mercoledì 4 luglio 2012

"Ciao!"

Ho bisogno di una casa in campagna. Accidenti a me e quando mi sono voluto trasferire in paese. Cretino. Se vi dico il motivo mi prendete per pazzo. Già, lasciamo stare i pazzi. Sì, c'entrano i medici ma non sono quelli. Sodi. Non c'entra un cazzo Firenze. Basta. Accidenti a me e quando sono infilato in questo ginepraio. Voglio tornare in campagna, non ne posso più del paese, della pulizia delle strade, del pub sotto casa e dei discorsi dei briachi che sento la sera tardi. Anche cane e gatto stanno meglio in campagna. 2 anni in questo bilocale e mi sono esaurito. Avete visto che situazione questo blog? S'è toccato il fondo. Un blog ce l'ha anche il mio cane. Anche suo fratello. Con tutto il rispetto. Penso che lo chiuderò. Nei vostri blog non ci metto piede da una vita e sinceramente non ne sento la mancanza. Solo in pochi scrivono cose interessanti. Poi, siete permalosi da fare schifo. Se uno non lascia un commento una volta, lo dimenticate. Questo dimostra che nei commenti siete più falsi delle tette di luxuria. Tutti a dire bravo qui e bravo là, ti seguo con interesse e blablablaa. Poi quando c'è da leggere qualcosa di più lungo o di scrivere un commento serio, scappate subito. Racconto lungo uguale untore. Dagli! Dagli! La mia ragazza ha il ciclo. Ne risento anch'io. Nervosetto. 'sto computer s'inceppa. Palle. Insomma, la casa in campagna l'abbiamo trovata. Tra poco ci trasferiamo. Sono il re dei traslochi. 14 in 23 anni. Già, tra poco sarà il mio compleanno. Ne faccio 24. Auguri. Volete sapere perché mi sono trasferito in paese? -No! Dice la biondina colla frangia, quella del blog tutto verde stile sala parto. Ciccia non rompere, scrivo quello che voglio. Se l'è presa. Mi dilungo in queste cazzate e perdo il filo del discorso. Telefono. -No mamma, ancora non ci sono andato, andrò lunedì, sì ci vado, dai mamma ci vado e stai tranquilla dai, ora ti lascio che sto scrivendo una cosa, sì ciao ciao. Dottore. Esami sballati. Trigliceridi troppo alti, altissimi. Lunedì andrò a farmi vedere. L'ho visto 2 volte in tutta la mia vita, il dottore. Il motivo per cui mi sono avvicinato alla civiltà è semplice. Pensavo che i pensieri fluttuassero guidati da una qualche corrente, che partissero da noi per poi spargersi nell'aria. Stando vicino a tante persone, pensavo di poterli sfruttare. Cazzata tremenda. Teoria assurda. Scrivo meno e penso meno. Certo è più comoda una casa qui, ma non me ne frega una sega della comodità. Torno a vivere in campagna. Sono stanco di sentire questi di sopra che scopano come conigli e litigano come palestinesi e israeliani. Per non parlare dei motorini smarmittati che fanno un casino boia. Basta!! Torno in campagna, con la rugiada che mi bagna. Se poi non c'è, va bene uguale. Questo per dirvi che con internet mi dovrò sistemare, mi sto informando, se costa tanto lascio stare. Piacere di avervi conosciuto. Vuoi mettere scrivere e studiare immerso nella natura? Dai, non c'è storia. Ma ancora c'è tempo, forse qualche mio altro racconto lo leggerete. A presto, forse.

sabato 16 giugno 2012

"Il capo"


La sua penna se ne stava sospesa ad un centimetro dal foglio. Non che non sapesse in che modo riempire un qualche bollettino, o non sapesse l'indirizzo per spedire una qualche lettera. Scrivendo, non avrebbe rispettato l'ordine. Il capo, era stato chiaro con quella sua voce intensa e viscerale: “scrivi solo quello che ti dico io”. Cosa sarebbe successo nel disertare tale ordine, il ragazzo dai folti capelli ricci, non lo sapeva. Era combattuto, la penna tremava tra le sue mani sudate, il foglio color panna attendeva impaziente che l'inchiostro si posasse su di sé. Si stropicciò gli occhi ed un ciglio cadde sul suo zigomo destro. Era seduto alla sua scrivania e la lampadina puntava dritta sul foglio e sembrava sbirciare, curiosa, quello che il giovane ragazzo si apprestava a scrivere. Dissidente. Questo sarebbe stato scrivendo quello che sentiva di scrivere. Il regime, prima o poi, lo avrebbe scoperto e, forse, giustiziato. Attorno a sé, nella sua casa tagliata da un sole che, potente, filtrava tra le fessure delle persiane, egli non si sentiva sicuro. Erano le due di un caldo pomeriggio di Luglio, il sole era cocente, la campagna sembrava dormire beata, cullata dalle colline e da un debole venticello asciutto che faceva dondolare le foglie e le lunghe piante d'ortica in fondo alla polverosa strada. Uscì di casa alla ricerca di un angolo dove poter scrivere senza esser visto. Stupidamente, pensava di non esser visto. Sapeva che quella maledetta voce lo avrebbe fatto sobbalzare all'improvviso. Non c'erano rifugi o nascondigli in grado dargli sicurezza. Il capo, lo avrebbe trovato in ogni luogo. Quel foglio che teneva stretto tra le mani, esercitava su quel ragazzo, ormai quasi adulto, con un po' di barba e i capelli ricci e confusi, una forza di attrazione fortissima. Era necessario per la sua anima, sfogare e in qualche modo vomitare il suo disappunto per quella tremenda voce viscerale che lo disturbava continuamente. Non era più in grado di vivere serenamente con quelle voce persistente a fargli compagnia. Il capo, come appunto lo aveva soprannominato, lo chiamava durante giornate impegnative per aver considerazione, riusciva a ricavarsi il giusto tempo necessario perché il ragazzo si fermasse e appuntasse un qualcosa. Voleva essere adorato, il capo, ed imporgli ciò che con vigore gli suggeriva all'orecchio. Il ragazzo, non ne poteva veramente più, doveva assolutamente trascrivere il suo stato d'animo sul quel foglio che le sue mani stringevano avidamente. La domanda che picchiava nella sua testa, come fa un picchio sulle cortecce di un qualche albero in una qualche montagna, era semplice ma allo stesso modo inquietante: Chi è il capo? Di chi è quella voce? Chi sono io per sentire quella voce? È reale? Altri possono sentirla? Sono pazzo? Si mise seduto all'ombra di una grande quercia, tanto era inutile nascondersi in un qualsiasi sottoscala o in un bosco. Il capo, lo avrebbe trovato ovunque. Chiuse gli occhi e abbatté il muro di paura che gli impediva di esprimersi. Poggiò la penna sul foglio ed iniziò a scrivere. Si guardò intorno, il vento e la voce del silenzio guidarono la sua mano mancina con la quale sorreggeva la penna e iniziò a scrivere. Era ufficialmente un disertore. Non si era ancora reso conto di ciò che stava scoprendo.

