo ammazzarlo. 
Ho scaricato la mia rabbia stringendo il pugno più che potevo.
Ho chiuso nuovamente gli occhi 
nella speranza di non riaprirli mai più. 

-Alzati, negro!

Ho aperto gli occhi. Oltre la porta della baracca, ho visto che il caldo sfocava tutto.

Nel sud dell'Italia, in estate, il caldo è insopportabile.
Fa comodo pensare che noi, noi che veniamo dall'Africa, possiamo sopportare tutto.
Siamo abituati al caldo, sì, ma siamo uomini.


Bisbigliando, ho maledetto quel bastardo nella mia lingua. 
Non capiva, ma rideva colla bocca spalancata. Ho visto le sue tonsille.
Poi, ha sputato la sigaretta sul pavimento e l'ha spenta girandoci sopra la punta del piede destro
per un paio di volte.
È uscito lasciando la porta aperta. Ho sentito che parlottava con altra gente.
L'italiano non lo parlo ma lo capisco: 
Ha detto agli altri che ero solo svenuto, dovevo riposare e l'indomani avrei potuto riprendere il lavoro.

Ecco perché volevo morire, per la mia situazione, per il lavoro.

È salito in macchina ed è partito insieme agli altri. 
Io sono rimasto solo nella baracca piena di attrezzi, disteso su alcuni pancali di legno. 
Immobile, ho atteso senza sapere cosa attendere veramente.


Mi chiamo Mohammed. Ho 33 anni. Ho studiato musica.
Ho vissuto nella campagna napoletana per due anni.
Ho lasciato il mio paese per cercare fortuna, pace, una vita felice.
Ho pagato tanti soldi per arrivare qui in Italia. 
Mi avevano promesso un lavoro dignitoso, la possibilità di avere documenti regolari, 
una casa per i primi tempi. Insomma, un futuro. 
Sono un clandestino, questo rende me e i miei compagni.. ricattabili.


Saranno state le cinque del pomeriggio. 
Solo, 
nella baracca sperduta, non sapevo dove fossi. 
Mi sono addormentato. 
Ho sognato che avevo un figlio e aveva i miei stessi denti grandi e bianchi, 
anche i miei crespi capelli. Avevamo un cane. Il piccolo aveva deciso di chiamarlo Italo.
Eravamo felici. Correvamo spensierati tra le margherite che coloravano un verde prato, 
qualche albero qua e là, alla nostra destra scorreva un fiume silenzioso e potente,
in cielo nessuna nuvola.
Mi figlio correva e mi diceva
  • corri papà, vieni, prendimi!




Mi alzai colla schiena dolorante, la pancia vuota.
Avevo fatto un bel sogno. 
Era notte, si erano dimenticati di me.
Correre spensierato col proprio figlio, per noi, è un'utopia:

Abitiamo in una baraccopoli, è un vecchio complesso industriale abbandonato 
e ci stiamo in più di mille.
Non abbiamo né bagni né elettricità.
Le condizioni igieniche sono disumane, non abbiamo medicine, i topi vivono con noi. 
Buttiamo l'immondizia da una parte e poi la bruciamo quando è tanta, allora i topi escono dalla montagna e s'infilano nei nostri giacigli logori. 
Siamo ammassati come bestie.
Mangiamo poco e quel poco siamo costretti a comprarlo da chi ci tiene rinchiusi. 
In inverno, specialmente di notte, fa un freddo da morire.
Ci pagano 10€ al giorno per lavorare dalle 4.30 del mattino alle 17 del pomeriggio, nei campi.
Dal nostro villaggio non possiamo uscire. 
Se ci vedono per strada, o ci riportano dentro o ci fanno fuori. 
“Se ti vede la polizia, vieni rimpatriato”. Almeno così dicono.
Noi non siamo uomini liberi, siamo schiavi.
Non c'è scampo. Appena arriviamo ci smistano.
Le donne, o al tessile, o a fare le puttane. 
Anche gli uomini sono divisi in due gruppi: muratori e contadini.
Se fai fortuna e si fidano di te, finisci a spacciare da qualche parte d'Italia, magari al nord.



Si sono dimenticati di me
in una baracca sperduta nella notte:

Ho pensato che morire e provare a scappare stavano sullo stesso piano, 
e che forse, scappando, avrei potuto avere una minima possibilità di vita nuova. 
I miei amici, mi avranno dato sicuramente per morto. Ma sono morto solo per un po'. Anche se loro non lo sanno.

Rinvigorito dal sogno di avere un figlio, un cane dal nome Italo ed una vita spensierata, 
ho iniziato a correre verso nord, lungo i campi, seguendo la stella polare.
Lasciandomi alle spalle la terra del dolore e della schiavitù, 
correvo come se mio figlio fosse davanti a me e dovessi inseguirlo per gioco e poi potessi abbraccialo forte.
Il sole sembrò emergere dalla terra quella mattina. 
L'alba mi sorprese a correre guardingo verso il mio futuro. 

Arrivai ad una strada, mi accasciai sul ciglio per non essere visto. Attesi lì che il sole tramontasse e che fosse ancora notte. Alcune piante mi protessero dalla calura del giorno. 
Non passò una macchina.
La luna illuminava un paesaggio suggestivo e, le stelle, mi sembrava di poterle toccare.
Davanti a me, sospesa in cielo, la mia guida.

Ripresi la mia corsa anche se più lentamente. La debolezza si faceva sentire.
Mi bruciavano i piedi. Ma noi, noi negri, siamo maledettamente tenaci e resistenti.

