domenica 29 aprile 2012

"Pacchiugle."

Si fanno progetti ambiziosi, si corre in silenzio per non disturbare, sempre si resta sbalorditi dal mare. Poi si piange all'improvviso, dense lacrime ti scorrono sul viso e pensi che la tua amica ha ragione. L'amica, quale amica, di cosa stiamo parlando?
L'accappatoio irrigidito dai troppi lavaggi gratta la mia schiena rinvigorita da una doccia bollente. Un nano vestito da giullare fa roteare palline colorate alla velocità della luce. Ride mostrando denti ingialliti dalla vita. Una bionda mostra le sue forme ed il suo essere femmina ballando ad un palo che si pianta sul soffitto di uno squallido club di periferia. Panzoni sbavano affondando su poltroncine di pelle nera.
Guardi tutto con estremo interesse senza sapere il perché.
Sono tre giorni che non prendo caffè. Quattro giorni fa, sono riuscito a berne dodici e la sera avevo le palpitazioni. Ma ora ho smesso.
Stamani mi sono alzato con una parola in testa: pacchiugle. Non sapete il significato di tale parola, per un po' non l'ho saputo neanch'io. Ora lo so. Tipo per due o tre mesi, mio nonno mi ha chiamato pacchiugle. Più volte gli ho domandato cosa volesse dire, ma non mi ha dato mai una risposta seria. Ora, mio nonno, ha preso a chiamare pacchiugle mio cugino. Pacchiugle, significa buono a nulla. Mio cugino lo è perché è la terza volta che boccia all'esame della patente, io lo sono stato perché... in realtà non lo so, potrebbero essere molti i motivi. Mica che la cosa mi abbia turbato più di quanto già non lo sia di mio, è che mi sono alzato con questa cazzo di parola in testa e non riesco a toglierla.
Ma lasciamo stare, arriviamo al dunque.
Il dunque è che ho preso una decisione riguardo alle vacanze estive. Non interessa a nessuno. Allora non so cosa scrivere, dice: cazzo vuoi allora da noi? Nulla, è che sono molti giorni che non scrivo e quindi mi va. Non ne sono mai stato un granché capace, ma mi piace e non posso farci nulla.
Ho l'occhio destro che mi trema visibilmente. Oggi, me lo ha fatto presente un'amica, la quale, con fare materno mi ha dato un abbraccio e mi ha detto di prendermi una pausa. Dice che sono stressato. È stato grazie al suo consiglio che ho preso una decisione riguardo alle ferie. Ce ne andiamo sull'isola di Capraia. Io, la mia ragazza e il cane. Con due ore di traghetto, da Livorno, si arriva a Capraia.
Sull'isola non c'è nulla, parecchie capre, penso che mi porterò l'Ulisse di Joice, una canna da pesca, 2 magliette ed un costume. Basta, non porto nient'altro.
Anche mio fratello dice che dovrei rilassarmi un po'.
Il fatto è che la gente che si rilassa mi sta sulle palle, quelli che dicono di essere stressati e stanchi mi sanno di perdenti e tendo a disprezzarli. Io vado, non mi pongo limiti, lavoro otto ore al giorno in mezzo a vecchie sorde e rimbambite, la notte studio per laurearmi il prima possibile perché l'ego me lo chiede, quando ne sento il bisogno (come stasera) mi metto a scrivere, il giovedì notte vado al mercato ortofrutticolo di Novoli e torno verso le otto del mattino con il mio furgoncino pieno zeppo di frutta.
Dormo poco, studio, lavoro, faccio esami, corro.
Siete mai stati ad un mercato ortofrutticolo? Spettacolare. A parte i colori di tutta quella frutta insieme e tutto, il vero spettacolo sono i personaggi che ci lavorano. Gente completamente fuori di testa. Io sono amico di tutti, ormai sono anni che ci vado e nessuno cerca più di mettermelo nel culo, ma il loro obiettivo è quello. Sono tutti banditi, gente coi peli sul core, gente col coltello imperlato di coca, gente che se fai il grosso e vuoi fottere qualcuno, ti taglia le gomme del furgone (la prima volta), e la seconda te lo incendia. Sembra di entrare in un paese dei sogni, no, credetemi, non sembra possibile ma lo è.
C'è Nino che vende fuochi d'artificio di contrabbando; Carmelo che ha tutte le droghe del mondo nelle quantità che desideri; Walter ha ogni tipo di apparecchio elettronico che vuoi, dall'Ipad al Tamagotchi; Oreste vende armi ma nessuno lo ha mia visto di persona e si vocifera che sia biondo e colla coda.
Per non parlare delle puttane e dei travestiti, è pieno. Marco (che si fa chiamare Alexia), è diventato mio amico. Le prime volte che andavo al mercato mi guardava con aria arrapata, sembrava dire: fottimi tesoro, con trenta euro te la cavi... sei così carino.. Alla terza volta chiarii la cosa e gli dissi che non mi passava neanche dall'anticamera del cervello di scoparmi un travestito. Ora è mio amico e parla normalmente senza fare la voce da donna. Si fa sempre colazione insieme e spesso paga lui perché guadagna più di me. Ogni tanto ci facciamo anche una canna. Marco è forte, è l'unico amico frocio che ho.
C'è della gente davvero da romanzo, se un giorno ne sarò capace scriverò di loro in maniera dettagliata. Per stasera mi limito a fare un'infarinatura.
Boia, è tardi. Ho anche finito birra e sigarette.
Arriviamo al dunque, alla morale di questa favola. Morale? Non c'è né trama né morale.
Così, chiudo il tutto così senza rileggere e si va dritti sul blog. Insomma, penso che forse ho bisogno di andare in vacanza, ma ancora di più ho bisogno di tornare a scrivere con continuità perché la cosa mi rilassa e mi rende felice. Allora, rimaniamo che per questa volta sono perdonato, che sto riprendendo il ritmo, se poi vi va, chiamatemi pure pacchiugle. Corro e corro e poi eccomi quà, a perdere una notte a scrivere stronzate, col presentimento di essere un buono a nulla perché di cose ne voglio fare troppe, e tutte le prendo con un' imbarazzante superficialità credendomi uno forte, uno che non ha limiti, uno che corre.
Poi piango, sono stanco.
Mercoledì avrò anche un esame.

mercoledì 18 aprile 2012

"Metempsicosi."

Novembre 2010.