_ Adorato foglio color panna a righe orizzontali, questa è la prima volta che scrivo di mia personale iniziativa. Quella voce mi sta distruggendo, sono snervato, tediato e visibilmente affaticato. Scrivo per sfogarmi, il tutto risulterà come un'unica domanda alla quale, so che non puoi rispondermi. Anche se spero vivamente che tu possa farlo. Ma cosa vuole da me? Chi è? In questo momento, ho bisogno di te, anche se poi, sarai probabilmente bruciato per non lasciare prove della mia pazzia. Perché forse, sì forse è vero, sono pazzo. Ma di chi è quella voce? Condiziona il mio vivere, distoglie la mia attenzione dalla realtà e difficilmente riesco a sentirmene parte. Sono infelice e la colpa è tutta sua, è davvero insopportabile. Ieri notte mi ha chiamato mentre stavo dormendo, come uno schiavo sono stato costretto ad alzarmi senza dire una parola, mi sono sentito umiliato. Non ho né sbuffato né protestato, tanto è così, non posso farci niente. Sibilò alle mie orecchie una frase apparentemente illogica e ho dovuto, per sua imposizione, appuntarla su di un pacchetto di sigarette che avevo in camera. Il giorno seguente, rilessi la frase che la sera prima scrissi assonnato:“sentiti Dio”. Per tutto il giorno provai a sentirmi Dio, ma in realtà non so come si sente il Dio. È follia, ne sono certo. Ma non è colpa mia, io sono solo una vittima. È il capo, ed ha sempre ragione. Camminando per la mia campagna, ormai un anno fa, mi disse con voce goliardica: “il mio colore preferito è il trasparente”. Iniziai a tormentarmi la testa di domande, cercai vanamente di dare un senso a quella strana frase. Ora che ci penso, mi torna in mente una ragazza della quale mi sentii innamorato e alla quale chiesi quale fosse il suo colore preferito. A tale domanda, non mi fu mai data risposta: lei, disse di non volermi più rivedere perché le sembravo stano. Glielo domandai, dicendole che se avessi saputo quale fosse il suo colore preferito, avrei velato ogni mia veduta con tale colore, semplicemente per sentirmi più vicino a lei. Ma come ho già detto, non ho mai saputo quale fosse il suo colore preferito. Mentre camminavo, pensai a quel suo trasparente ma poi mi passò di mente e non c' ho più ripensato. Adesso, mentre osservo quelle rosee bistorte cresciute così, spontaneamente, come manifesto dell'infinita bellezza del creato, pongo la domanda che un tempo posi a quella ragazza, a me stesso. Ci rifletto. Trasparente è il colore dell'aria e dell'acqua. Trasparenze a cui noi esseri umani siamo grati. Sono, senza dubbio, trasparenze indispensabili. La trasparenza, nella vita, è un bisogno. Trasparente, in realtà, è un non colore. Ora che ci penso, il trasparente è anche il mio colore preferito. Quella maledetta voce, vuol farmi pensare ma non riesco a farlo se non scrivo. Ora lo so. Ora che sono un disertore lo so. Ma il “capo”, chi è? Perché mi vieta di scrivere quello che vorrei e mi costringe ad appuntare quelle frasi che in parte muoiono se non ho la possibilità di riscriverle e rielaborarle a modo mio? Certe frasi, mi impone di scriverle urlandomi in faccia, mi sembra di sentire l'aria smossa dalle sue grida, il suo alito che bacia il mio volto, la sua bocca pronta a morde la mia se non rispetto il suo ordine. “Scrivi solo quello che ti dico io di scrivere”. Era stato chiaro, ma adesso, ho bisogno di scrivere quello che dico io, di sottolineare la stanchezza che sento, il terrore che da un momento all'altro possa sentirlo nuovamente con quella sua voce viscerale ed inquietante. Un pomeriggio di Novembre, stavo nuotando in piscina come faccio ogni giovedì e tra una bracciata e l'altra mi disse: “la vita è un gioco!”. Ci pensai per tutta la nuotata. Adesso, concludo dicendo che la vita non è un gioco come gli scacchi, di quelli d'astuzia o di strategia, la vita è come un gioco di dadi: si vince solo se si è fortunati. In ogni caso, sì, la vita, forse, è un gioco. Alcuni giorni fa, precisamente ieri l'altro, stavo tornando a casa dopo una cena tra amici. Fu una serata divertente, leggera, bevemmo del vino e ridemmo per delle stronzate. Ero in macchina, la pioggia che violentemente si scontrava contro il vetro mi impediva di vedere bene, da un momento all'altro avevo il terrore di sbandare. Ecco puntuale il “capo”, vuole che io appunti una delle sue frasi. Ero in difficoltà, non avevo niente su cui e con cui scrivere. Cercai di ignorarlo ma iniziò a gridare, ebbi paura per come si stava rivolgendo a me. Non era mai stato così burbero. Accostai la macchina e con l'alito appannai lo specchietto retrovisore, scrissi: “La maggioranza degli uomini è cattiva”. Frase morta lì. Il vino bevuto mi fece addormentare appena toccato il letto. Ora che sono qui, all'ombra di quest'albero, che la frase di quella sera riemerge, voglio rifletterci sopra. Ti ringrazio caro foglio di ospitare frammenti della mia pazzia, ormai ho preso confidenza con te, mi sfogo se non ti dispiace. Ancora mi domando chi sia il “capo”, di chi sia quella dannata voce e cosa voglia da me. Sarà qualcuno che a mia insaputa riesce ad entrarmi nella testa? Tipo telepatia? Avrò dunque una specie di canale scoperto dove è possibile connettersi alla mia mente? O allora di chi è quella voce? Soprattutto, cosa vuole da me? A volte, mi racconta storie bellissime ed io resto a bocca aperta, ricordo quella dei marinai nordici perduti tra i ghiacci: l'odore del pesce sembrò materializzarsi, i baffi congelati, le candele altalenanti, gli iceberg, la nausea e poi lo smarrimento, l'attesa della morte, la fame. Mi sentii uno di quei marinai e percepii la sensazione che il mio corpo si stesse congelando, che la fame mi stesse mordendo l'anima. Avrei voluto scrivere la storia di quegli uomini ma non ho potuto. Il “capo”, non ha voluto. Mi viene in mente allora quell'assurda storia che mi fu raccontata dalla voce e che a sua volta gli fu raccontata da un nomade vissuto prima della venuta del Cristo. È la storia del Sole e della Luna. La Luna e il Sole, un tempo furono amanti ma pare però che lui l'abbia tradita. Ora, il sole rincorre la luna per riabbracciarla e dirle che quelle, furono solo malelingue messe in giro dagli invidiosi Marte e Saturno, perennemente alla ricerca di una compagna ed eternamente respinti dall'altezzosa Venere. Sole e Luna si rincorrono in maniera circolare attorno ad una palla azzurra chiamata Terra. È il circolo dell'amore, o dell'ipotetico tradimento, o della malvagità di Marte e Saturno. Il rincorrersi di Sole e Luna, racchiude in sé il segreto che rende la Terra capace di ospitare la vita e se dovessero fare pace, tutti i meccanismi salterebbero e addio esseri umani. Ma tanto non smetteranno mai di rincorrersi: la Luna è troppo orgogliosa e arrabbiata per starlo a sentire e dunque per perdonarlo. La storia è folle, infatti sappiamo che la Luna è minuscola rispetto al Sole ed è solo un' illusione per noi terrestri che sembrano della stessa grandezza, ma quel nomade non poteva saperlo e in questo momento questa storiella si ricollega a quella frase che la voce mi suggerì all'orecchio in quella piovosa notte di qualche giorno fa. Infatti, il rincorrersi di Sole e Luna, rende loro infelici. Non che loro siano malvagi, sono solo vittime della malvagità di quei due invidiosi quali sono Marte e Saturno. Se penso all'uomo, penso che in parte sia malvagio perché obbligato a rispettare leggi innaturali impostagli da pochi. Dai malvagi appunto. Leggi e regole innaturali: l'uomo diventa malvagio perché per natura è libero e innamorato, ma come il sole, è costretto ad inseguire la felicità che qualcuno gli ha negato. Libertà negatagli per far raggiungere vili ed egoistici interessi di pochi. Poveri allora tutti gli uomini, ammantati da una malvagità terrena che a sua volta si ammanta di una malvagità universale. Allora, quella