Senza accorgermene, mi trovai davanti ad una casa. Una lampada sorretta da un braccio in ferro emetteva una fioca luce che illuminava debolmente un piazzale sassoso. 
Dei grilli cantavano scandendo un ritmo regolare.
Solo una delle sei finestre era illuminata.
Mi appiattii a terra. Mi avvicinai strusciando. Nel parcheggio, solo una vecchia jeep. 
Andai sul retro della casa nella speranza di trovare qualcosa da mangiare o da bere.
Poi un cane iniziò ad abbaiare all'improvviso.
Avevo il cuore in gola. Restai immobile. Vidi che era legato.
Non smetteva di abbaiare. Un'altra luce si accese. Mi gettai verso la veranda:
Avevo visto, sul tavolo una busta.
La presi al volo e corsi dietro la jeep. Restai immobile.
Dalla finestra, la testa di un uomo uscì sospettosa.
Si guardò attorno. Poi chiuse la finestra. La luce si spense.
Attesi ancora un po'. Forse un'ora. Avevo la busta tra le braccia. 
Mi alzai e presi a camminare tutto aggobbito. Passi timorosi e felpati come quelli di un gatto.
Camminai finché la paura e il tremore alle gambe non passarono.
Urinai. Pare che urinando, scenda la tensione.
Mi nascosi in un canale per lo scolo dell'acqua.
Aprii il sacchetto, dentro ci trovai i resti della cena:
bucce di frutta, pezzetti di pomodori che forse ero stato proprio io a raccogliere, 
bottiglie vuote e poi tanta plastica.
Ci trovai anche una busta di latte, ce n'era dentro forse solo un dito: 
Mi sembrò il più buono della mia vita.

Ripresi a camminare.
Raggiunsi un paese ma ci girai alla larga. Poi arrivai ad una strada larga e ben asfaltata.
Macchine sfrecciavano ad alta velocità.
Seguii quell'enorme strada fino ad una stazione di servizio. Alcuni camion erano parcheggiati.
Trovai una fontanella e finalmente mi dissetai. Avevo la pancia piena d'acqua. 
Mi lavai anche un po'.
Era notte, ma fece presto giorno.
Alcuni tizi scesero dai loro mezzi, il bar della stazione di servizio accese le sue luci.
Non sapevo cosa fare.
Ai lati della strada, c'erano mucchi di carte carte. Cercai qualcosa da mangiare ma non trovai nulla.
Un uomo tarchiato e tutto tatuato aprì il retro del suo camion bianco, entrò dentro ed uscì quasi subito. Lasciò la porta socchiusa mentre andò alla fontanella a lavarsi il viso. Sputò sull'aiuola uno sputo catarroso che fu subito assorbito dalla terra.

Allora, mi venne in mente di saltare su quel camion, di lasciarmi inghiottire dalla strada come quello sputacchio s'era fatto inghiottire dal terreno.


È tutto pieno di scatoloni e c'è puzzo di chiuso.
Io sono qui racchiuso in questa gabbia buia che spero possa guidarmi alla libertà.

Sento l'asfalto sotto di me. Ho ancora nel naso l'odore del tormento.

Proprio ieri sono morto, ieri che ero ancora uno schiavo.
Ieri, era qualche giorno fa.

Ora proverò a dormire un po'.
Non ho più voglia di morire.
Questa mia maglia di una squadra di calcio italiana, è polverosa e puzzolente.
Mi tocco la pelle. Forse, la nostra colpa, sta nel suo color


Ieri era qualche giorno fa
Non ho più voglia di morire:

Avrò una moglie, faremo un figlio ed avremo un cane.
O forse non arriverò da nessuna parte, forse resteranno soltanto parole.

Ora proverò a dormire un po', penserò a tanti eleganti violinisti che suonano dove mare a cielo sembrano incontrarsi, dove l'armonia tocca il centro dell'universo. 

Mi sento felice.
Sto correndo da mio figlio.











domenica 19 febbraio 2012

"Odore."