I genitori non li aveva mai conosciuti. Dal centro per l'impiego non le avevano fatto sapere più nulla e quel paese di periferia nel quale si era trasferita da ormai due anni per essere vicina al suo ragazzo, era stato spettatore della fine di quella difficile storia d'amore.
Se ne stava seduta lì, con le mani sudaticce, i capelli ancora umidi e tanta voglia di parlare di sé.
Raccolse da terra un accendino e lo strinse forte tra le mani. Tirò fuori dalla sua borsa di pelle chiaro, logora dagli anni e sfinita dai lamenti, una sigaretta. La accese delicatamente, aspirò e sputò fuori il fumo e sembrava le avvolgesse il volto, un volto stanco per la lenta giornata trascorsa e per la vita. Lasciò cadere a terra l'accendino in modo che tornasse nel posto in cui lo aveva raccolto.
Un incenso al loto emetteva una striscia di fumo verticale e inondava con il suo profumo la stanza.
Era seduta, semidistesa, su di un tappeto amaranto merlettato ai lati. Alcuni cuscini fungevano da tavolini, infatti, sopra di questi, erano appoggiati posacenere colmi di mozziconi di sigarette maleodoranti e fogli sparpagliati sui quali erano appuntati segni, o disegni, o comunque frasi apparentemente illogiche.
Logiche probabilmente soltanto a lei.
Una lacrima le solcò il viso e andò a poggiarsi sulle labbra che, bagnate, assunsero un colore nuovo.
Lottava a testa alta.
Sentiva di essere vicina alla caduta ma resisteva.
Voltò pagina al libro che stava leggendo. L'olivastra pelle di Claudia, sembrava intonata con la copertina del libro che teneva stretto tra le mani, scritto alcuni anni prima da un suo conoscente. I suoi occhi, azzurri come certe mattine di luglio, erano gonfi e rossi di lacrime. Lacrime di un malessere interiore che nessuno a parte se stessa sarebbe stato in grado di asciugare fino in fondo. I suoi capelli, neri come le ali dei corvi, ancora umidi per la doccia appena fatta, erano raccolti in una coda da cavallo.
Sfinita e con la testa indolenzita, si addormentò distesa sul tappeto.
Il mattino seguente non ricordava nulla del giorno precedente. Non ricordava di essersi fatta la doccia, di aver pianto e di aver letto. Si svegliò su quel tappeto amaranto che non le sembrava neanche il suo. Guardandosi attorno, non riconosceva i soprammobili, la struttura e i colori della sua casa. Come succede dopo una grossa sbornia, si ha difficoltà, al mattino, a capire dove siamo e chi siamo veramente.
Poi, tutto si ricollocò magicamente nella sua testa. Quella casa era la sua.
L'ampio salone etnicamente arredato e i soprammobili trovarono il giusto posto nei suoi ricordi.
L'orologio appeso in cucina, scandiva secondi che inconsciamente la guidarono a riprendere coscienza di dove fosse. Il suo sguardo restò, per alcuni istanti, ad osservare una gondola dorata che non ricordava di avere, dimenticata su una libreria, tra i molti libri che, nonostante le buone intenzioni, ancora non aveva letto. L'unico ricordo del giorno precedente era solo una sensazione di paura. Sensazione di una paura inspiegabile, sensazione di paura che fa paura. Decise che doveva lasciare quella casa per uscire all'aria aperta, per camminare e per stabilizzarsi dopo un risveglio destabilizzante. Poi però, nel momento in cui il suo piede poggiò sulla soglia della porta, fu avvolta da un malessere interiore più forte della forza di mille uomini e fu costretta a richiudere la porta appena semiaperta. Il pensiero di poter incrociare lo sguardo di qualcuno la terrorizzava, si sentiva, come non aveva mai avvertito fino ad allora, intrappolata come un baco nella sua seta. Un qualcosa la ingabbiava, era un qualcosa di astratto ma profondamente potente.
Restò ad osservare la porta di casa inebetita ed impaurita, poi si diresse in camera da letto e s'infilò sotto al piumone di piume d'oca e come un tasso nella sua tana, nella quale si sente protetto per affrontare il letargo, ci restò per tutto il giorno. Soltanto i neri capelli si vedevano sovrastare il cuscino, era infatti racchiusa in posizione fetale e solo così si sentiva protetta e al sicuro. Apparentemente invisibile agli occhi di un mostro immaginario. Quel mondo-mostro che la inquietava.
Passarono molti giorni e le sue condizioni non andarono migliorando, anzi, iniziò ad odiare il mondo e inspiegabilmente il suo odio divenne un odio nei confronti della vita in generale. Era caduta. Doveva lottare ad occhi chiusi e con le mani legate. Tutto sembrava diventato fautore di quel malessere, fautore di quell'atroce sensazione di paura di vivere. Trascorsero giorni di totale apatia, vissuti tra la camera da letto e il salotto, dunque tra il letto ed il divano. Un pomeriggio, stretta nella morsa della fame che per giorni aveva ignorato, decise di prepararsi una tazza di latte caldo. Pioveva, pioveva e pioveva. Da molti giorni dal cielo cadeva acqua e guardando all'esterno, dalle fessure della persiana, sorseggiando quel latte caldo e fumante appena preparato, i campi che vedeva in lontananza le sembravano grossi laghi sui quali la sua immaginazione figurava pescatori con berretti colorati affiancati da lunghe canne. Fumò l'ultima sigaretta rimasta nel pacchetto. Finite che furono le sigarette, dopo aver rovistato convulsamente nelle tasche dei giubbotti e nelle borse metodicamente ordinate nell'armadio, Claudia decise finalmente di uscire di casa dopo molti giorni di auto-reclusione. Decise di uscire di notte per evitare di esser vista e dunque per ridurre al minimo le possibilità d'incrociare qualcuno. Uscì alle quattro di notte, camminò per strade desolate, bagnata da una fitta pioggerella d'autunno che affrontava a viso aperto, senza ripararsene. La sensazione di solitudine che percepiva, camminando sola, le piaceva. Ammirava un paese deserto, a riposo, spento, vuoto. Meno vuoto tuttavia, del vuoto che sentiva dentro. Quella notte, la pioggia, le aveva inzuppato le ossa rendendole uggiose, l'umido l'aveva resa pesante e si sentiva come avvolta da un sottile strato di cera. Sensazione tuttavia meno opprimente rispetto all'essere sommersa nell'apatia nella quale, affannosamente, cercava di nuotare per non affogare. Comprò le sigarette ad un distributore e tornò a casa.
Osservava il mondo, quello illuminato dal sole, attraverso un sottile foglio di vetro e dalle fessure di una persiana sempre ben chiusa. Claudia abitava sopra ad una farmacia sulla cui insegna lampeggiavano i gradi centigradi presenti nell'aria e l'ora esatta, in una palazzina come tante, di quelle che non ti danno emozione e che dimentichi ancor prima di memorizzare. Gli ombrelli, colorati o no, sorretti dalle persone, avevano trasformato quel suo paese in un paese di grosse palle colorate le quali a volte si scontravano altre volte invece proseguivano fluidamente verso direzioni a lei sconosciute. Così voleva immaginarsi il suo paese: palle impazzite in un grosso flipper. Sempre tali ombrelli, davano un che di assurdo alle persone che li sorreggevano, infatti guardando la gente che rizzava il capo e inclinava l'ombrello all'indietro per leggere i gradi o l'ora lampeggianti sull'insegna della farmacia, proprio sotto la finestra del soggiorno, sembrava che gli ombrelli formassero un'aurea colorata attorno ai loro volti. Alcune persone avevano auree gialle, altre ancora celesti alcune dei colori dell'arcobaleno, come se all'acquisto di un ombrello un individuo mostrasse la parte più nascosta di sé, la più celata, la più metafisica, la più tremendamente vera.
Il quattro Dicembre quando l'avena mostra le sue prime fragili foglie, le donne zappettano le aiuole e i contadini piantano fagioli, Claudia, stanca di essere ingabbiata in un qualcosa d' intangibile, e forse da lei stessa creato, ebbe, per la prima volta in tutta la sua vita, il desiderio di morire. Di morire e attendere un tanto desiderata metempsicosi. Sperava che la sua anima potesse, una volta che il suo corpo fisico fosse morto, insediarsi nel corpo di un animale. Non le importava quale, voleva solo provare a rinascere felice nel corpo di un animale. Si fece coraggio e cercò di allontanare tali pensieri.
Come ormai era sua abitudine, uscì di notte. Si sentiva bene a passeggiare tra le auto spente, nel silenzio, avvolta nella nebbia e nel buio, mentre gli altri dormivano. Acquistava sigarette al distributore in fondo al paese ad alcuni isolati da casa sua, dove le due strade principali s'intersecano e formano un angolo.
Poteva acquistare anche generi alimentari di prima necessità come pane, latte, zucchero e uova. Non le importavano leccornie d'altri luoghi o carni pregiate, mangiava il minimo che le serviva per restare in vita.
Le sue notti le passava così, camminando, fumando e maledicendo il mondo.
Verso la metà di Dicembre, durante una delle sue passeggiate notturne, avvolta nel freddo, Claudia fu accostata da una macchina all'interno della quale sedeva un uomo. Una figura mingherlina, ben vestita e con dita lunghe che abbracciavano un volante lucido come la macchina sulla quale sedeva. L'uomo le chiese se avesse avuto bisogno di aiuto o di un passaggio, risultandogli insolito vedere una ragazza giovane camminare sola tra strade buie a quell'ora tarda della notte. Senza voltarsi per constatare chi fosse, senza incrociare gli occhi di quell'uomo, Claudia, iniziò a correre all'impazzata verso casa poi s'infilò nel portone di legno dai pomelli d'ottone e lo chiuse violentemente facendo rintronare nella notte e nell'androne il suo sbattere. Quell'uomo, poteva essere una mano tesa verso la salvezza.
Giunta affannosamente a casa, con il cuore che le pulsava a mille, iniziò a piangere e lo fece fino all'alba. Ripiegata su se stessa, si accorse di aver toccato il fondo. Non poteva andare avanti così, non poteva continuare a scappare e a piangere.
Era diventata un fantasma, sempre più chiusa al mondo e agli uomini.
Il giorno seguente, facendosi la doccia, si convinse che la soluzione a tutti i suoi problemi era quella di partire. Andare via da quel paese e da tutta la sua gente che stoltamente, secondo lei, la stavano opprimendo ed erano addendi che sommati avevano prodotto quel suo stato d'infelicità e di dolore.
Era sempre più schiacciata in un angolo.
Sabato 2 Febbraio, con la frenesia dei giorni di rabbia, trangugiò una boccia intera di vino per farsi coraggio e uscì, di giorno, per partire.
Camminò a testa china, neanche il vino bevuto le aveva dato la spinta per guardare il mondo negli occhi. Claudia teneva a tracolla una borsa riempita a caso, cose prese frettolosamente come se qualcuno la stesse inseguendo, i capelli sciolti le coprivano le spalle, passi svelti uno dopo l'altro e sigarette accese a ripetizione. Andare senza una meta precisa ma per andare e basta.
Si diresse alla stazione, arrivata che fu, prese il primo treno per Venezia.
Forse, la gondola d'orata, osservata quella strana mattina in quello strano risveglio, poteva rappresentare un luogo dove tutto il suo soffrire sarebbe finito.
Se ne stette per tutto il viaggio ad osservare le sue mani che convulsamente si strusciavano l'una con l'altra, incurante del paesaggio e di chi le sedeva accanto.
Rizzò per un attimo la testa e lesse il cartello “Venezia” che dà il benvenuto al treno e che questo ricambia con un fischio che va poi a perdersi nell'etere. Arrivata a Venezia si sentì più leggera, quel viaggio e l'arrivo in quel posto sembrava le avessero fatto bene davvero.
Ma fu soltanto un'illusione.
Il suo sesto senso la guidò verso un albergo del centro, il sole si era fatto rosso e il vento sembrava modellare i dorati canali Veneziani. Si trovò davanti a quel' albergo ed entrò. La possente porta a vetri scricchiolò nell'aprirsi, poi, una grossa molla in ottone la richiuse all'improvviso rallentandone lo sbattere poco prima della chiusura definitiva.
Stanza numero 34.
Le fu assegnata da un' anziana donna dai corti capelli bianchi e con pochi denti anneriti dal fumo, ma ciò nonostante con un aspetto caldo e familiare che sembrò confortarle il cuore. Con la mano mancina, la signora, appuntò il numero di carta d'identità su di un foglio. La penna in metallo, con la debole luce di un' abat jour in vetro di Murano, illuminava uno spicchio di poltrona posta alle spalle di Claudia.
Pronte che furono le carte, salì alcuni gradini ricoperti in moquette ed entrata che fu nella stanza si distese sul letto e con aria appagata, si addormentò con i vestiti ancora addosso e la luce accesa.
Il vento tra i canali, suonava melodie rilassanti che le conciliarono il sonno.
Poi, nella notte, aprì gli occhi all'improvviso.
Il viola cupo delle tende e le righe verticali di colore blu sulla carta da parati, sembravano soffocarla.
Si guardò intorno e credeva di sognare. Non sapeva dove fosse, come una sonnambula andò a specchiarsi in bagno: capelli arruffati, ciglia accapponate e occhi perduti che sembravano guardare il nulla, come un vecchio cieco che attende impaziente l'arrivo della morte per ricongiungersi finalmente alla moglie.
Lo specchio in cui si specchiava, rifletteva un volto impaurito, pallido, tormentato e angosciato. Specchio di quel suo malessere interiore difficile da guarire. Volto mesto e malandato, di chi ha bisogno di sfogare una rabbia e una tristezza recondita, di chi non conosce il perché di tale sofferenza.
Le tornò alla mente la mattina in cui tutto ebbe inizio.
La mattina in cui la musica della depressione iniziò a suonare ad alto volume, non più come l'eco di un'orchestra lontana, ma come vivido suono di un'orchestra presente davanti ai suoi occhi, con battute e con suoni potenti da farla vibrare.
L'unica via di scampo a quella situazione, le sembrò ancora la morte. Non ebbe tuttavia il coraggio di lasciare quel suo profondo dolore per l'ignoto.
Alcuni giorni dopo, trovò dentro di sé il coraggio di tornarsene a casa.
La sua Venezia fu la stazione e quella camera di albergo. 
Trascorse settimane intere chiusa in casa. Cercò vanamente di dare un senso a ciò che stava vivendo, tante domande ma nessuna risposta.
Il 28 Febbraio, dal cielo iniziò a cadere bianchissima neve e nel silenzio del tutto iniziò ad immaginarsi diversa. Iniziò, per la prima volta dopo tanto soffrire, a fare progetti per un possibile futuro felice, pensieri positivi per un futuro armonico. Tutto bianco intorno, neanche un passante, soltanto silenzio e luce attorno a sé, Claudia sentì che magicamente il vuoto che sentiva dentro poteva lentamente riempirsi.
Spalancò le finestre di casa come a farsi ricoprire dalla neve, come per godere fino in fondo quella sensazione di piacere che vivida sentiva dentro. Salì in piedi sul davanzale della finestra, chiuse gli occhi ed ebbe la sensazione di poter rinascere, di poter guarire quel suo spirito malato, doveva solo lasciarsi andare, gettarsi nuovamente, di schianto, nell'immensità. Sentì l'opportunità di allontanare definitivamente da sé quel dolore, sentì la possibilità di diventare farfalla. Lo fece, si lasciò andare, si lasciò cadere silenziosamente nel bianco candore che l'avvolgeva. Ad occhi chiusi pensava di volare sul mondo, di respirare e di goderne i profumi. Volava silenziosa, estasiata da quella nuova sensazione. 