frase che dovrebbe essere del Biante, uno dei sette sapienti greci, un presocratico, poeta e oratore, scritta in maniera titubante sul frontone dell'oracolo a Delfi, come frase illuminante per le generazioni future, letta dalla parte di chi detiene il potere deve essere apparsa come una vera e propria manna dal cielo. Infatti, se al posto di “è”, ci mettiamo “deve”, la frase diventa: “la maggioranza degli uomini deve essere cattiva”. Mi sembra questo il principio che molti hanno usato per espandere e consolidare il proprio potere nel corso dei secoli. In effetti, la voce, non so che cosa abbia voluto dirmi con questa frase, sono certo che ha scosso il mio spirito come lo scosse a tanti pensatori nel corso della storia. Rousseau e Hobbes, ebbero opinioni contrastanti su tale frase. Il primo diceva che l'uomo è buono per natura, il secondo che l'uomo è per natura crudele. Sinceramente, non so cosa il “capo” volle insinuare con tale frase. Non lo so proprio. E forse, il mio ragionamento non torna ed è giusto che non torni. Cerca di comprendere il mio stato d'animo caro foglio, la mia mano in questo momento sembra affamata di spazzi vuoti che da sinistra verso destra riempio per sfogare la rabbia che provo nel non poter riflettere giorno per giorno come ora sto facendo. Forse dico cose illogiche, ma tanto servi solo a me e poi sarai bruciato. Quella voce è malvagia, mi spaventa, mi intimorisce, mi chiama mentre sono a lavoro, mentre leggo, mentre dormo e mentre faccio l'amore. Non mi lascia in pace mai, sono ormai il suo schiavo. Ora, grazie a te, foglio degno di lode, sento meno pesante il fardello che ho sulle spalle, non importa se sono un disertore. Mi sento più leggero, la mia mente sembra svuotarsi e il mio cuore trovare pace. Mi sei di giovamento all'anima, se devo morire, se il “capo” mi scopre e decide di uccidermi, muoio senza dubbio alleggerito. Ancora non capisco perché non vuole che io scriva le storie che mi racconta, mi ipnotizza in quei momenti, perdo completamente il contatto con la realtà. Chi è? Cosa vuole da me? La bramosia mi assale, vorrei saperlo, voglio saperlo. Se nelle pieghe di ogni racconto mi lasciasse degli indizi ed io non sia in grado di capire? Magari non sono abbastanza sveglio per captarli? Mi domando chi sia il “capo”, di chi sia quella voce profonda e viscerale che accompagna ogni mio giorno. Un po' di tempo fa, mi ha descritto un giovane ragazzo, lo ricordo benissimo: moro, capelli ricci, occhi marroni, con addosso una camicia celeste tutta grinzosa. Mentre me lo descriveva, mi sembrava di averlo davanti, forse, lo avrei potuto toccare. Era un ragazzo sempre indaffarato, costretto ad ammalarsi per portare a compimento i libri che iniziava e che mai aveva il tempo di finire. Magari, forse, era lui. Il “capo” voglio dire, si intende. Oppure, è lo spirito di un uomo morto che vaga per il mondo prima di andarsene definitivamente da questa terra e nell'attesa racconta storie a uomini scelti casualmente in base forse ai numeri che compongono la loro data di nascita. Perché questa della data di nascita devo assolutamente raccontartela. Avevo dieci o undici anni, fui portato all'ospedale per un attacco di appendicite. Forse, proprio lì tutto ebbe inizio. Ero terrorizzato dai dottori, dall'acuto odore del disinfettante che impregnò il mio naso, dalle facce doloranti dei malati in sala d' attesa e soprattutto dall'idea di dovermi operare. Non smettevo di piangere, mia madre mi teneva per mano e i dottori mi dicevano di star tranquillo. Ero seduto su di un lettino e non riuscivo a muovermi, sentivo dolore. Un dottore, scuro di pelle, con delle dita lunghissime, seduto davanti ad un computer, chiese a mia madre quali fossero i miei dati anagrafici. Lei rispose: “ 26-07-1988” Il dottore mi guardò negli occhi e mi disse: “ per i cinesi, sei nato nell'anno del Drago, per questo non puoi aver paura, i maschi nati sotto l'anno del Drago sono forti, coraggiosi, fortunati e intelligenti”. Tali parole, per un po' mi tranquillizzarono ma pensai anche che dicesse certe cose a tutti i ragazzini fifoni che gli passassero tra le mani. Successe però in quell'istante, quando finì di parlare, una cosa inspiegabile e sconvolgente. Infatti, iniziai a sentire grosse e grasse risate di donna. Chiusi gli occhi e mi sembrava di averle davanti, tre grasse donne sedute una accanto all'altra, sembravano in un ippodromo, o ad un rodeo. Portavano vestiti a fiori colorati. Tutte coi capelli color mogano, quel mogano dei cassettoni delle case in campagna, pettinate tutte e tre alla stessa maniera, come quella nel film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, non ricordo bene il nome, forse Cindy o Nancy, fa lo stesso. Facce enormi sorrette da visiere per ripararle dal sole, piedi come lievitati in quelle loro orrende ciabatte, garretti che salgono come tronchi di mandorlo e sfociano in cosce livide a causa delle vene varicose. Donne che ridono e scherzano, ridono a crepacuore, risate grasse e potenti. Ora che ci ripenso, quelle risate mi sembra di sentirle nuovamente, perché quelle donne iniziarono a ridere resta tuttavia un mistero. Probabilmente, è da lì che ho iniziato a sentire le voci, prima le risate delle donne e ora il “capo”. Le donne segnarono l'inizio, scoprirono che io nacqui il 26-07-88 e comunicarono all'altra voce, quella che vaga per il mondo a raccontare storie, di aver trovato un'altra vittima. Poi non fui operato, trascorsi una notte in osservazione e il mattino seguente mi mandarono a casa. Risi come risero quelle donne. Resta comunque l'interrogativo iniziale, di chi è quella voce? Se un giorno dovesse iniziare a urlare talmente forte da costringermi a sbattere la testa al muro od in terra, se iniziasse a cantare e lo facesse ripetutamente notte e giorno? Oppure, se quella voce profonda si tramutasse nella stridula voce di un bimbo piangente che mi chiede di uccidere una qualche persona per liberarlo dal suo tormento? Ora, mi sale un po' di paura. Tuttavia, mi rendo conto che quella voce apre i miei occhi, mi costringe a pensare, offre input di riflessione, è insistente e caparbia proprio come lo sono io. Sono scocciato sì, ma allo steso modo mi sento fortunato. Ora, me ne rendo conto. Penserai che mi contraddico, ma forse ho risolto il rebus. Mentre scrivo, e l'ombra di questa quercia disegna un mostro sul campo di grano di fianco a me, mi sento bene, scrivere mi appaga. Come se questa quercia fossi io, e l'ombra la voce che sento. Come se la voce, fosse ombra di me. Forse, sono io l'unico narratore e uditore. Se fosse così, allora chi mi vieta di scrivere sono io. Sono io che pongo limiti al mio sviluppo interiore per un pregiudizio nei confronti di me stesso. Riflettendo, mi accorgo di vivere per quella voce, di essere quella voce. Allora, amo semplicemente l'idea che qualcuno di esterno a me abbia il tempo di raccontarmi storie, di narrarmi aneddoti e avventure, massime o solo parole. Ma in realtà, quello sono io. Non credevo di essere io perché forse, ancora non mi conoscevo abbastanza. La voce, è una parte del mio “io” che vuole emergere dalle viscere del mio essere. Ecco perché la voce che credevo di sentire, suonava profonda e viscerale. Caro foglio, pensare che una volta sono stato tutto il giorno nell'acqua con la speranza che questa facesse da scudo a quell'assurda voce che sentivo. Ora, mentre scrivo, la voce di quello che chiamavo “capo”, sembra essersi confusa con la mia, la mia voce di sempre si è arricchita, è in qualche modo più profonda e matura. L'insegnamento che mi dai, o foglio, è quello di ascoltare tutte le voci di me, tutte le sfaccettature della mia persona, di accettare questa che è la mia realtà e quindi me stesso. Visibilmente imbarazzato, cresco, nell'attesa di scoprire e sentire altre voci di me._