Ne ebbi un primo avvertimento mentre mi mettevo la gelatina nei capelli e sforzandomi sorridevo allo specchio.
Faccio stretching facciale ogni mattina, preparo così la bocca a starsene sorridente per tutto il giorno.
Sentivo i muscoli affaticati, gli occhi pesanti, freddo alle ossa, nausea e vertigini.
Ma nulla di strano. Quando vengono quei cani dei miei amici a cena si fa sempre mattina e si sa, in gruppo, si è tutti più inclini all'abuso.
Quel disgraziato di Nino, nel fine settimana, era stato con la sua tipa in un monastero ed aveva comprato uno strano liquore al sapore d'abete. Mica una bottiglia, sei. E ce le siamo bevute tutte.
Eravamo in quattro.
Normale sentirsi poco bene il giorno dopo.
Ma c'era odore di nuovo quella mattina. Ne ero certo.
Non era odore di scarpa nuova, né di macchina nuova, né di libro nuovo.
C'era profumo di vita nuova.
Quella mattina, sbadigliavo e sorridevo allo specchio guardandomi i denti che mi sembravano più storti del solito.
Il nuovo dentifricio alla menta mi lasciò un alito stranamente piacevole.
Di solito, mi puzza il fiato e me ne vergogno. Durante il giorno uso le caramelle al mentono ed eucalipto, mi sembrano le uniche capaci di alleggerirmi l'alito.
L'odore di nuovo non era dovuto al nuovo dentifricio, ci pensai, ma non era quello.
Preparai il caffè e tutto sembrò identico a sempre, gli stessi gradi per la casa, la stessa poca luce, la solita pisciata del cane sul pavimento al lato sinistro del divano, i calzini uno qua e uno là e bicchieri un po' dappertutto. E lo stesso tanfo di posacenere che aveva ormai impregnato le tende e la carta da parati a righine verdi.
Tutto, insomma, come ogni santa mattina.
Tutto tranne qualche buco in più nel muro vicino al bersaglio per le freccette che mio cugino mi regalò lo scorso Natale perché io mi allenassi ed andassi poi con lui a fare i tornei.
Ma non ci andrò mai, glielo dissi subito e glielo ripeto ogni volta che varca la porta di casa mia ed osserva i dardi piantati sul bersaglio.
Da tre giorni, c'era la neve in ogni luogo che la mia vista potesse vedere. Tanta neve. Mai vista tanta così in vita mia.
Affacciandomi alla finestra, vidi un tizio dal buffo cappello col paraorecchie in pelliccia di coniglio che, con gesti ampi, sembrava intento a seminare qualcosa davanti a sé.
Lo guardai meglio, aveva la sigaretta ficcata nella bocca, un giubbotto arancione, delle scarpe da montagna e dei guanti da lavoro. Spargeva sale sul marciapiede.
Mi venne in mente il mio amico Carmelo, il quale era stato tutta la sera a spargere consigli a tutti noi.
Ad un certo punto mi fece uggia e gli dissi di non cagare il cazzo con le sue fesserie e di andare a farsi prete o diacono se voleva andare in giro per le case a dire che “quello sì!” e “quello no!”, o cose come “sbagli a fare così”, oppure “dovresti provare a fare in questa maniera”. Odioso davvero.
Bevvi il caffè restando inebetito ad osservare l'uomo del sale. Un vero professionista.
Mi calzai gli scarponi e scesi le scale con due sacchetti pieni di bottiglie nella mano sinistra.
Nella mano destra il guinzaglio del cane ed un libro di Joice che un tizio che studia con me mi aveva consigliato e che poi ho comprato via internet risparmiando qualcosa rispetto a quanto lo avrei pagato in libreria. Ma ancora non l'ho letto e se ne sta nell'armadietto del lavoro insieme a grembiuli e cappelli da salumiere.
Il cane mi trascinava con forza per andare ad orinare. Nell'androne rischiai di cadere.
Non lo sciolgo mai, il cane. Lo trascino col guinzaglio.
Povera bestia. Povero Teo.
Da quando quel topo del mio jack russell attaccò la pelliccia di visone di una vecchia signora, sbranandogliela tutta, ha perduto la mia fiducia.
In un certo senso lo comprendo, credo l'abbia fatto per dare una lezione a quella strega. Se vedessi in giro qualcuno con una pelliccia di pelle di umano addosso, probabilmente farei la stessa cosa.
Insomma, però quella sua bravata m'è costata un botto di soldi. Pensai anche di vendere un rene per risarcire la donna dagli orecchini dorati che, quando mangio tanto, la sogno ancora mentre sbraita e mette su una tragedia con gli altri clienti del bar che fanno il coro e muovono le mani a tempo. Una vera tragedia.
Peccato che mi pietrificai mentre mi vociava sul viso, sennò avrei potuto darle un destro e lasciala a terra col mio cane a strapparle il visone. Lo dico per dire, non ne sarei capace.
Sono rimasto traumatizzato da quell'episodio.
Dovrei farmi vedere da qualcuno capace, non posso essere terrorizzato dalle donne colla pelliccia. Credo sia abbastanza semplice come problema, con poche sedute dovrei uscirne, ma forse anche senza.
Un altro problema, è che ho paura ad uscire di notte, da solo.
Anche Teo, la sera, lo lascio pisciare in casa.
Da quando un gruppo di naziskin mi spaccò di botte, alcuni anni fa, ho paura ad uscire.
Una di quelle carogne con la testa rasata so anche come si chiama: Paolo Bassi.
E so anche dove lavora e dove abita.
Questo racconto parla di Lui.
Mi picchiarono per divertimento, non gli avevo fatto nulla di male, erano ubriachi e forse gli aveva dato noia che fossi passato davanti al loro pub, lo Skrewdriver.
Sapevo una sega che quello era un posto da evitare, non sapevo cosa fosse lo Skrewdriver.
Pensavo significasse solo cacciavite. Mi sbagliavo.
Era una sera di febbraio, avevo diciassette anni, a quei tempi uscivo con un certa Sara che aveva due anni più di me.
Sara abitava vicino allo Skrewdriver, i suoi genitori non erano mai in casa e la sera andavo sempre da lei. Poteva dirmelo quella troia di non passare da lì, poteva dirmi di passare da via Corsi e non da via Pananti.
Mi fecero il viso viola quei bastardi, mi slogarono una spalla, mi ruppero tre costole ed il polso destro.
Ricordo le loro Dc. Martens coi lacci bianchi che mi colpivano il petto, i loro jeans arricciati, quelle bretelle che si muovevano nell'aria fredda della notte più fredda della mia vita, per poi sentirle frustare la mia testa ed il mio corpo dolorante.
Ricordo i loro tatuaggi, quelle ragnatele ai gomiti (erano a mezze maniche nonostante fosse inverno), volti di cane, rose, cuori, spade, rondini.
Tornai a casa e sembravo un altro. Non ce la feci ad arrivare con le mie gambe, mi ci portò un tizio che mi trovò mezzo morto vicino alla sua Panda. Gliela insanguinai tutta. Voleva portarmi all'ospedale ma poi lo convinsi a portarmi a casa. Salii le scale con una lentezza lancinante.
Mia madre si svegliò perché mi sentì piangere in bagno, non riuscivo a spogliarmi, mi guardò e dopo mille domande mi portò di forza all'ospedale.
Scesi le scale sorreggendomi da un lato al corrimano e dall'altro a mia madre.
Ero messo male.
Mi fecero una tac, m'ingessarono il polso, e poi mi tennero in osservazione per tutta la notte.
Parlavano di denunce, volevano sapere chi era stato a ridurmi in quel modo, ma io non dissi nulla. Mia madre insistette per qualche tempo ma poi si arrese.
Ora lo sa.
Conoscevo anche il padre di Paolo Bassi, Settimio, sapevo chi era ma non lo salutavo.
E Sara la chiamo troia perché l'ho beccata a fare un pompino al suo ex.
Una vera troia con la t maiuscola.
Gettai il sudicio nel cassonetto, e poi m'addentrai nel cortine per andare al lavoro.
L'aria fredda e pulita mi fece sentire meglio.
Lasciavo le mie impronte sulla neve ghiacciata, Teo anche. La neve gli dava quasi al muso.
Erano le otto e quarantacinque. Dovrei entrare alle otto, ma arrivo quasi sempre verso le nove. Mi resta più comodo.
Entrato in bottega, i colori accesi della frutta e della verdura mi fecero venire le vertigini più di quanto già non le avessi. L'odore del sugo sul fuoco e della polenta, mi strinsero lo stomaco e ebbi un insulto di vomito che sapeva d'abete. Maledissi Nino.
Quella sorda di mia nonna (comprensibile, ha 83 anni ed odia l'apparecchio acustico), se ne stava aggobbita colla sua vestaglia celeste a togliere le foglie vecchie dall'insalata e bisbigliava qualcosa a bassa voce.
Pensai che stesse dicendo il rosario, forse era così.
È alta poco più di un metro mia nonna, grassoccia, ha i capelli corti e sempre pettinati, gli occhi verdi come mio padre ed è simpatica.
Le andai vicino e le dissi -buongiorno!
Mio padre sbucò dalla cucina col mestolo della polenta in mano e prima ancora che mi togliessi il giubbotto e mandassi il cane in giardino, mi mandò a quel paese per il ritardo. Ma lo fece sorridendo e capii che non era incazzato.
Mia nonna alzò lo sguardo e lo riabbassò in un istante prima ancora che potessi vedere che colore di rossetto avesse sulle sue graziose labbra grinzose.
Verso le undici consegnai la spesa all'antipaticissima signora Costi (non mi lascia mai mezzo euro di mancia) e abita in un palazzo nel quale c'è sempre puzzo o di fritto o di minestrone.
Poi stetti in bottega a servire gente col mio sorriso splendente stampato sulla bocca.
Sono un professionista, alleno la bocca ogni mattina.
La gente viene a fare la spesa da me perché dicono che trasmetto serenità. Dovrò spiegargli, un giorno, che sono un attore nato.
E poi mi diverto con tutte quelle vecchiette (età media 70 anni), sorrido anche per questo.
Improvvisamente, accompagnato dal suono delle campane che rintoccano il mezzogiorno, sentii nuovamente quell'odore. Profumo di nuovo, di vita nuova.
Lo respirai a pieni polmoni, allargai le braccia come dopo una corsa e chiusi gli occhi per gustarlo.
Mi vene in mente la notte in cui fui pestato dalle teste rasate, mi venne in mente Paolo Bassi.
Tutte le volte che l'ho rivisto, ed è capitato spesso, sempre vestito di nero come le olive per fare il pollo alla cacciatora, ho sempre avuto timore di lui.
Però, una volta ho sognato che andavamo insieme a pescare, soli io e lui, ed eravamo amici.
I vetri del negozio erano appannati ed aprii la porta per vedere all'esterno.
In lontananza, vidi un tizio col cappotto giallo ed un berretto bianco. Camminava a testa china sulla neve che nel frattempo si era un po' sciolta.
Aveva una camminata che mi ricordava qualcuno.
Non diedi troppo peso alla cosa, ma seguii con lo sguardo quella figura che poi scomparve come inghiottita dalle case dal tetto innevato e dai balconi senza fiori.
Vennero pochi clienti quella mattina, Teo stette per tutto il tempo nella sua cuccia e lo vidi uscire solo un paio di volte per ingiallire la neve.
Finii di lavorare e non ero stanco.
Andai a fare due passi verso il centro.
Il mio cane decise di defecare proprio davanti agli annunci mortuari nei giardinetti innevati di via Bonaparte. Alzai lo sguardo e lessi:
Lunedì 12 Febbraio assistito amorevolmente dai suoi cari cristianamente è mancato
SETTIMIO
BASSI.
Di anni 67.
Ne danno il doloroso annuncio i figlio PAOLO e FRANCO, i nipoti MICHELE e GIULIA , il fratello PIERO, i cognati, i nipoti, la suocera e i parenti tutti. I funerali avranno luogo Giovedì 15 FEBBRAIO alle ore 10.00 nella Chiesa di San Lorenzo ove il caro Settimio arriverà dall'ospedale. Dopo le esequie si proseguirà per il cimitero locale. Il Santo Rosario verrà recitato Mercoledì 14 Febbraio alle ore 17.30 in Cappellina.