Da quel giorno non smise di pensare alla sensazione di volare e di posarsi su fiori variopinti.
Dentro di sé si muoveva forte il desiderio di volare e di vivere. Voleva volare. Voleva volare felicemente. Non riusciva a pensare ad altro, era incatenata nel piacere che quel pensiero riusciva a darle.
Tutto sembrava andare meglio, la neve aveva illuminato il paesaggio e la sua dolente anima.
Il fragile corpo che l'ospitava era adesso un corpo di farfalla.
Vide cadere a terra quell'opprimente crisalide che l'avvolgeva, le spuntarono grosse ali colorate di viola, macchiate da palle tinteggiate di rosso. Lunghe antenne le spuntarono sulla nuca, si distendevano verso il cielo e puntavano dritte alle stelle.
Era successo tutto all'improvviso, aveva fatto tutto da sola.
Come un rabdomante trova l'acqua, lei, finalmente, aveva trovato la sua vera forma.
Si sentiva il corpo formicolante di beatitudine.
La triste ragazza che era, mutando e trovando il suo vero essere, si sentiva adesso attaccata alla vita nella maniera più assoluta. Inspiegabilmente e celermente restava solo un ricordo lontano del dramma che aveva vissuto. La notte lasciava spazio all'alba e lei fluttuava leggera, danzava al cospetto del sole e sentì la pace fuori e dentro di sé.
Poco le importava se poco sarebbe durato.
Era finalmente felice di vivere.
O di essere morta.

Claudia Terzilli.
21 Agosto 1984.
28 Febbraio 2010.

sabato 31 marzo 2012

"Il sasso nello stagno."