Era ormai sera, il sole stava tramontando e sembrava infilarsi nel ventre della madre terra. Ora, gli animali del giorno lasciavano il loro posto a quelli della notte. Alcuni grilli, suonavano melodie rilassanti. Il giovane ragazzo ricciolo, era intontito per quello che aveva scoperto in quello strano pomeriggio di Luglio. Teneva tra le mani il foglio su cui aveva raccontato se stesso, fatto molte domande e poi finalmente aver dato qualche risposta. Scoprì di essere lui stesso il “capo”. Disertare, è stato un gesto di coraggio ben ricompensato. Salì in casa di corsa, si mise alla scrivania e scrisse la storia dei marinai perduti tra i ghiacci. La lampadina osservava curiosa la storia che lui stava ascoltando e scrivendo. Passò una notte intera a riempire fogli, scrivere racconti, pensieri, poesie o semplici lemmi, era in pieno ascolto del suo sé. Il foglio della diserzione, poi non fu bruciato: è mescolato ad altri fogli che parlano di un giovane ragazzo dai capelli ricci.

domenica 29 aprile 2012

"Pacchiugle."

Si fanno progetti ambiziosi, si corre in silenzio per non disturbare, sempre si resta sbalorditi dal mare. Poi si piange all'improvviso, dense lacrime ti scorrono sul viso e pensi che la tua amica ha ragione. L'amica, quale amica, di cosa stiamo parlando?
L'accappatoio irrigidito dai troppi lavaggi gratta la mia schiena rinvigorita da una doccia bollente. Un nano vestito da giullare fa roteare palline colorate alla velocità della luce. Ride mostrando denti ingialliti dalla vita. Una bionda mostra le sue forme ed il suo essere femmina ballando ad un palo che si pianta sul soffitto di uno squallido club di periferia. Panzoni sbavano affondando su poltroncine di pelle nera.
Guardi tutto con estremo interesse senza sapere il perché.
Sono tre giorni che non prendo caffè. Quattro giorni fa, sono riuscito a berne dodici e la sera avevo le palpitazioni. Ma ora ho smesso.
Stamani mi sono alzato con una parola in testa: pacchiugle. Non sapete il significato di tale parola, per un po' non l'ho saputo neanch'io. Ora lo so. Tipo per due o tre mesi, mio nonno mi ha chiamato pacchiugle. Più volte gli ho domandato cosa volesse dire, ma non mi ha dato mai una risposta seria. Ora, mio nonno, ha preso a chiamare pacchiugle mio cugino. Pacchiugle, significa buono a nulla. Mio cugino lo è perché è la terza volta che boccia all'esame della patente, io lo sono stato perché... in realtà non lo so, potrebbero essere molti i motivi. Mica che la cosa mi abbia turbato più di quanto già non lo sia di mio, è che mi sono alzato con questa cazzo di parola in testa e non riesco a toglierla.
Ma lasciamo stare, arriviamo al dunque.
Il dunque è che ho preso una decisione riguardo alle vacanze estive. Non interessa a nessuno. Allora non so cosa scrivere, dice: cazzo vuoi allora da noi? Nulla, è che sono molti giorni che non scrivo e quindi mi va. Non ne sono mai stato un granché capace, ma mi piace e non posso farci nulla.
Ho l'occhio destro che mi trema visibilmente. Oggi, me lo ha fatto presente un'amica, la quale, con fare materno mi ha dato un abbraccio e mi ha detto di prendermi una pausa. Dice che sono stressato. È stato grazie al suo consiglio che ho preso una decisione riguardo alle ferie. Ce ne andiamo sull'isola di Capraia. Io, la mia ragazza e il cane. Con due ore di traghetto, da Livorno, si arriva a Capraia.
Sull'isola non c'è nulla, parecchie capre, penso che mi porterò l'Ulisse di Joice, una canna da pesca, 2 magliette ed un costume. Basta, non porto nient'altro.
Anche mio fratello dice che dovrei rilassarmi un po'.
Il fatto è che la gente che si rilassa mi sta sulle palle, quelli che dicono di essere stressati e stanchi mi sanno di perdenti e tendo a disprezzarli. Io vado, non mi pongo limiti, lavoro otto ore al giorno in mezzo a vecchie sorde e rimbambite, la notte studio per laurearmi il prima possibile perché l'ego me lo chiede, quando ne sento il bisogno (come stasera) mi metto a scrivere, il giovedì notte vado al mercato ortofrutticolo di Novoli e torno verso le otto del mattino con il mio furgoncino pieno zeppo di frutta.
Dormo poco, studio, lavoro, faccio esami, corro.
Siete mai stati ad un mercato ortofrutticolo? Spettacolare. A parte i colori di tutta quella frutta insieme e tutto, il vero spettacolo sono i personaggi che ci lavorano. Gente completamente fuori di testa. Io sono amico di tutti, ormai sono anni che ci vado e nessuno cerca più di mettermelo nel culo, ma il loro obiettivo è quello. Sono tutti banditi, gente coi peli sul core, gente col coltello imperlato di coca, gente che se fai il grosso e vuoi fottere qualcuno, ti taglia le gomme del furgone (la prima volta), e la seconda te lo incendia. Sembra di entrare in un paese dei sogni, no, credetemi, non sembra possibile ma lo è.
C'è Nino che vende fuochi d'artificio di contrabbando; Carmelo che ha tutte le droghe del mondo nelle quantità che desideri; Walter ha ogni tipo di apparecchio elettronico che vuoi, dall'Ipad al Tamagotchi; Oreste vende armi ma nessuno lo ha mia visto di persona e si vocifera che sia biondo e colla coda.
Per non parlare delle puttane e dei travestiti, è pieno. Marco (che si fa chiamare Alexia), è diventato mio amico. Le prime volte che andavo al mercato mi guardava con aria arrapata, sembrava dire: fottimi tesoro, con trenta euro te la cavi... sei così carino.. Alla terza volta chiarii la cosa e gli dissi che non mi passava neanche dall'anticamera del cervello di scoparmi un travestito. Ora è mio amico e parla normalmente senza fare la voce da donna. Si fa sempre colazione insieme e spesso paga lui perché guadagna più di me. Ogni tanto ci facciamo anche una canna. Marco è forte, è l'unico amico frocio che ho.
C'è della gente davvero da romanzo, se un giorno ne sarò capace scriverò di loro in maniera dettagliata. Per stasera mi limito a fare un'infarinatura.
Boia, è tardi. Ho anche finito birra e sigarette.
Arriviamo al dunque, alla morale di questa favola. Morale? Non c'è né trama né morale.
Così, chiudo il tutto così senza rileggere e si va dritti sul blog. Insomma, penso che forse ho bisogno di andare in vacanza, ma ancora di più ho bisogno di tornare a scrivere con continuità perché la cosa mi rilassa e mi rende felice. Allora, rimaniamo che per questa volta sono perdonato, che sto riprendendo il ritmo, se poi vi va, chiamatemi pure pacchiugle. Corro e corro e poi eccomi quà, a perdere una notte a scrivere stronzate, col presentimento di essere un buono a nulla perché di cose ne voglio fare troppe, e tutte le prendo con un' imbarazzante superficialità credendomi uno forte, uno che non ha limiti, uno che corre.
Poi piango, sono stanco.
Mercoledì avrò anche un esame.