La scorsa settimana, era morto il padre di Paolo.
Mi dispiacque.
Camminai pensando a non mi ricordo cosa, avevo la testa vuota.
La neve sporca ai lati delle strade aveva strane sfumature marroni.
Poi mi sbucò davanti quell'uomo col cappello bianco e il giubbotto giallo.
Fui avvolto da un'incantevole fragranza che sapeva di fiori e placenta, di latte e meraviglia, morbida come il cachemire, leggera e confortevole come il fuoco nelle case di campagna mentre fuori piove.
Il mio cane iniziò ad abbaiare insistentemente, poi si distese per terra e voltò la pancia verso il cielo.
Lo avevo sempre visto col bomber nero e la coppola in testa, jeans stretti e stivaletti neri.
Non lo riconobbi subito, ma quella camminata era la sua, quegli occhi erano i suoi.
Era Paolo Bassi.
Si era tolto il nero d'addosso e ne aveva tolto un po' anche al mondo.
Pensai che la morte di un caro costringe a guardarsi dentro, costringe a riflettere, separa il bene dal male, purifica l'anima, costringe gli uomini a diventare uomini nuovi.
Mi piace pensare che Settimio abbia scelto non di rinascere da qualche altra parte del mondo, ma abbia deciso di dare un profumo diverso alla vita di suo figlio.
Spero sia davvero così.
Resta il fatto che mentre mi mettevo la gelatina nei capelli, appena sveglio dopo una cena tra amici,
ne abbi un primo avvertimento.
Poi tutto mi fu chiaro appena lo vidi, era un uomo nuovo che profumava di vita nuova.
Forse diventeremo amici, forse andremo insieme a pescare, forse la sera porterò fuori il cane.

Stasera ho scritto questa storia, è la storia di un ragazzo che sa di nuovo.

martedì 31 gennaio 2012

"Cagna, dove sei?"