Ecco cosa vuol dire essere uno scrittore.
È essere sempre angosciati, tormentati, infastiditi da se stessi.
Significa avere coraggio, combattere senza un vero nemico, estraniarsi e provare a descrivere un mondo in continua evoluzione che non aspetta nessuno, che viaggia come un missile verso una meta sconosciuta, straniera.
Scrivere, è come essere malati.
È una patologia dell'anima.
È dondolare tra realtà e follia.
Se qualcuno mi domanda per quale motivo scrivo, rispondo sempre che non lo so.
Si potrebbe passare tutto il pomeriggio a vaneggiare sui vari perché.
Forse è essere affamati di sé, avere una continua voglia di conoscersi, cercare in qualche modo di manifestare la propria essenza e di imprimerla su di un foglio per non farla sembrare il nulla che spesso appare.
Credo che tutti gli scrittori siano dei saccenti, malinconici saccenti.
Anche egocentrici.
Io, spesso, mi resto sui coglioni.
Ma forse non sono uno scrittore.
Ho cominciato descrivendo la natura.
Il nascere di una foglia, i prati ghiacciati, il fieno ingiallito, un fiore che sboccia.
Poi, da una qualsiasi situazione nasce una storia. Se vai dal benzinaio, al supermercato, a spasso col cane, a mangiarti un panino, a bere una birra, dal dentista, o dove cazzo vuoi andare, ti si sovrappongono migliaia di dimensioni e crei un altro mondo dentro al mondo.
Essere uno scrittore significa vivere di parole, di quelle che non esistono e te le inventi, di quelle che ormai sanno di vecchio, di quelle lunghe ed affascinanti e di quelle corte ed incisive.
Stop, super, sovramagnificentissimamente, precipitevolissimevolmente.
Uno scrittore vede un fiume e gli sembra il Gange, vede un monte e gli sembra l'Everest o il Kilimangiaro.
Uno scrittore si innamora di tutte le donne che inventa e patisce perché non può farci sesso, perché non esistono, perché sono solamente nella sua testa e fatica ad accettarlo.
Uno scrittore ha sempre la febbre e vive delirando, vive la sua vita con persone che non esistono.
Uno scrittore è forse solo un pazzo, che come un sasso piatto lanciato in uno stagno saltella per un po' e poi se ne va a fondo, affonda per il suo peso, perché è così che vuole la sua natura.
È un condannato che non ha commesso alcun reato, tranne quello, un giorno, di essersi messo una penna in mano e di aver scarabocchiato un foglio che, silenzioso, chiedeva solo inchiostro.

Astronauta.

martedì 20 marzo 2012

"Ruggine"

Pietro non è più mio amico.
Pietro non è più nulla.
L'adolescenza unisce.
Crea legami profondi.
Ci siamo conosciuti da adolescenti, nella stagione del non pensare a ciò che è veramente importante, nella stagione in cui filosofeggi inconsapevolmente, dove bevi e provi tutte le droghe del mondo perché nulla è più importante del presente e te ne fotti di tutto il parlottare della gente.
Puoi fare tutto, c'è sempre la tua stagione a farti da ombrello per quello che combini.
Ci volevamo bene.
Gliene voglio ancora.
Ora è perduto in una foresta dove tutto è altro da ciò che sembra, dove non sei sicuro se stai calpestando erba o altro, dove le farfalle sono aquiloni, dove tutti i gatti sono armati e marroni, e scappi, e corri perché hai paura che tutti attorno a te siano affamati predoni.
Pietro scappa dalla realtà, fugge dalle parole, si nasconde dove non c'è il sole.
È scappato anche da me, è scappato da tutti noi.
Ho regalato lui un diario. Speravo ci scrivesse qualcosa. Non ci ha scritto nulla.
Ha perso la testa.
Ti chiedi in che modo sia potuto accadere, se sei anche tu, in qualche modo, l'artefice di tutto.
Provo sempre un grande disgusto.
A stento trattengo il vomito, ma poi mi guardo allo specchio e dico che la colpa non è mia.
Certi giorni penso che forse potevo fare di più.
Ci sono stato davvero male, tutt'ora ne porto i lividi.
Anche questo graffio nell'anima, non smette di perdere sangue.
Ho chiesto consiglio anche al mare.
Mi sono fatto due ore di macchina per sedermi silenzioso al cospetto del maestro.
Ho annusato il vento.
Poi mi sono svestito, mi son buttato tra le onde ed ho pianto mescolando le mie lacrime salate con quelle di altra gente disperata e rapita dai propri demoni.
Con gli occhi aperti, sotto l'acqua, non si vedeva nulla.
Era un continuo sciabordare, è come ritornare finalmente nel ventre ancestrale dove ti spogli da tutte quelle caratteristiche con le quali la realtà ti individua e non ti senti nient'altro che te stesso, pulito e magnifico, semplice, in ogni tuo difetto.
Mi sono disteso sul bagnasciuga, la sabbia dappertutto sul corpo.
Ho pensato che non potevo più andare avanti in quel modo, che dovevo provare a ripartire.
È facile lasciarsi marcire.
Più facile di quanto si pensi,
più semplice di lavarsi i denti,
di sputare a terra,
di dire no a una guerra.
Poi, s'arriva al punto in cui o salti o resti immobile.
Restare immobile è come farsi corrodere dalla ruggine.
Salti per non diventare come quel tuo vecchio amico.
Una volta ero ubriaco e lui mi infilò due dita in gola per farmi vomitare. Mi sentii meglio.
Io ci ho provato a farlo vomitare, l'ho portato da qualcuno che lo potesse aiutare, qualcuno che potesse farlo sentire meglio. Avevo la speranza che la sua vita diventasse diversa.
Lo vidi scappare dalla finestra e lo ritrovammo solo dopo sei ore, seduto sulla sponda di un fiume che potente scorreva a valle. Mi disse che lo volevano ammazzare, che erano tutte balle, tutto architettato per farlo fuori, che il problema eravamo noi.
Per un periodo ha dormito in macchina per paura che il lenzuolo lo soffocasse, beveva solo alle fontane per paura che qualcuno lo avvelenasse.
La sua, è stata una normale evoluzione.
Si parte colla depressione e poi si va oltre, oltre la realtà, oltre la ragione, oltre ogni esperienza dei sensi, oltre quello che credi lui pensi, oltre questa dimensione.
Polizia, ospedale, fuga, polizia, urla in piazza, polizia, ospedale, chiamate nel mezzo della notte, bruciare la propria macchina perché posseduta dal diavolo, polizia, ricovero forzato, fuga in mutande per nascondersi nei bagni della stazione, polizia, psichiatria.

Se ne sta immobile ad osservare il suo pesce rosso.
Forse crede d'essere quel pesce.
Ha sempre avuto paura dell'acqua. È annegato nella realtà.
Ora non è più nulla.
Imbottito di tutta quella merda è solo un corpo.
Non sogna nessuna riscossa, non sogna più una vita.
Forse sa che la sua è svanita, forse non sa proprio nulla.
Se solo potessi togliergli quella pietra dalla testa.
Ieri sono andato a trovarlo a casa, ha detto che non voleva più vedermi, che non ero un suo amico, che non sapeva chi io fossi.
La vita va avanti scandita dai ricordi e dalle domande, pensi che se anche il mondo è grande e pieno di gente, nessuno è come quel tuo vecchio amico.
Le cose importanti, nella vita, ti accorgi che sono davvero poche. Se poi una di queste cose la perdi malamente per la strada, guardi il mondo con occhi diversi e tutto ha un altro sapore, quello cattivo, quello della ruggine.

lunedì 5 marzo 2012

"Corri papà, vieni, prendimi!"

Ieri, sono morto.
Mi sono lasciato cadere. 

Ho sentito che il mio corpo andava giù verso il buio. 
Poi, non ho sentito più nulla. Né la terra, né le braccia dei miei soccorritori, né il caldo.
Un tuffo nel vuoto. 
Pensavo di avercela fatta.

Ma sono morto solo per un po'. 
Mi sono svegliato per l'acqua. 
Ero in una baracca torrida e lercia. In piedi, di fronte a me, il capo!
rideva e continuava a buttarmi acqua sul volto. Mi sono ripreso così.
Dalla sua bocca sdentata e grinzosa, penzolava una sigaretta.
Grasso, pelato, sporco, maleodorante, colla canottiera e gli aloni giallastri sotto le ascelle. 
Rideva ed urlava.
-Negro, alzati!
La sua voce m'è penetrata nelle ossa e nell'anima. Volevo ammazzarlo. 
Ho scaricato la mia rabbia stringendo il pugno più che potevo.
Ho chiuso nuovamente gli occhi 
nella speranza di non riaprirli mai più. 

-Alzati, negro!

Ho aperto gli occhi. Oltre la porta della baracca, ho visto che il caldo sfocava tutto.

Nel sud dell'Italia, in estate, il caldo è insopportabile.
Fa comodo pensare che noi, noi che veniamo dall'Africa, possiamo sopportare tutto.
Siamo abituati al caldo, sì, ma siamo uomini.