mercoledì 18 aprile 2012

"Metempsicosi."

Novembre 2010.

I genitori non li aveva mai conosciuti. Dal centro per l'impiego non le avevano fatto sapere più nulla e quel paese di periferia nel quale si era trasferita da ormai due anni per essere vicina al suo ragazzo, era stato spettatore della fine di quella difficile storia d'amore.
Se ne stava seduta lì, con le mani sudaticce, i capelli ancora umidi e tanta voglia di parlare di sé.
Raccolse da terra un accendino e lo strinse forte tra le mani. Tirò fuori dalla sua borsa di pelle chiaro, logora dagli anni e sfinita dai lamenti, una sigaretta. La accese delicatamente, aspirò e sputò fuori il fumo e sembrava le avvolgesse il volto, un volto stanco per la lenta giornata trascorsa e per la vita. Lasciò cadere a terra l'accendino in modo che tornasse nel posto in cui lo aveva raccolto.
Un incenso al loto emetteva una striscia di fumo verticale e inondava con il suo profumo la stanza.
Era seduta, semidistesa, su di un tappeto amaranto merlettato ai lati. Alcuni cuscini fungevano da tavolini, infatti, sopra di questi, erano appoggiati posacenere colmi di mozziconi di sigarette maleodoranti e fogli sparpagliati sui quali erano appuntati segni, o disegni, o comunque frasi apparentemente illogiche.
Logiche probabilmente soltanto a lei.
Una lacrima le solcò il viso e andò a poggiarsi sulle labbra che, bagnate, assunsero un colore nuovo.
Lottava a testa alta.
Sentiva di essere vicina alla caduta ma resisteva.
Voltò pagina al libro che stava leggendo. L'olivastra pelle di Claudia, sembrava intonata con la copertina del libro che teneva stretto tra le mani, scritto alcuni anni prima da un suo conoscente. I suoi occhi, azzurri come certe mattine di luglio, erano gonfi e rossi di lacrime. Lacrime di un malessere interiore che nessuno a parte se stessa sarebbe stato in grado di asciugare fino in fondo. I suoi capelli, neri come le ali dei corvi, ancora umidi per la doccia appena fatta, erano raccolti in una coda da cavallo.
Sfinita e con la testa indolenzita, si addormentò distesa sul tappeto.
Il mattino seguente non ricordava nulla del giorno precedente. Non ricordava di essersi fatta la doccia, di aver pianto e di aver letto. Si svegliò su quel tappeto amaranto che non le sembrava neanche il suo. Guardandosi attorno, non riconosceva i soprammobili, la struttura e i colori della sua casa. Come succede dopo una grossa sbornia, si ha difficoltà, al mattino, a capire dove siamo e chi siamo veramente.
Poi, tutto si ricollocò magicamente nella sua testa. Quella casa era la sua.
L'ampio salone etnicamente arredato e i soprammobili trovarono il giusto posto nei suoi ricordi.
L'orologio appeso in cucina, scandiva secondi che inconsciamente la guidarono a riprendere coscienza di dove fosse. Il suo sguardo restò, per alcuni istanti, ad osservare una gondola dorata che non ricordava di avere, dimenticata su una libreria, tra i molti libri che, nonostante le buone intenzioni, ancora non aveva letto. L'unico ricordo del giorno precedente era solo una sensazione di paura. Sensazione di una paura inspiegabile, sensazione di paura che fa paura. Decise che doveva lasciare quella casa per uscire all'aria aperta, per camminare e per stabilizzarsi dopo un risveglio destabilizzante. Poi però, nel momento in cui il suo piede poggiò sulla soglia della porta, fu avvolta da un malessere interiore più forte della forza di mille uomini e fu costretta a richiudere la porta appena semiaperta. Il pensiero di poter incrociare lo sguardo di qualcuno la terrorizzava, si sentiva, come non aveva mai avvertito fino ad allora, intrappolata come un baco nella sua seta. Un qualcosa la ingabbiava, era un qualcosa di astratto ma profondamente potente.
Restò ad osservare la porta di casa inebetita ed impaurita, poi si diresse in camera da letto e s'infilò sotto al piumone di piume d'oca e come un tasso nella sua tana, nella quale si sente protetto per affrontare il letargo, ci restò per tutto il giorno. Soltanto i neri capelli si vedevano sovrastare il cuscino, era infatti racchiusa in posizione fetale e solo così si sentiva protetta e al sicuro. Apparentemente invisibile agli occhi di un mostro immaginario. Quel mondo-mostro che la inquietava.
Passarono molti giorni e le sue condizioni non andarono migliorando, anzi, iniziò ad odiare il mondo e inspiegabilmente il suo odio divenne un odio nei confronti della vita in generale. Era caduta. Doveva lottare ad occhi chiusi e con le mani legate. Tutto sembrava diventato fautore di quel malessere, fautore di quell'atroce sensazione di paura di vivere. Trascorsero giorni di totale apatia, vissuti tra la camera da letto e il salotto, dunque tra il letto ed il divano. Un pomeriggio, stretta nella morsa della fame che per giorni aveva ignorato, decise di prepararsi una tazza di latte caldo. Pioveva, pioveva e pioveva. Da molti giorni dal cielo cadeva acqua e guardando all'esterno, dalle fessure della persiana, sorseggiando quel latte caldo e fumante appena preparato, i campi che vedeva in lontananza le sembravano grossi laghi sui quali la sua immaginazione figurava pescatori con berretti colorati affiancati da lunghe canne. Fumò l'ultima sigaretta rimasta nel pacchetto. Finite che furono le sigarette, dopo aver rovistato convulsamente nelle tasche dei giubbotti e nelle borse metodicamente ordinate nell'armadio, Claudia decise finalmente di uscire di casa dopo molti giorni di auto-reclusione. Decise di uscire di notte per evitare di esser vista e dunque per ridurre al minimo le possibilità d'incrociare qualcuno. Uscì alle quattro di notte, camminò per strade desolate, bagnata da una fitta pioggerella d'autunno che affrontava a viso aperto, senza ripararsene. La sensazione di solitudine che percepiva, camminando sola, le piaceva. Ammirava un paese deserto, a riposo, spento, vuoto. Meno vuoto tuttavia, del vuoto che sentiva dentro. Quella notte, la pioggia, le aveva inzuppato le ossa rendendole uggiose, l'umido l'aveva resa pesante e si sentiva come avvolta da un sottile strato di cera. Sensazione tuttavia meno opprimente rispetto all'essere sommersa nell'apatia nella quale, affannosamente, cercava di nuotare per non affogare. Comprò le sigarette ad un distributore e tornò a casa.
Osservava il mondo, quello illuminato dal sole, attraverso un sottile foglio di vetro e dalle fessure di una persiana sempre ben chiusa. Claudia abitava sopra ad una farmacia sulla cui insegna lampeggiavano i gradi centigradi presenti nell'aria e l'ora esatta, in una palazzina come tante, di quelle che non ti danno emozione e che dimentichi ancor prima di memorizzare. Gli ombrelli, colorati o no, sorretti dalle persone, avevano trasformato quel suo paese in un paese di grosse palle colorate le quali a volte si scontravano altre volte invece proseguivano fluidamente verso direzioni a lei sconosciute. Così voleva immaginarsi il suo paese: palle impazzite in un grosso flipper. Sempre tali ombrelli, davano un che di assurdo alle persone che li sorreggevano, infatti guardando la gente che rizzava il capo e inclinava l'ombrello all'indietro per leggere i gradi o l'ora lampeggianti sull'insegna della farmacia, proprio sotto la finestra del soggiorno, sembrava che gli ombrelli formassero un'aurea colorata attorno ai loro volti. Alcune persone avevano auree gialle, altre ancora celesti alcune dei colori dell'arcobaleno, come se all'acquisto di un ombrello un individuo mostrasse la parte più nascosta di sé, la più celata, la più metafisica, la più tremendamente vera.