Boia della miseria.
Dove sei, cagna?
È che non trovo la musica giusta, quella, per intenderci, capace di liberarmi la scimmia.
Guardo l'orologio anche se il tempo non mi ha mai ossessionato. Lo guardo e pare guardarmi anche lui. Ci guardiamo.
Poi mi osservo le dita e vedo che ho le unghie lunghe. Penso che prima di andare a letto me le dovrei tagliare. Non uso le forbicine. Uso il tagliaunghie e mi piace che le unghie schizzano dappertutto per il bagno. Poi m'incazzo se la mattina ne pesto una col piede scalzo. Dormo solo con un calzino e l'altro piede lo lascio come mamma me lo ha fatto.
Dormo così, c'è poco da fare, nudo e con un solo calzino. Preferisco coprire il piede sinistro.
Eppure stamani ero ispirato, m'ero appuntato anche alcune parole per scriverci un racconto.
Frugo in tasca dei pantaloni. Ci trovo uno scontrino, un accendino rosso, un lapis Ikea, 40 centesimi, del tabacco, le chiavi di bottega, quelle della macchina e nient'altro.
Del fogliettino sul quale avevo appuntato l'idea non c'è traccia. Porco cane.
Stamani al lavoro ero depresso. Non avevo voglia di sorridere e servire gente.
Avevo solo voglia di scrivere. La signora Rossi se n'è accorta e mi ha domandato se mi sentivo male.
Le ho risposto che avevo solo sonno. In effetti avevo anche sonno, ma ancora di più volevo starmene a casa a scrivere.
Negli ultimi tempi sto scrivendo poco. Scrivo tutti i giorni ma poco, roba come due o trecento parole e nulla di più. Sto perdendo il ritmo, ecco, del ritmo sono ossessionato, di tutti i ritmi.
Apro un libro a caso dalla libreria.
“Neanche se avessi cento lingue e cento bocche e una voce di ferro potrei enumerare tutte le forme dei pazzi, passar in rassegna tutti i nomi assunti dalla Pazzia”.
Erasmo è troppo forte. Lo rimetto nella libreria.
Poi spengo il computer.
Vado a letto da vinto. Poi le unghie non me le sono tagliate.
Penso che forse il foglietto che cercavo è in tasca del giubbotto. Mi aggrappo a questa sottile speranza, non mi arrendo, ho la testa completamente vuota e forse quel foglietto può aiutarmi.
Mi alzo a vado a cercarlo. La mia ragazza russa come una dannata.
Non c'è nemmeno nel giubbotto.
Mi viene l'ansia, non è certo colpa del mancato ritrovamento dell'appunto, ho l'ansia perché non capisco dove diavolo sia andata quella cagna.
Eppure l'ora era quella giusta, quella che dà l'inizio al nuovo giorno.
E la casa era pulita.
Scrivo di notte dopo aver pulito casa, altrimenti non mi concentro.
Guardo nuovamente l'orologio, sono le una.
Stasera nulla, si fa passo e la cosa mi brucia da morire.
Vado in bagno a tagliarmi le unghie e mi rendo conto di avere davvero l'ansia.
Decido di vestirmi ed uscire.
Non sveglio quell'essere russante perché sennò si crede che vado a fare il ganzo con le ragazzine e mi rompe.
Mi chiedo come possa fare con un corpicino come il suo ad emettere un rumore così forte.
É tremendamente sproporzionato.
Mi pento subito di essere uscito, la nebbia è fitta e non si vede un cacchio nulla.
Ho messo le Converse e mi fa freddo ai piedi.
Attraverso i giardini col collo dentro le spalle.
Aggrovigliati come piante rampicanti ad un palo della luce, due ragazzini stanno limonando con passione.
Ora la ragazzetta bionda è a cavalcioni sul ragazzo e i due si muovono lentamente e con costanza. Bravi, penso che fanno bene.
Attraverso la strada.
Cammino sul marciapiede e le mattonelle mal fissate a terra producono una strana melodia.
Sembra di camminare su una pianola metropolitana.
Ad un certo punto torno anche indietro per pestare con la punta del piede sinistro uno strano tasto dal suono tutto particolare.
Bello, la cosa mi gasa e aumento i passi: c'è un bel ritmo.
Sotto il giubbotto ho ancora la maglia del pigiama.
Mi ritrovo all'angolo di una strada e vedo che c'è un locale aperto.
La musica che vi proviene sembra ovattata dalla nebbia.
Mi avvicino. Un gruppetto di tipi tutti molleggiati se ne sta davanti alla porta a fumare. Chiedo una sigaretta. Un galletto con la cresta rossa me ne dà una e mi fa pure accendere. Penso che è gentile.
Finisco la sigaretta, la butto ed entro.
Le luci sono basse e strane scritte tappezzano le pareti amaranto. C'è davvero una bella musica.
C'è profumo d'incenso, al bar ci sono giovani bariste che ballano e preparano colorati intrugli.
Mi avvicino alla consolle dove una scatenato mette i dischi e tiene il ritmo con la testa pelata.
Ci saranno cento persone.
Quella melodia mi avvolge e mi coinvolge, con la mano sinistra che muovo a mezz'aria seguo il tempo.
Un tizio mi dà una pacca sulla spalla e mi porge il suo bicchiere, mi sorride e mi dice di bere.
Bevo e lo ringrazio.
Ho caldo ma non posso togliermi il giubbotto.
Noto una ragazza con un culo delizioso che muove i fianchi come una dea, ha i capelli ricci e biondi che arrivano poco sotto le sue spalle minute. Ha una maglietta grigia, una gonna nera, degli stivali di un colore indistinguibile e un culo da sogno.
Un ragazzo mi porge ancora da bere, non conosco nessuno ma mi sento a casa.
La musica è potente e veloce.
Tutti si vogliono bene. Vorrei prendere qualcosa da bere tutto per me, ma mi rendo conto di non avere soldi.
Poi magicamente mi trovo in tasca un pezzo da cinque e decido di spenderlo per una birra.
Non mi viene in mente niente di poetico, nessuno spunto per scrivere, nulla di nulla. Però non ho più l'ansia.
Mi siedo. Una ragazza si siede al mio fianco e porgendomi la mano dice di chiamarsi Olga.
É la ragazza che si muoveva come una dea, quella col culo perfetto.
È davvero carina. Ha gli occhi verdi e gli stivali grigio topo. Le rispondo dicendole che sono Pino.
Mi piace inventarmi i nomi e fare il coglione con le persone che non conosco. Mi piace mettermi un numero illimitato di maschere, è un po' come abitare lo stesso corpo e far vivere tutti i propri sé quando uno vuole. Lo faccio spesso. Direi che è il mio passatempo preferito.
Mi dice che studia moda.
Le dico che il termine moda deriva dal latino modus, che significa melodia, maniera, tono, tempo, ritmo.
Mi guarda sorpresa.
Mi chiedo che cosa caspita abbia studiato.
Le dico anche che il primo ad usare il termine moda con il significato attuale fu un abate in un trattato del 1600 e rotti.
Mi sorride mostrandomi tutti i denti bianchi e piccini, poi mi dice: -ma allora sei uno studente di storia!
Grattandomi la testa riccioluta le dico una mezza verità:- no! Sono Pino e faccio il salumiere.
Non ci crede, e giocherellando col bottone del mio giubbotto fa una stupida vocina da bambina demente e mi dice di non prenderla in giro.
È ritardata, ne ho la conferma.
La lascio con una stupida scusa e mi dileguo verso il bagno.
La gente balla anche nel bagno, anche mentre orina. Ai lati del water c'è un centimetro andante di piscia.
Esco dal bagno e dal locale, ho ancora la birra in mano e la bevo in un sorso.
Il bicchiere penso di portarmelo a casa, di lavarlo e metterci l'acqua per la notte. È bello capiente. Un bicchiere normale non mi basta mai.
Quella cagna non era nemmeno lì, non era a farsi offrire da bere da tizi sconosciuti, non è stata a pisciare sul pavimento, non ha conosciuto Olga.
Torno verso casa.
Con la nebbia perdo un po' l'orientamento. Mi accorgo di non avere le chiavi. Sono uscito di casa proprio come un cane. Sulla panchina i due che facevano petting non ci sono più. Forse lui è venuto.
Arrivo davanti al portone, ho la chiave di scorta nella cassetta della posta e la inserisco nella toppa cercando di non fare tanto rumore.
Tolgo le scarpe per attutire il rumore dei miei passi.
Dalla camera proviene musica di sonno profondo.
Mi metto alla scrivania e decido di scrivere per forza.
Ma il foglio bianco mi mette in soggezione e il cursore lampeggia con una cadenza regolare che mi dà sui nervi.
Mi viene da pensare a quella tipa che dice di studiare moda, carina sì, ma non basta per conoscere il mio vero nome. Non lo vado a dire in giro a tutti i ritardati che incontro.
Olga, la santa idiota col culo benedetto.
Sono ormai le tre del mattino.
Mi arrendo.
Quella cagna aveva bisogno di starmi distante per un po', di disintossicarsi.
Chissà dove diavolo è adesso, chissà se tutte le cagne, stasera, si son prese una pausa dagli uomini della terra e hanno deciso che il 31 gennaio è il loro giorno di riposo.
Saranno forse in sciopero?
Se almeno ci fosse un sindacalista domanderei a lui.
Andarsene così, senza dire nulla, non va bene.
Quando torna deve chiedermi perdono, deve scusarsi in ginocchio e deve farmi scrivere qualcosa di forte.
E se domani non torna? Se sta con qualcuno per un po' e poi se ne va all'improvviso?
Voglio, se torna, che chieda alla lampadina che adesso è al mio fianco quanto sono stato male.
Cagna, dove sei?
La disperazione prende il sopravvento.
Mi spoglio tutto e per cambiare decido di lasciarmi il calzino destro.
Abbraccio il corpo russante e provo a dormire, a lasciarmi cullare da quella sua melodia.
Cerco di non pensare al fatto che la mia amante è andata via senza dirmi nulla.
Non dirò nulla alla mia fidanzata, mi prenderebbe per pazzo.