Bisbigliando, ho maledetto quel bastardo nella mia lingua. 
Non capiva, ma rideva colla bocca spalancata. Ho visto le sue tonsille.
Poi, ha sputato la sigaretta sul pavimento e l'ha spenta girandoci sopra la punta del piede destro
per un paio di volte.
È uscito lasciando la porta aperta. Ho sentito che parlottava con altra gente.
L'italiano non lo parlo ma lo capisco: 
Ha detto agli altri che ero solo svenuto, dovevo riposare e l'indomani avrei potuto riprendere il lavoro.

Ecco perché volevo morire, per la mia situazione, per il lavoro.

È salito in macchina ed è partito insieme agli altri. 
Io sono rimasto solo nella baracca piena di attrezzi, disteso su alcuni pancali di legno. 
Immobile, ho atteso senza sapere cosa attendere veramente.


Mi chiamo Mohammed. Ho 33 anni. Ho studiato musica.
Ho vissuto nella campagna napoletana per due anni.
Ho lasciato il mio paese per cercare fortuna, pace, una vita felice.
Ho pagato tanti soldi per arrivare qui in Italia. 
Mi avevano promesso un lavoro dignitoso, la possibilità di avere documenti regolari, 
una casa per i primi tempi. Insomma, un futuro. 
Sono un clandestino, questo rende me e i miei compagni.. ricattabili.


Saranno state le cinque del pomeriggio. 
Solo, 
nella baracca sperduta, non sapevo dove fossi. 
Mi sono addormentato. 
Ho sognato che avevo un figlio e aveva i miei stessi denti grandi e bianchi, 
anche i miei crespi capelli. Avevamo un cane. Il piccolo aveva deciso di chiamarlo Italo.
Eravamo felici. Correvamo spensierati tra le margherite che coloravano un verde prato, 
qualche albero qua e là, alla nostra destra scorreva un fiume silenzioso e potente,
in cielo nessuna nuvola.
Mi figlio correva e mi diceva
  • corri papà, vieni, prendimi!




Mi alzai colla schiena dolorante, la pancia vuota.
Avevo fatto un bel sogno. 
Era notte, si erano dimenticati di me.
Correre spensierato col proprio figlio, per noi, è un'utopia:

Abitiamo in una baraccopoli, è un vecchio complesso industriale abbandonato 
e ci stiamo in più di mille.
Non abbiamo né bagni né elettricità.
Le condizioni igieniche sono disumane, non abbiamo medicine, i topi vivono con noi. 
Buttiamo l'immondizia da una parte e poi la bruciamo quando è tanta, allora i topi escono dalla montagna e s'infilano nei nostri giacigli logori. 
Siamo ammassati come bestie.
Mangiamo poco e quel poco siamo costretti a comprarlo da chi ci tiene rinchiusi. 
In inverno, specialmente di notte, fa un freddo da morire.
Ci pagano 10€ al giorno per lavorare dalle 4.30 del mattino alle 17 del pomeriggio, nei campi.
Dal nostro villaggio non possiamo uscire. 
Se ci vedono per strada, o ci riportano dentro o ci fanno fuori. 
“Se ti vede la polizia, vieni rimpatriato”. Almeno così dicono.
Noi non siamo uomini liberi, siamo schiavi.
Non c'è scampo. Appena arriviamo ci smistano.
Le donne, o al tessile, o a fare le puttane. 
Anche gli uomini sono divisi in due gruppi: muratori e contadini.
Se fai fortuna e si fidano di te, finisci a spacciare da qualche parte d'Italia, magari al nord.



Si sono dimenticati di me
in una baracca sperduta nella notte:

Ho pensato che morire e provare a scappare stavano sullo stesso piano, 
e che forse, scappando, avrei potuto avere una minima possibilità di vita nuova. 
I miei amici, mi avranno dato sicuramente per morto. Ma sono morto solo per un po'. Anche se loro non lo sanno.

Rinvigorito dal sogno di avere un figlio, un cane dal nome Italo ed una vita spensierata, 
ho iniziato a correre verso nord, lungo i campi, seguendo la stella polare.
Lasciandomi alle spalle la terra del dolore e della schiavitù, 
correvo come se mio figlio fosse davanti a me e dovessi inseguirlo per gioco e poi potessi abbraccialo forte.
Il sole sembrò emergere dalla terra quella mattina. 
L'alba mi sorprese a correre guardingo verso il mio futuro. 

Arrivai ad una strada, mi accasciai sul ciglio per non essere visto. Attesi lì che il sole tramontasse e che fosse ancora notte. Alcune piante mi protessero dalla calura del giorno. 
Non passò una macchina.
La luna illuminava un paesaggio suggestivo e, le stelle, mi sembrava di poterle toccare.
Davanti a me, sospesa in cielo, la mia guida.

Ripresi la mia corsa anche se più lentamente. La debolezza si faceva sentire.
Mi bruciavano i piedi. Ma noi, noi negri, siamo maledettamente tenaci e resistenti.

Senza accorgermene, mi trovai davanti ad una casa. Una lampada sorretta da un braccio in ferro emetteva una fioca luce che illuminava debolmente un piazzale sassoso. 
Dei grilli cantavano scandendo un ritmo regolare.
Solo una delle sei finestre era illuminata.
Mi appiattii a terra. Mi avvicinai strusciando. Nel parcheggio, solo una vecchia jeep. 
Andai sul retro della casa nella speranza di trovare qualcosa da mangiare o da bere.
Poi un cane iniziò ad abbaiare all'improvviso.
Avevo il cuore in gola. Restai immobile. Vidi che era legato.
Non smetteva di abbaiare. Un'altra luce si accese. Mi gettai verso la veranda:
Avevo visto, sul tavolo una busta.
La presi al volo e corsi dietro la jeep. Restai immobile.
Dalla finestra, la testa di un uomo uscì sospettosa.
Si guardò attorno. Poi chiuse la finestra. La luce si spense.
Attesi ancora un po'. Forse un'ora. Avevo la busta tra le braccia. 
Mi alzai e presi a camminare tutto aggobbito. Passi timorosi e felpati come quelli di un gatto.
Camminai finché la paura e il tremore alle gambe non passarono.
Urinai. Pare che urinando, scenda la tensione.
Mi nascosi in un canale per lo scolo dell'acqua.
Aprii il sacchetto, dentro ci trovai i resti della cena:
bucce di frutta, pezzetti di pomodori che forse ero stato proprio io a raccogliere, 
bottiglie vuote e poi tanta plastica.
Ci trovai anche una busta di latte, ce n'era dentro forse solo un dito: 
Mi sembrò il più buono della mia vita.

Ripresi a camminare.
Raggiunsi un paese ma ci girai alla larga. Poi arrivai ad una strada larga e ben asfaltata.
Macchine sfrecciavano ad alta velocità.
Seguii quell'enorme strada fino ad una stazione di servizio. Alcuni camion erano parcheggiati.
Trovai una fontanella e finalmente mi dissetai. Avevo la pancia piena d'acqua. 
Mi lavai anche un po'.
Era notte, ma fece presto giorno.
Alcuni tizi scesero dai loro mezzi, il bar della stazione di servizio accese le sue luci.
Non sapevo cosa fare.
Ai lati della strada, c'erano mucchi di carte carte. Cercai qualcosa da mangiare ma non trovai nulla.
Un uomo tarchiato e tutto tatuato aprì il retro del suo camion bianco, entrò dentro ed uscì quasi subito. Lasciò la porta socchiusa mentre andò alla fontanella a lavarsi il viso. Sputò sull'aiuola uno sputo catarroso che fu subito assorbito dalla terra.

Allora, mi venne in mente di saltare su quel camion, di lasciarmi inghiottire dalla strada come quello sputacchio s'era fatto inghiottire dal terreno.


È tutto pieno di scatoloni e c'è puzzo di chiuso.
Io sono qui racchiuso in questa gabbia buia che spero possa guidarmi alla libertà.

Sento l'asfalto sotto di me. Ho ancora nel naso l'odore del tormento.

Proprio ieri sono morto, ieri che ero ancora uno schiavo.
Ieri, era qualche giorno fa.

Ora proverò a dormire un po'.
Non ho più voglia di morire.
Questa mia maglia di una squadra di calcio italiana, è polverosa e puzzolente.
Mi tocco la pelle. Forse, la nostra colpa, sta nel suo color


Ieri era qualche giorno fa
Non ho più voglia di morire:

Avrò una moglie, faremo un figlio ed avremo un cane.
O forse non arriverò da nessuna parte, forse resteranno soltanto parole.