Il quattro Dicembre quando l'avena mostra le sue prime fragili foglie, le donne zappettano le aiuole e i contadini piantano fagioli, Claudia, stanca di essere ingabbiata in un qualcosa d' intangibile, e forse da lei stessa creato, ebbe, per la prima volta in tutta la sua vita, il desiderio di morire. Di morire e attendere un tanto desiderata metempsicosi. Sperava che la sua anima potesse, una volta che il suo corpo fisico fosse morto, insediarsi nel corpo di un animale. Non le importava quale, voleva solo provare a rinascere felice nel corpo di un animale. Si fece coraggio e cercò di allontanare tali pensieri.
Come ormai era sua abitudine, uscì di notte. Si sentiva bene a passeggiare tra le auto spente, nel silenzio, avvolta nella nebbia e nel buio, mentre gli altri dormivano. Acquistava sigarette al distributore in fondo al paese ad alcuni isolati da casa sua, dove le due strade principali s'intersecano e formano un angolo.
Poteva acquistare anche generi alimentari di prima necessità come pane, latte, zucchero e uova. Non le importavano leccornie d'altri luoghi o carni pregiate, mangiava il minimo che le serviva per restare in vita.
Le sue notti le passava così, camminando, fumando e maledicendo il mondo.
Verso la metà di Dicembre, durante una delle sue passeggiate notturne, avvolta nel freddo, Claudia fu accostata da una macchina all'interno della quale sedeva un uomo. Una figura mingherlina, ben vestita e con dita lunghe che abbracciavano un volante lucido come la macchina sulla quale sedeva. L'uomo le chiese se avesse avuto bisogno di aiuto o di un passaggio, risultandogli insolito vedere una ragazza giovane camminare sola tra strade buie a quell'ora tarda della notte. Senza voltarsi per constatare chi fosse, senza incrociare gli occhi di quell'uomo, Claudia, iniziò a correre all'impazzata verso casa poi s'infilò nel portone di legno dai pomelli d'ottone e lo chiuse violentemente facendo rintronare nella notte e nell'androne il suo sbattere. Quell'uomo, poteva essere una mano tesa verso la salvezza.
Giunta affannosamente a casa, con il cuore che le pulsava a mille, iniziò a piangere e lo fece fino all'alba. Ripiegata su se stessa, si accorse di aver toccato il fondo. Non poteva andare avanti così, non poteva continuare a scappare e a piangere.
Era diventata un fantasma, sempre più chiusa al mondo e agli uomini.
Il giorno seguente, facendosi la doccia, si convinse che la soluzione a tutti i suoi problemi era quella di partire. Andare via da quel paese e da tutta la sua gente che stoltamente, secondo lei, la stavano opprimendo ed erano addendi che sommati avevano prodotto quel suo stato d'infelicità e di dolore.
Era sempre più schiacciata in un angolo.
Sabato 2 Febbraio, con la frenesia dei giorni di rabbia, trangugiò una boccia intera di vino per farsi coraggio e uscì, di giorno, per partire.
Camminò a testa china, neanche il vino bevuto le aveva dato la spinta per guardare il mondo negli occhi. Claudia teneva a tracolla una borsa riempita a caso, cose prese frettolosamente come se qualcuno la stesse inseguendo, i capelli sciolti le coprivano le spalle, passi svelti uno dopo l'altro e sigarette accese a ripetizione. Andare senza una meta precisa ma per andare e basta.
Si diresse alla stazione, arrivata che fu, prese il primo treno per Venezia.
Forse, la gondola d'orata, osservata quella strana mattina in quello strano risveglio, poteva rappresentare un luogo dove tutto il suo soffrire sarebbe finito.
Se ne stette per tutto il viaggio ad osservare le sue mani che convulsamente si strusciavano l'una con l'altra, incurante del paesaggio e di chi le sedeva accanto.
Rizzò per un attimo la testa e lesse il cartello “Venezia” che dà il benvenuto al treno e che questo ricambia con un fischio che va poi a perdersi nell'etere. Arrivata a Venezia si sentì più leggera, quel viaggio e l'arrivo in quel posto sembrava le avessero fatto bene davvero.
Ma fu soltanto un'illusione.
Il suo sesto senso la guidò verso un albergo del centro, il sole si era fatto rosso e il vento sembrava modellare i dorati canali Veneziani. Si trovò davanti a quel' albergo ed entrò. La possente porta a vetri scricchiolò nell'aprirsi, poi, una grossa molla in ottone la richiuse all'improvviso rallentandone lo sbattere poco prima della chiusura definitiva.
Stanza numero 34.
Le fu assegnata da un' anziana donna dai corti capelli bianchi e con pochi denti anneriti dal fumo, ma ciò nonostante con un aspetto caldo e familiare che sembrò confortarle il cuore. Con la mano mancina, la signora, appuntò il numero di carta d'identità su di un foglio. La penna in metallo, con la debole luce di un' abat jour in vetro di Murano, illuminava uno spicchio di poltrona posta alle spalle di Claudia.
Pronte che furono le carte, salì alcuni gradini ricoperti in moquette ed entrata che fu nella stanza si distese sul letto e con aria appagata, si addormentò con i vestiti ancora addosso e la luce accesa.
Il vento tra i canali, suonava melodie rilassanti che le conciliarono il sonno.
Poi, nella notte, aprì gli occhi all'improvviso.
Il viola cupo delle tende e le righe verticali di colore blu sulla carta da parati, sembravano soffocarla.
Si guardò intorno e credeva di sognare. Non sapeva dove fosse, come una sonnambula andò a specchiarsi in bagno: capelli arruffati, ciglia accapponate e occhi perduti che sembravano guardare il nulla, come un vecchio cieco che attende impaziente l'arrivo della morte per ricongiungersi finalmente alla moglie.
Lo specchio in cui si specchiava, rifletteva un volto impaurito, pallido, tormentato e angosciato. Specchio di quel suo malessere interiore difficile da guarire. Volto mesto e malandato, di chi ha bisogno di sfogare una rabbia e una tristezza recondita, di chi non conosce il perché di tale sofferenza.
Le tornò alla mente la mattina in cui tutto ebbe inizio.
La mattina in cui la musica della depressione iniziò a suonare ad alto volume, non più come l'eco di un'orchestra lontana, ma come vivido suono di un'orchestra presente davanti ai suoi occhi, con battute e con suoni potenti da farla vibrare.
L'unica via di scampo a quella situazione, le sembrò ancora la morte. Non ebbe tuttavia il coraggio di lasciare quel suo profondo dolore per l'ignoto.
Alcuni giorni dopo, trovò dentro di sé il coraggio di tornarsene a casa.
La sua Venezia fu la stazione e quella camera di albergo. 
Trascorse settimane intere chiusa in casa. Cercò vanamente di dare un senso a ciò che stava vivendo, tante domande ma nessuna risposta.
Il 28 Febbraio, dal cielo iniziò a cadere bianchissima neve e nel silenzio del tutto iniziò ad immaginarsi diversa. Iniziò, per la prima volta dopo tanto soffrire, a fare progetti per un possibile futuro felice, pensieri positivi per un futuro armonico. Tutto bianco intorno, neanche un passante, soltanto silenzio e luce attorno a sé, Claudia sentì che magicamente il vuoto che sentiva dentro poteva lentamente riempirsi.
Spalancò le finestre di casa come a farsi ricoprire dalla neve, come per godere fino in fondo quella sensazione di piacere che vivida sentiva dentro. Salì in piedi sul davanzale della finestra, chiuse gli occhi ed ebbe la sensazione di poter rinascere, di poter guarire quel suo spirito malato, doveva solo lasciarsi andare, gettarsi nuovamente, di schianto, nell'immensità. Sentì l'opportunità di allontanare definitivamente da sé quel dolore, sentì la possibilità di diventare farfalla. Lo fece, si lasciò andare, si lasciò cadere silenziosamente nel bianco candore che l'avvolgeva. Ad occhi chiusi pensava di volare sul mondo, di respirare e di goderne i profumi. Volava silenziosa, estasiata da quella nuova sensazione. 