giovedì 19 gennaio 2012

"Piuma"

Sai amico mio, quella bastarda è arrivata così all'improvviso.
Ricordo bene il tuo viso da giovincello sbarbato, i tuoi occhi più profondi dell'universo, i tuoi discorsi che volutamente si estraniavano da ogni contesto, ricordo ogni tuo gesto, i nostri sguardi d'intesa, ogni tua pretesa, il modo in cui camminavi trascinandoti dietro un corpo sempre stanco e l'espressione d'abbandono quando mi dicesti quel che mi dicesti.
Sono stato con te sulla collina e ci siamo abbracciati fino a farci male, poi siamo scesi insieme là dove il mare è cosi profondo che sembra sempre notte ed abbiamo assaporato entrambi l'agrodolce sapore del sangue e delle botte.
Il caldo, il freddo, la gioia, la frustrazione, la musica veloce e quella lenta, il pane, la polenta, i fusilli al tonno, la pizza con le acciughe, la marijuana, la birra, il rum rubato al supermercato, sfidarsi a chi faceva fare più salti al sasso piatto raccolto sull'argine destro di un fiume che un tempo era pulito ma che adesso non è più lo stesso e non c'è più un sasso come si deve.
Chissà se hai trovato quel demonio di Ray Charles e stai cantando con lui “Hit the road Jack!”, prova a cercarlo in un posto che somigli alla Georgia, quello ce l'ha sempre in mente.
Sono sicuro che hai trovato Moana Pozzi e le stai facendo la posta, che hai mandato una lettera a Galileo ma non hai ricevuto risposta. Perché sì, io voglio immaginarvi tutti insieme un un crogiolo di pensieri e parole, ognuno a dire quello che pensa, tutti insieme sì, in un posto senza tempo, dove ognuno può fare quel che gli pare e si può bere anche l'acqua del mare.
Tre anni, due mesi, quattro giorni e le ore non le so, sei partito per un posto in cui prima o poi arriveremo tutti, siamo piume che lentamente cadono a terra prima di aver fluttuato qua e là per un po' e tu sei stato sfortunato e forse per il tuo peso, per il caso, per una qualche cazzo di corrente sbagliata, sei arrivato a terra con una rapidità straziante, lacerante, assordante,rimbombante.
Forse dovevano spiegarti che non era una gara, che non vince chi arriva per primo, ma lo dico semplicemente e stupidamente perché voglio illudermi d'essere un giocatore astuto.
Non escludo la metempsicosi e chissà se adesso sei un fiore o una rana, o un tasso nella sua tana, il gatto che fa le fusa su un divano maculato o se sei un seme appena piantato, se il mondo delle idee lo hai osservato e sei pronto per ricordarlo bene ed essere saggio nella tua nuova vita da uomo.
Io mi sento lo stesso di sempre ma i capelli me li sono tagliati e mi sono anche fidanzato. Sono la solita montagna di pensieri e domande, come al solito, di storie e vizi, di nausee e mal di testa.
A proposito, non sono più tornato a pesca ma prima o poi lo farò, te lo prometto.
Una lampadina punta il foglio su cui adesso sto scrivendo, la birra è finita e la sigaretta si spegne tra le mie dita, tu non ci sei e sei dove ti pare, a correre in un prato, a mangiarti un gelato affacciato ad una finestra, a scambiarti qualche carezza, a scrivere poesie, a creare armonie o a disegnar libellule argentate con cento penne piumate.
Vado cercando la felicità dappertutto, e stasera il tuo pensiero m'è bastante, anche se come un venditore ambulante son costretto a cambiar città ogni giorno per paura che quella bastarda mi porti da te.
Quella arriva all'improvviso amico mio, è una vera bastarda e tu lo sai bene.

mercoledì 11 gennaio 2012

"Dopodomani"