Ora proverò a dormire un po', penserò a tanti eleganti violinisti che suonano dove mare a cielo sembrano incontrarsi, dove l'armonia tocca il centro dell'universo. 

Mi sento felice.
Sto correndo da mio figlio.











domenica 19 febbraio 2012

"Odore."

Ne ebbi un primo avvertimento mentre mi mettevo la gelatina nei capelli e sforzandomi sorridevo allo specchio.
Faccio stretching facciale ogni mattina, preparo così la bocca a starsene sorridente per tutto il giorno.
Sentivo i muscoli affaticati, gli occhi pesanti, freddo alle ossa, nausea e vertigini.
Ma nulla di strano. Quando vengono quei cani dei miei amici a cena si fa sempre mattina e si sa, in gruppo, si è tutti più inclini all'abuso.
Quel disgraziato di Nino, nel fine settimana, era stato con la sua tipa in un monastero ed aveva comprato uno strano liquore al sapore d'abete. Mica una bottiglia, sei. E ce le siamo bevute tutte.
Eravamo in quattro.
Normale sentirsi poco bene il giorno dopo.
Ma c'era odore di nuovo quella mattina. Ne ero certo.
Non era odore di scarpa nuova, né di macchina nuova, né di libro nuovo.
C'era profumo di vita nuova.
Quella mattina, sbadigliavo e sorridevo allo specchio guardandomi i denti che mi sembravano più storti del solito.
Il nuovo dentifricio alla menta mi lasciò un alito stranamente piacevole.
Di solito, mi puzza il fiato e me ne vergogno. Durante il giorno uso le caramelle al mentono ed eucalipto, mi sembrano le uniche capaci di alleggerirmi l'alito.
L'odore di nuovo non era dovuto al nuovo dentifricio, ci pensai, ma non era quello.
Preparai il caffè e tutto sembrò identico a sempre, gli stessi gradi per la casa, la stessa poca luce, la solita pisciata del cane sul pavimento al lato sinistro del divano, i calzini uno qua e uno là e bicchieri un po' dappertutto. E lo stesso tanfo di posacenere che aveva ormai impregnato le tende e la carta da parati a righine verdi.
Tutto, insomma, come ogni santa mattina.
Tutto tranne qualche buco in più nel muro vicino al bersaglio per le freccette che mio cugino mi regalò lo scorso Natale perché io mi allenassi ed andassi poi con lui a fare i tornei.
Ma non ci andrò mai, glielo dissi subito e glielo ripeto ogni volta che varca la porta di casa mia ed osserva i dardi piantati sul bersaglio.
Da tre giorni, c'era la neve in ogni luogo che la mia vista potesse vedere. Tanta neve. Mai vista tanta così in vita mia.
Affacciandomi alla finestra, vidi un tizio dal buffo cappello col paraorecchie in pelliccia di coniglio che, con gesti ampi, sembrava intento a seminare qualcosa davanti a sé.
Lo guardai meglio, aveva la sigaretta ficcata nella bocca, un giubbotto arancione, delle scarpe da montagna e dei guanti da lavoro. Spargeva sale sul marciapiede.
Mi venne in mente il mio amico Carmelo, il quale era stato tutta la sera a spargere consigli a tutti noi.
Ad un certo punto mi fece uggia e gli dissi di non cagare il cazzo con le sue fesserie e di andare a farsi prete o diacono se voleva andare in giro per le case a dire che “quello sì!” e “quello no!”, o cose come “sbagli a fare così”, oppure “dovresti provare a fare in questa maniera”. Odioso davvero.
Bevvi il caffè restando inebetito ad osservare l'uomo del sale. Un vero professionista.
Mi calzai gli scarponi e scesi le scale con due sacchetti pieni di bottiglie nella mano sinistra.
Nella mano destra il guinzaglio del cane ed un libro di Joice che un tizio che studia con me mi aveva consigliato e che poi ho comprato via internet risparmiando qualcosa rispetto a quanto lo avrei pagato in libreria. Ma ancora non l'ho letto e se ne sta nell'armadietto del lavoro insieme a grembiuli e cappelli da salumiere.
Il cane mi trascinava con forza per andare ad orinare. Nell'androne rischiai di cadere.
Non lo sciolgo mai, il cane. Lo trascino col guinzaglio.
Povera bestia. Povero Teo.
Da quando quel topo del mio jack russell attaccò la pelliccia di visone di una vecchia signora, sbranandogliela tutta, ha perduto la mia fiducia.
In un certo senso lo comprendo, credo l'abbia fatto per dare una lezione a quella strega. Se vedessi in giro qualcuno con una pelliccia di pelle di umano addosso, probabilmente farei la stessa cosa.
Insomma, però quella sua bravata m'è costata un botto di soldi. Pensai anche di vendere un rene per risarcire la donna dagli orecchini dorati che, quando mangio tanto, la sogno ancora mentre sbraita e mette su una tragedia con gli altri clienti del bar che fanno il coro e muovono le mani a tempo. Una vera tragedia.
Peccato che mi pietrificai mentre mi vociava sul viso, sennò avrei potuto darle un destro e lasciala a terra col mio cane a strapparle il visone. Lo dico per dire, non ne sarei capace.
Sono rimasto traumatizzato da quell'episodio.
Dovrei farmi vedere da qualcuno capace, non posso essere terrorizzato dalle donne colla pelliccia. Credo sia abbastanza semplice come problema, con poche sedute dovrei uscirne, ma forse anche senza.
Un altro problema, è che ho paura ad uscire di notte, da solo.
Anche Teo, la sera, lo lascio pisciare in casa.
Da quando un gruppo di naziskin mi spaccò di botte, alcuni anni fa, ho paura ad uscire.
Una di quelle carogne con la testa rasata so anche come si chiama: Paolo Bassi.
E so anche dove lavora e dove abita.
Questo racconto parla di Lui.
Mi picchiarono per divertimento, non gli avevo fatto nulla di male, erano ubriachi e forse gli aveva dato noia che fossi passato davanti al loro pub, lo Skrewdriver.
Sapevo una sega che quello era un posto da evitare, non sapevo cosa fosse lo Skrewdriver.
Pensavo significasse solo cacciavite. Mi sbagliavo.
Era una sera di febbraio, avevo diciassette anni, a quei tempi uscivo con un certa Sara che aveva due anni più di me.
Sara abitava vicino allo Skrewdriver, i suoi genitori non erano mai in casa e la sera andavo sempre da lei. Poteva dirmelo quella troia di non passare da lì, poteva dirmi di passare da via Corsi e non da via Pananti.
Mi fecero il viso viola quei bastardi, mi slogarono una spalla, mi ruppero tre costole ed il polso destro.
Ricordo le loro Dc. Martens coi lacci bianchi che mi colpivano il petto, i loro jeans arricciati, quelle bretelle che si muovevano nell'aria fredda della notte più fredda della mia vita, per poi sentirle frustare la mia testa ed il mio corpo dolorante.
Ricordo i loro tatuaggi, quelle ragnatele ai gomiti (erano a mezze maniche nonostante fosse inverno), volti di cane, rose, cuori, spade, rondini.
Tornai a casa e sembravo un altro. Non ce la feci ad arrivare con le mie gambe, mi ci portò un tizio che mi trovò mezzo morto vicino alla sua Panda. Gliela insanguinai tutta. Voleva portarmi all'ospedale ma poi lo convinsi a portarmi a casa. Salii le scale con una lentezza lancinante.
Mia madre si svegliò perché mi sentì piangere in bagno, non riuscivo a spogliarmi, mi guardò e dopo mille domande mi portò di forza all'ospedale.
Scesi le scale sorreggendomi da un lato al corrimano e dall'altro a mia madre.
Ero messo male.
Mi fecero una tac, m'ingessarono il polso, e poi mi tennero in osservazione per tutta la notte.
Parlavano di denunce, volevano sapere chi era stato a ridurmi in quel modo, ma io non dissi nulla. Mia madre insistette per qualche tempo ma poi si arrese.
Ora lo sa.
Conoscevo anche il padre di Paolo Bassi, Settimio, sapevo chi era ma non lo salutavo.
E Sara la chiamo troia perché l'ho beccata a fare un pompino al suo ex.
Una vera troia con la t maiuscola.
Gettai il sudicio nel cassonetto, e poi m'addentrai nel cortine per andare al lavoro.
L'aria fredda e pulita mi fece sentire meglio.
Lasciavo le mie impronte sulla neve ghiacciata, Teo anche. La neve gli dava quasi al muso.
Erano le otto e quarantacinque. Dovrei entrare alle otto, ma arrivo quasi sempre verso le nove. Mi resta più comodo.
Entrato in bottega, i colori accesi della frutta e della verdura mi fecero venire le vertigini più di quanto già non le avessi. L'odore del sugo sul fuoco e della polenta, mi strinsero lo stomaco e ebbi un insulto di vomito che sapeva d'abete. Maledissi Nino.
Quella sorda di mia nonna (comprensibile, ha 83 anni ed odia l'apparecchio acustico), se ne stava aggobbita colla sua vestaglia celeste a togliere le foglie vecchie dall'insalata e bisbigliava qualcosa a bassa voce.
Pensai che stesse dicendo il rosario, forse era così.
È alta poco più di un metro mia nonna, grassoccia, ha i capelli corti e sempre pettinati, gli occhi verdi come mio padre ed è simpatica.
Le andai vicino e le dissi -buongiorno!
Mio padre sbucò dalla cucina col mestolo della polenta in mano e prima ancora che mi togliessi il giubbotto e mandassi il cane in giardino, mi mandò a quel paese per il ritardo. Ma lo fece sorridendo e capii che non era incazzato.
Mia nonna alzò lo sguardo e lo riabbassò in un istante prima ancora che potessi vedere che colore di rossetto avesse sulle sue graziose labbra grinzose.
Verso le undici consegnai la spesa all'antipaticissima signora Costi (non mi lascia mai mezzo euro di mancia) e abita in un palazzo nel quale c'è sempre puzzo o di fritto o di minestrone.
Poi stetti in bottega a servire gente col mio sorriso splendente stampato sulla bocca.
Sono un professionista, alleno la bocca ogni mattina.
La gente viene a fare la spesa da me perché dicono che trasmetto serenità. Dovrò spiegargli, un giorno, che sono un attore nato.
E poi mi diverto con tutte quelle vecchiette (età media 70 anni), sorrido anche per questo.
Improvvisamente, accompagnato dal suono delle campane che rintoccano il mezzogiorno, sentii nuovamente quell'odore. Profumo di nuovo, di vita nuova.
Lo respirai a pieni polmoni, allargai le braccia come dopo una corsa e chiusi gli occhi per gustarlo.
Mi vene in mente la notte in cui fui pestato dalle teste rasate, mi venne in mente Paolo Bassi.
Tutte le volte che l'ho rivisto, ed è capitato spesso, sempre vestito di nero come le olive per fare il pollo alla cacciatora, ho sempre avuto timore di lui.
Però, una volta ho sognato che andavamo insieme a pescare, soli io e lui, ed eravamo amici.
I vetri del negozio erano appannati ed aprii la porta per vedere all'esterno.
In lontananza, vidi un tizio col cappotto giallo ed un berretto bianco. Camminava a testa china sulla neve che nel frattempo si era un po' sciolta.
Aveva una camminata che mi ricordava qualcuno.
Non diedi troppo peso alla cosa, ma seguii con lo sguardo quella figura che poi scomparve come inghiottita dalle case dal tetto innevato e dai balconi senza fiori.
Vennero pochi clienti quella mattina, Teo stette per tutto il tempo nella sua cuccia e lo vidi uscire solo un paio di volte per ingiallire la neve.
Finii di lavorare e non ero stanco.
Andai a fare due passi verso il centro.
Il mio cane decise di defecare proprio davanti agli annunci mortuari nei giardinetti innevati di via Bonaparte. Alzai lo sguardo e lessi:
Lunedì 12 Febbraio assistito amorevolmente dai suoi cari cristianamente è mancato
SETTIMIO
BASSI.
Di anni 67.
Ne danno il doloroso annuncio i figlio PAOLO e FRANCO, i nipoti MICHELE e GIULIA , il fratello PIERO, i cognati, i nipoti, la suocera e i parenti tutti. I funerali avranno luogo Giovedì 15 FEBBRAIO alle ore 10.00 nella Chiesa di San Lorenzo ove il caro Settimio arriverà dall'ospedale. Dopo le esequie si proseguirà per il cimitero locale. Il Santo Rosario verrà recitato Mercoledì 14 Febbraio alle ore 17.30 in Cappellina.