Da quel giorno non smise di pensare alla sensazione di volare e di posarsi su fiori variopinti.
Dentro di sé si muoveva forte il desiderio di volare e di vivere. Voleva volare. Voleva volare felicemente. Non riusciva a pensare ad altro, era incatenata nel piacere che quel pensiero riusciva a darle.
Tutto sembrava andare meglio, la neve aveva illuminato il paesaggio e la sua dolente anima.
Il fragile corpo che l'ospitava era adesso un corpo di farfalla.
Vide cadere a terra quell'opprimente crisalide che l'avvolgeva, le spuntarono grosse ali colorate di viola, macchiate da palle tinteggiate di rosso. Lunghe antenne le spuntarono sulla nuca, si distendevano verso il cielo e puntavano dritte alle stelle.
Era successo tutto all'improvviso, aveva fatto tutto da sola.
Come un rabdomante trova l'acqua, lei, finalmente, aveva trovato la sua vera forma.
Si sentiva il corpo formicolante di beatitudine.
La triste ragazza che era, mutando e trovando il suo vero essere, si sentiva adesso attaccata alla vita nella maniera più assoluta. Inspiegabilmente e celermente restava solo un ricordo lontano del dramma che aveva vissuto. La notte lasciava spazio all'alba e lei fluttuava leggera, danzava al cospetto del sole e sentì la pace fuori e dentro di sé.
Poco le importava se poco sarebbe durato.
Era finalmente felice di vivere.
O di essere morta.

Claudia Terzilli.
21 Agosto 1984.
28 Febbraio 2010.

sabato 31 marzo 2012

"Il sasso nello stagno."

Ecco cosa vuol dire essere uno scrittore.
È essere sempre angosciati, tormentati, infastiditi da se stessi.
Significa avere coraggio, combattere senza un vero nemico, estraniarsi e provare a descrivere un mondo in continua evoluzione che non aspetta nessuno, che viaggia come un missile verso una meta sconosciuta, straniera.
Scrivere, è come essere malati.
È una patologia dell'anima.
È dondolare tra realtà e follia.
Se qualcuno mi domanda per quale motivo scrivo, rispondo sempre che non lo so.
Si potrebbe passare tutto il pomeriggio a vaneggiare sui vari perché.
Forse è essere affamati di sé, avere una continua voglia di conoscersi, cercare in qualche modo di manifestare la propria essenza e di imprimerla su di un foglio per non farla sembrare il nulla che spesso appare.
Credo che tutti gli scrittori siano dei saccenti, malinconici saccenti.
Anche egocentrici.
Io, spesso, mi resto sui coglioni.
Ma forse non sono uno scrittore.
Ho cominciato descrivendo la natura.
Il nascere di una foglia, i prati ghiacciati, il fieno ingiallito, un fiore che sboccia.
Poi, da una qualsiasi situazione nasce una storia. Se vai dal benzinaio, al supermercato, a spasso col cane, a mangiarti un panino, a bere una birra, dal dentista, o dove cazzo vuoi andare, ti si sovrappongono migliaia di dimensioni e crei un altro mondo dentro al mondo.
Essere uno scrittore significa vivere di parole, di quelle che non esistono e te le inventi, di quelle che ormai sanno di vecchio, di quelle lunghe ed affascinanti e di quelle corte ed incisive.
Stop, super, sovramagnificentissimamente, precipitevolissimevolmente.
Uno scrittore vede un fiume e gli sembra il Gange, vede un monte e gli sembra l'Everest o il Kilimangiaro.
Uno scrittore si innamora di tutte le donne che inventa e patisce perché non può farci sesso, perché non esistono, perché sono solamente nella sua testa e fatica ad accettarlo.
Uno scrittore ha sempre la febbre e vive delirando, vive la sua vita con persone che non esistono.
Uno scrittore è forse solo un pazzo, che come un sasso piatto lanciato in uno stagno saltella per un po' e poi se ne va a fondo, affonda per il suo peso, perché è così che vuole la sua natura.
È un condannato che non ha commesso alcun reato, tranne quello, un giorno, di essersi messo una penna in mano e di aver scarabocchiato un foglio che, silenzioso, chiedeva solo inchiostro.