Ci sono alcuni momenti, certe giornate, certi frammenti di vita, in cui vorrei essere uno dei tanti e mescolarmi ai loro pianti.
Certamente siamo in molti, a volte mi illudo di essere solo e diverso solamente per giustificare il mio dolore e non affrontarlo veramente fino in fondo.
Sono un codardo, come gli struzzi nascondo la testa sotto la sabbia, come un qualche animale esotico corro a nascondermi nella foresta ed aspetto che sia finita la tempesta per poi far capolino ed osservare un paesaggio che giustamente resta identico a se stesso nonostante tutto.
Il problema, la causa di tutto, l'ho proprio davanti al pari di questo schermo cosparso da lettere bianche.
Un paio di volte ci ho provato a risolverlo, forse quattro o magari solo tre.
Vorrei smettere di martoriarmi la testa alla ricerca di qualche antidoto che abbia la potenza di districare questo groviglio pieno di pruni che graffiano le mie mani e le riempiono di un vermiglio sangue che poi tocca terra formando una pozza, manifestando così la sua vittoria e la mia ennesima sconfitta senza troppa lotta.
Bacche velenose, stelle che tentano l'incesto, lacrime di un sapore che non è sale, continua ricerca del divino, tanto vino ed anche quello m'illude e mi confonde rendendomi stupido e vanitoso come una qualsiasi mediocre attrice di fotoromanzi americani ormai fuori moda.
In certi giorni mi sento proprio un re, il sovrano di un territorio sconosciuto ed illimitato dove anche il più audace degli esploratori si sentirebbe arreso, non c'è una cartina alla quale appoggiarsi, una bussola capace di indicare un qualsiasi punto cardinale, una qualsiasi popolazione da studiare per capirne i miti od i riti ed estrapolare informazioni relative ad un territorio che forse non è né nuovo né vecchio, che forse è montuoso o magari è pianeggiante, che forse non esiste ed è solo nella mia guasta testa da ventitreenne sconsolato.
In giorni come questo la vita mi sembra la sabbia cocente di un deserto, io sono scalzo, perduto, ammalato, bruciato, con le vesciche ai piedi, e cerco disperatamente una chiazza d'ombra ed un poco d'acqua per immergerci il corpo e sperare di sentirmi meglio.
Colpa di quella cosa che ho davanti.
Avete anche voi qualcosa che vi rende infelici?
Io amo il pane col burro e le alici,
le case verniciate di verde,
il pongo, la crostata alla marmellata,
ogni tipo di torta salata,
ogni prima puntata.
Amo la filosofia,
la teurgia,
Giordano Bruno,
tutti i numeri uno,
le linguine al pesto
e la cassiera che ogni mattina mi dà il resto.
Odio l'insalata,
le religioni,
le prigioni,
il censimento e questo mio mento pronunciato che mi fa sembrare un cartone animato.
Oggi mi sento così, arruffato e sconclusionato, afflitto e poi confortato, bianco e nero.
Domani mi taglierò anche questa cazzo di barba che mi fa sembrare un eremita.
Domani farò una corsa e correrò dall'alba all'imbrunire, voglio osservare il nitrire di un cavallo, il cantare di un gallo, il barrire di un elefante, il sibilare di un serpente.
Domani mi masturberò sotto la doccia per vedere se mi scarico.
Posso fare di tutto per provare a sentirmi meglio, ma se non affronto la cosa che ho davanti continueranno i miei pianti.
Sì, continuerò a stare male e me lo ha detto anche il mare, l'ho ascoltato dentro una conchiglia proprio prima di mettermi seduto e di fare uno starnuto.
Vedo il mio gatto là sul divano, è racchiuso in posizione fetale, gli faccio un fischio e mi guarda sorpreso, poi gli grido -Non mi sono arreso!
Gli vado vicino e lo prendo in collo.
Chiudo gli occhi, mi lascio tentennare dalle fusa del gatto e penso che oggi mi son sentito un vero pazzo, ma domani sarà un nuovo giorno e forse dopodomani starò qui a scrivere della mia vittoria.
É tuttavia possibile che sentiate dire in giro che ho perso un'altra volta.

sabato 31 dicembre 2011

"Ho sentito un fischio"

Disteso in questa stanza, mi rotolo divertito sull'erba bagnata da una pioggia appena caduta.
Tutto è così dolce ed amorevole, sono abbracciato dai fili d'erba, dai bianchi petali dei fiori cullato, da leggere mani accarezzato e da calde bocche baciato.
Mi muovo sopraffatto da una libido che mi fa tremare, lentamente, proprio come un lombrico nascosto tra l'erba, mi muovo e tremo d'assoluto piacere.
Poi un fischio mi fa alzare all'improvviso.
Barcollando mi affaccio alla finestra ma nella strada non vedo nessuno.
Cerco dappertutto con lo sguardo, mi sporgo, ma nulla.
Resto inebetito ad osservare alcune macchine parcheggiate a lisca di pesce due delle quali sono bianche una è nera, un'altra è verde e un'altra ancora è celeste. Guardo anche le finestre davanti a me, le persiane, i vasi senza fiori, alcune luci di Natale, lo spoglio tiglio alla fine della strada, le strisce pedonali che nessuno sta calpestando, i pomelli d'ottone del terzo portone alla mia sinistra e un cassonetto per l'immondizia che standosene lì immobile manifesta la sua abituale pigrizia.
Non si vede un'anima in tutta la via, un po' di nebbia cala lentamente dal cielo e penso che mi sono sbagliato.
Quel fischio è stata forse una mia illusione, il frutto della mia strana immaginazione.
Allora mi getto di schianto in quello che prima era un verde prato bagnato e adesso è un rosso deserto infuocato, un sole cocente m'abbronza il corpo che stranamente è già sudato, poi dal soffitto cade una strana bambagia d'un giallo fluorescente che m'avvolge il corpo e lo fa levitare orizzontalmente a mezz'aria anestetizzandolo completamente.
Sono incapace di sentirmi piedi e mani ed in aggiunta un bisbiglio incantatore mi porta in una strana, forse parallela, dimensione fino ad allora sconosciuta.
Vedo che dalla libreria alcuni libri sembrano cadere di schiena per poi aprirsi e con le loro ali prendere il volo verso Est, verso casa del Bonetti, verso il fiume, verso la Romania, verso la Cina, verso la stazione da dove oggi ho preso il treno per andare non mi ricordo bene dove.
Poi ecco ancora il fischio, chiaro, deciso, netto, s'infila nella stanza e nelle mie orecchie facendomi sobbalzare.
Cado improvvisamente sul pavimento che ora è un letto stracolmo di mandarini freddi ed arancioni, poi i mandarini aumentano continuamente e come un bambino in quei giochi del Luna Park nuoto verso la finestra e la apro.
La nebbia ha invaso tutto, non distinguo più il colore delle macchine, e non vedo più il tiglio, e non vedo più i pomelli d'ottone, e non vedo più nulla.
Cerco ma non trovo.
Allora inizio ad urlare ma non sento risposta, fischio pure io ma il tutto sembra essere ingoiato dalla nebbia.
Ululo e strillo, muovo le mani convulsamente per allontanare la nebbia e vedere se qualcosa o qualcuno sia sotto la mia finestra o più in là, ma non c'è un cazzo di nessuno.
Lascio la finestra aperta e vado verso il lavandino della cucina.
Tutto torna alla normalità, tutto è come dovrebbe essere.
In terra c'è il cotto ed i libri solo al loro posto, il frigorifero è proprio dov'era stamattina, l'albero adornato per il Natale ha le lucine con la loro solita intermittenza proprio come ieri e come l'altro ieri, sul soffitto non c'è nulla di particolare tranne qualche chiazza d'umido ingiallita.
Apro l'acqua del lavandino e ci metto sotto la testa, mi bagno le mani, il collo, bevo qualche sorso d'acqua marmata e sento che questa mi sta colando anche sulla schiena.
Una pentola se ne sta capovolta col culo rivolto all'iperuranio: è la pentola nella quale ho cotto la pasta.
Osservo la pentola dai manici sottili e vedo che questa osserva me, riflette la mia faccia allungandola un po' e smagrendola quasi facendola somigliare a quella dell'Urlo di Munch.
Sono comunque nitidi e riconoscibili i miei occhi che osservo e scruto curiosamente cercando di vedere qualcosa che fino ad allora non avevo veduto.
I miei occhi, marroni e senza particolari degni di nota, circondati da occhiaie, né belli né brutti, sono occhi di chi va cercando Dio dappertutto e che crede pure di sentirlo.