La scorsa settimana, era morto il padre di Paolo.
Mi dispiacque.
Camminai pensando a non mi ricordo cosa, avevo la testa vuota.
La neve sporca ai lati delle strade aveva strane sfumature marroni.
Poi mi sbucò davanti quell'uomo col cappello bianco e il giubbotto giallo.
Fui avvolto da un'incantevole fragranza che sapeva di fiori e placenta, di latte e meraviglia, morbida come il cachemire, leggera e confortevole come il fuoco nelle case di campagna mentre fuori piove.
Il mio cane iniziò ad abbaiare insistentemente, poi si distese per terra e voltò la pancia verso il cielo.
Lo avevo sempre visto col bomber nero e la coppola in testa, jeans stretti e stivaletti neri.
Non lo riconobbi subito, ma quella camminata era la sua, quegli occhi erano i suoi.
Era Paolo Bassi.
Si era tolto il nero d'addosso e ne aveva tolto un po' anche al mondo.
Pensai che la morte di un caro costringe a guardarsi dentro, costringe a riflettere, separa il bene dal male, purifica l'anima, costringe gli uomini a diventare uomini nuovi.
Mi piace pensare che Settimio abbia scelto non di rinascere da qualche altra parte del mondo, ma abbia deciso di dare un profumo diverso alla vita di suo figlio.
Spero sia davvero così.
Resta il fatto che mentre mi mettevo la gelatina nei capelli, appena sveglio dopo una cena tra amici,
ne abbi un primo avvertimento.
Poi tutto mi fu chiaro appena lo vidi, era un uomo nuovo che profumava di vita nuova.
Forse diventeremo amici, forse andremo insieme a pescare, forse la sera porterò fuori il cane.

Stasera ho scritto questa storia, è la storia di un ragazzo che sa di nuovo.

martedì 31 gennaio 2012

"Cagna, dove sei?"

Boia della miseria.
Dove sei, cagna?
È che non trovo la musica giusta, quella, per intenderci, capace di liberarmi la scimmia.
Guardo l'orologio anche se il tempo non mi ha mai ossessionato. Lo guardo e pare guardarmi anche lui. Ci guardiamo.
Poi mi osservo le dita e vedo che ho le unghie lunghe. Penso che prima di andare a letto me le dovrei tagliare. Non uso le forbicine. Uso il tagliaunghie e mi piace che le unghie schizzano dappertutto per il bagno. Poi m'incazzo se la mattina ne pesto una col piede scalzo. Dormo solo con un calzino e l'altro piede lo lascio come mamma me lo ha fatto.
Dormo così, c'è poco da fare, nudo e con un solo calzino. Preferisco coprire il piede sinistro.
Eppure stamani ero ispirato, m'ero appuntato anche alcune parole per scriverci un racconto.
Frugo in tasca dei pantaloni. Ci trovo uno scontrino, un accendino rosso, un lapis Ikea, 40 centesimi, del tabacco, le chiavi di bottega, quelle della macchina e nient'altro.
Del fogliettino sul quale avevo appuntato l'idea non c'è traccia. Porco cane.
Stamani al lavoro ero depresso. Non avevo voglia di sorridere e servire gente.
Avevo solo voglia di scrivere. La signora Rossi se n'è accorta e mi ha domandato se mi sentivo male.
Le ho risposto che avevo solo sonno. In effetti avevo anche sonno, ma ancora di più volevo starmene a casa a scrivere.
Negli ultimi tempi sto scrivendo poco. Scrivo tutti i giorni ma poco, roba come due o trecento parole e nulla di più. Sto perdendo il ritmo, ecco, del ritmo sono ossessionato, di tutti i ritmi.
Apro un libro a caso dalla libreria.
“Neanche se avessi cento lingue e cento bocche e una voce di ferro potrei enumerare tutte le forme dei pazzi, passar in rassegna tutti i nomi assunti dalla Pazzia”.
Erasmo è troppo forte. Lo rimetto nella libreria.
Poi spengo il computer.
Vado a letto da vinto. Poi le unghie non me le sono tagliate.
Penso che forse il foglietto che cercavo è in tasca del giubbotto. Mi aggrappo a questa sottile speranza, non mi arrendo, ho la testa completamente vuota e forse quel foglietto può aiutarmi.
Mi alzo a vado a cercarlo. La mia ragazza russa come una dannata.
Non c'è nemmeno nel giubbotto.
Mi viene l'ansia, non è certo colpa del mancato ritrovamento dell'appunto, ho l'ansia perché non capisco dove diavolo sia andata quella cagna.
Eppure l'ora era quella giusta, quella che dà l'inizio al nuovo giorno.
E la casa era pulita.
Scrivo di notte dopo aver pulito casa, altrimenti non mi concentro.
Guardo nuovamente l'orologio, sono le una.
Stasera nulla, si fa passo e la cosa mi brucia da morire.
Vado in bagno a tagliarmi le unghie e mi rendo conto di avere davvero l'ansia.
Decido di vestirmi ed uscire.
Non sveglio quell'essere russante perché sennò si crede che vado a fare il ganzo con le ragazzine e mi rompe.
Mi chiedo come possa fare con un corpicino come il suo ad emettere un rumore così forte.
É tremendamente sproporzionato.
Mi pento subito di essere uscito, la nebbia è fitta e non si vede un cacchio nulla.
Ho messo le Converse e mi fa freddo ai piedi.
Attraverso i giardini col collo dentro le spalle.
Aggrovigliati come piante rampicanti ad un palo della luce, due ragazzini stanno limonando con passione.
Ora la ragazzetta bionda è a cavalcioni sul ragazzo e i due si muovono lentamente e con costanza. Bravi, penso che fanno bene.
Attraverso la strada.
Cammino sul marciapiede e le mattonelle mal fissate a terra producono una strana melodia.
Sembra di camminare su una pianola metropolitana.
Ad un certo punto torno anche indietro per pestare con la punta del piede sinistro uno strano tasto dal suono tutto particolare.
Bello, la cosa mi gasa e aumento i passi: c'è un bel ritmo.
Sotto il giubbotto ho ancora la maglia del pigiama.
Mi ritrovo all'angolo di una strada e vedo che c'è un locale aperto.
La musica che vi proviene sembra ovattata dalla nebbia.
Mi avvicino. Un gruppetto di tipi tutti molleggiati se ne sta davanti alla porta a fumare. Chiedo una sigaretta. Un galletto con la cresta rossa me ne dà una e mi fa pure accendere. Penso che è gentile.
Finisco la sigaretta, la butto ed entro.
Le luci sono basse e strane scritte tappezzano le pareti amaranto. C'è davvero una bella musica.
C'è profumo d'incenso, al bar ci sono giovani bariste che ballano e preparano colorati intrugli.
Mi avvicino alla consolle dove una scatenato mette i dischi e tiene il ritmo con la testa pelata.
Ci saranno cento persone.
Quella melodia mi avvolge e mi coinvolge, con la mano sinistra che muovo a mezz'aria seguo il tempo.
Un tizio mi dà una pacca sulla spalla e mi porge il suo bicchiere, mi sorride e mi dice di bere.
Bevo e lo ringrazio.
Ho caldo ma non posso togliermi il giubbotto.
Noto una ragazza con un culo delizioso che muove i fianchi come una dea, ha i capelli ricci e biondi che arrivano poco sotto le sue spalle minute. Ha una maglietta grigia, una gonna nera, degli stivali di un colore indistinguibile e un culo da sogno.
Un ragazzo mi porge ancora da bere, non conosco nessuno ma mi sento a casa.
La musica è potente e veloce.
Tutti si vogliono bene. Vorrei prendere qualcosa da bere tutto per me, ma mi rendo conto di non avere soldi.
Poi magicamente mi trovo in tasca un pezzo da cinque e decido di spenderlo per una birra.
Non mi viene in mente niente di poetico, nessuno spunto per scrivere, nulla di nulla. Però non ho più l'ansia.
Mi siedo. Una ragazza si siede al mio fianco e porgendomi la mano dice di chiamarsi Olga.
É la ragazza che si muoveva come una dea, quella col culo perfetto.
È davvero carina. Ha gli occhi verdi e gli stivali grigio topo. Le rispondo dicendole che sono Pino.
Mi piace inventarmi i nomi e fare il coglione con le persone che non conosco. Mi piace mettermi un numero illimitato di maschere, è un po' come abitare lo stesso corpo e far vivere tutti i propri sé quando uno vuole. Lo faccio spesso. Direi che è il mio passatempo preferito.
Mi dice che studia moda.
Le dico che il termine moda deriva dal latino modus, che significa melodia, maniera, tono, tempo, ritmo.
Mi guarda sorpresa.
Mi chiedo che cosa caspita abbia studiato.
Le dico anche che il primo ad usare il termine moda con il significato attuale fu un abate in un trattato del 1600 e rotti.
Mi sorride mostrandomi tutti i denti bianchi e piccini, poi mi dice: -ma allora sei uno studente di storia!
Grattandomi la testa riccioluta le dico una mezza verità:- no! Sono Pino e faccio il salumiere.
Non ci crede, e giocherellando col bottone del mio giubbotto fa una stupida vocina da bambina demente e mi dice di non prenderla in giro.
È ritardata, ne ho la conferma.
La lascio con una stupida scusa e mi dileguo verso il bagno.
La gente balla anche nel bagno, anche mentre orina. Ai lati del water c'è un centimetro andante di piscia.
Esco dal bagno e dal locale, ho ancora la birra in mano e la bevo in un sorso.
Il bicchiere penso di portarmelo a casa, di lavarlo e metterci l'acqua per la notte. È bello capiente. Un bicchiere normale non mi basta mai.
Quella cagna non era nemmeno lì, non era a farsi offrire da bere da tizi sconosciuti, non è stata a pisciare sul pavimento, non ha conosciuto Olga.
Torno verso casa.
Con la nebbia perdo un po' l'orientamento. Mi accorgo di non avere le chiavi. Sono uscito di casa proprio come un cane. Sulla panchina i due che facevano petting non ci sono più. Forse lui è venuto.
Arrivo davanti al portone, ho la chiave di scorta nella cassetta della posta e la inserisco nella toppa cercando di non fare tanto rumore.
Tolgo le scarpe per attutire il rumore dei miei passi.
Dalla camera proviene musica di sonno profondo.
Mi metto alla scrivania e decido di scrivere per forza.
Ma il foglio bianco mi mette in soggezione e il cursore lampeggia con una cadenza regolare che mi dà sui nervi.
Mi viene da pensare a quella tipa che dice di studiare moda, carina sì, ma non basta per conoscere il mio vero nome. Non lo vado a dire in giro a tutti i ritardati che incontro.
Olga, la santa idiota col culo benedetto.
Sono ormai le tre del mattino.
Mi arrendo.
Quella cagna aveva bisogno di starmi distante per un po', di disintossicarsi.
Chissà dove diavolo è adesso, chissà se tutte le cagne, stasera, si son prese una pausa dagli uomini della terra e hanno deciso che il 31 gennaio è il loro giorno di riposo.
Saranno forse in sciopero?
Se almeno ci fosse un sindacalista domanderei a lui.
Andarsene così, senza dire nulla, non va bene.
Quando torna deve chiedermi perdono, deve scusarsi in ginocchio e deve farmi scrivere qualcosa di forte.
E se domani non torna? Se sta con qualcuno per un po' e poi se ne va all'improvviso?
Voglio, se torna, che chieda alla lampadina che adesso è al mio fianco quanto sono stato male.
Cagna, dove sei?
La disperazione prende il sopravvento.
Mi spoglio tutto e per cambiare decido di lasciarmi il calzino destro.
Abbraccio il corpo russante e provo a dormire, a lasciarmi cullare da quella sua melodia.
Cerco di non pensare al fatto che la mia amante è andata via senza dirmi nulla.
Non dirò nulla alla mia fidanzata, mi prenderebbe per pazzo.