domenica 11 dicembre 2011

"La sirena e l'antilope."

É Morto Piero Marezzi, aveva 87 anni. L'ho letto all'angolo di via Pananti.
Non so neanche chi sia Piero Marezzi e non mi dice nulla neanche il suo cognome. Pace all'anima del povero Piero. Il fatto è che sono fissato con gli annunci mortuari, tutte le sere devo passare a vedere chi cazzo è morto.
Ci sono certe fissazioni che ormai sono diventate un vizio, mi alzo la mattina e mi chiedo: chi è morto? È una specie di rito il mio.
Come se il passaggio alla morte volesse significarmi qualcosa, come se sapendo chi ormai è morto la signora incappucciata e con la falce mi giri alla larga.
Perché sì, la morte mi fa una dannata paura.
Il problema è che non so che cosa ci sia dopo, mi dispiacerebbe marcire sotto metri di terra mangiato da bachi che s'ingozzano di me fino a scoppiare.
Da piccolo andavo sempre a messa, facevo il chierichetto, stavo composto ed ascoltavo con interesse le parole del parroco, ricordo ancora le sue mani pelose mentre spezzavano quell'ostia enorme. Il paradiso era la mia mia unica ambizione, potermi rotolare tra le nuvole era il mio unico desiderio da bambino. Mio padre credeva che mi facessi prete, mia nonna lo sperava, mia madre invece sono sicuro che avrebbe preferito vedermi morto piuttosto che devoto al Dio dei cristiani.
Ma se ci fossero davvero o il paradiso o l'inferno dopo la morte?
Domanda di una stupidità straziante. Eppure in molti se la sono posta, in molti si sono domandati cosa potrebbe succedere con la morte, se l'anima esiste, se è mortale oppure immortale.
Mi piace la concezione orfica, quella della reincarnazione, della metempsicosi, del corpo che è una gabbia nel quale le nostre anime sono costrette a vivere per purificarsi.
Ma lasciamo stare.
Ora che ci penso, un Marezzi lo conosco. Marco Marezzi è stato mio compagno alle medie per un anno prima che si trasferisse in Liguria non so a fare cosa.
Il Marezzi, alto forse meno di un metro e largo come tre di me, simpatico da morire, il Mare lo chiamavamo, aveva sempre le gomme da masticare e le regalava a tutti, forse anche lui si ricorda di me, sta di fatto che adesso io mi sto ricordando di lui.
Bene amici miei, volevate leggere qualcosa che vi lasciasse il segno? Cercavate la catarsi?
Avete sbagliato blog, l'astronauta è in una fase strana, è in un periodo che potenzialmente è ok, ma in atto è una cosa indefinita avvolta in una nebulosa fluorescente.
Adolescenza, sono scodate di un'adolescenza che proprio non vuol finire.
Finirà?
Si diventerà mai grandi?
Voi come vi sentite?
Quante domande.
Non è importante che mi rispondiate, che mi diate consigli, va bene così, mi godo il momento, ascolto il colore proibito, bevo vino e scrivo per il piacere di scrivere.
No sense.
Vedere, è questo che cerco, qualcosa che non abbia senso, qualcosa che mi lasci libero di vaneggiare quanto cazzo mi pare senza avere un dito puntato contro ed una voce stridula che mi dice che un senso, in realtà, c'è e come, e per ogni cosa.
Vivo, e spero che la vita non abbia un senso, che nulla abbia un senso, che tutto sia perché è e basta, senza calcoli o ragionamenti, senza mani demiurgiche che hanno dato ordine al caos, senza un Dio che ci dice come fare, senza un bastardo pronto ad indicarci la strada da percorrere.
Così, come un fiume in piena, voglio vivere per sempre in questa che è per me la fine dell'adolescenza, in questi giorni senza ragione, in questi momenti di follia, di completa incertezza, di vino e musica.
Voglio vivere come uno di questi miei pensieri, assurdi ed istintivi, paradossali ed in contraddizione.
Resta il fatto che Piero Marezzi è morto e forse conosco suo nipote, che la morte è forse l'unica certezza, che sono le tre di notte e non ho voglia di andare a dormire, e che forse andrò anche al funerale del povero Piero.