Astronauta.

martedì 20 marzo 2012

"Ruggine"

Pietro non è più mio amico.
Pietro non è più nulla.
L'adolescenza unisce.
Crea legami profondi.
Ci siamo conosciuti da adolescenti, nella stagione del non pensare a ciò che è veramente importante, nella stagione in cui filosofeggi inconsapevolmente, dove bevi e provi tutte le droghe del mondo perché nulla è più importante del presente e te ne fotti di tutto il parlottare della gente.
Puoi fare tutto, c'è sempre la tua stagione a farti da ombrello per quello che combini.
Ci volevamo bene.
Gliene voglio ancora.
Ora è perduto in una foresta dove tutto è altro da ciò che sembra, dove non sei sicuro se stai calpestando erba o altro, dove le farfalle sono aquiloni, dove tutti i gatti sono armati e marroni, e scappi, e corri perché hai paura che tutti attorno a te siano affamati predoni.
Pietro scappa dalla realtà, fugge dalle parole, si nasconde dove non c'è il sole.
È scappato anche da me, è scappato da tutti noi.
Ho regalato lui un diario. Speravo ci scrivesse qualcosa. Non ci ha scritto nulla.
Ha perso la testa.
Ti chiedi in che modo sia potuto accadere, se sei anche tu, in qualche modo, l'artefice di tutto.
Provo sempre un grande disgusto.
A stento trattengo il vomito, ma poi mi guardo allo specchio e dico che la colpa non è mia.
Certi giorni penso che forse potevo fare di più.
Ci sono stato davvero male, tutt'ora ne porto i lividi.
Anche questo graffio nell'anima, non smette di perdere sangue.
Ho chiesto consiglio anche al mare.
Mi sono fatto due ore di macchina per sedermi silenzioso al cospetto del maestro.
Ho annusato il vento.
Poi mi sono svestito, mi son buttato tra le onde ed ho pianto mescolando le mie lacrime salate con quelle di altra gente disperata e rapita dai propri demoni.
Con gli occhi aperti, sotto l'acqua, non si vedeva nulla.
Era un continuo sciabordare, è come ritornare finalmente nel ventre ancestrale dove ti spogli da tutte quelle caratteristiche con le quali la realtà ti individua e non ti senti nient'altro che te stesso, pulito e magnifico, semplice, in ogni tuo difetto.
Mi sono disteso sul bagnasciuga, la sabbia dappertutto sul corpo.
Ho pensato che non potevo più andare avanti in quel modo, che dovevo provare a ripartire.
È facile lasciarsi marcire.
Più facile di quanto si pensi,
più semplice di lavarsi i denti,
di sputare a terra,
di dire no a una guerra.
Poi, s'arriva al punto in cui o salti o resti immobile.
Restare immobile è come farsi corrodere dalla ruggine.
Salti per non diventare come quel tuo vecchio amico.
Una volta ero ubriaco e lui mi infilò due dita in gola per farmi vomitare. Mi sentii meglio.
Io ci ho provato a farlo vomitare, l'ho portato da qualcuno che lo potesse aiutare, qualcuno che potesse farlo sentire meglio. Avevo la speranza che la sua vita diventasse diversa.
Lo vidi scappare dalla finestra e lo ritrovammo solo dopo sei ore, seduto sulla sponda di un fiume che potente scorreva a valle. Mi disse che lo volevano ammazzare, che erano tutte balle, tutto architettato per farlo fuori, che il problema eravamo noi.
Per un periodo ha dormito in macchina per paura che il lenzuolo lo soffocasse, beveva solo alle fontane per paura che qualcuno lo avvelenasse.
La sua, è stata una normale evoluzione.
Si parte colla depressione e poi si va oltre, oltre la realtà, oltre la ragione, oltre ogni esperienza dei sensi, oltre quello che credi lui pensi, oltre questa dimensione.
Polizia, ospedale, fuga, polizia, urla in piazza, polizia, ospedale, chiamate nel mezzo della notte, bruciare la propria macchina perché posseduta dal diavolo, polizia, ricovero forzato, fuga in mutande per nascondersi nei bagni della stazione, polizia, psichiatria.

Se ne sta immobile ad osservare il suo pesce rosso.
Forse crede d'essere quel pesce.
Ha sempre avuto paura dell'acqua. È annegato nella realtà.
Ora non è più nulla.
Imbottito di tutta quella merda è solo un corpo.
Non sogna nessuna riscossa, non sogna più una vita.
Forse sa che la sua è svanita, forse non sa proprio nulla.
Se solo potessi togliergli quella pietra dalla testa.
Ieri sono andato a trovarlo a casa, ha detto che non voleva più vedermi, che non ero un suo amico, che non sapeva chi io fossi.
La vita va avanti scandita dai ricordi e dalle domande, pensi che se anche il mondo è grande e pieno di gente, nessuno è come quel tuo vecchio amico.
Le cose importanti, nella vita, ti accorgi che sono davvero poche. Se poi una di queste cose la perdi malamente per la strada, guardi il mondo con occhi diversi e tutto ha un altro sapore, quello cattivo, quello della ruggine.

lunedì 5 marzo 2012

"Corri papà, vieni, prendimi!"

Ieri, sono morto.
Mi sono lasciato cadere. 

Ho sentito che il mio corpo andava giù verso il buio. 
Poi, non ho sentito più nulla. Né la terra, né le braccia dei miei soccorritori, né il caldo.
Un tuffo nel vuoto. 
Pensavo di avercela fatta.

Ma sono morto solo per un po'. 
Mi sono svegliato per l'acqua. 
Ero in una baracca torrida e lercia. In piedi, di fronte a me, il capo!
rideva e continuava a buttarmi acqua sul volto. Mi sono ripreso così.
Dalla sua bocca sdentata e grinzosa, penzolava una sigaretta.
Grasso, pelato, sporco, maleodorante, colla canottiera e gli aloni giallastri sotto le ascelle. 
Rideva ed urlava.
-Negro, alzati!
La sua voce m'è penetrata nelle ossa e nell'anima. Volevo ammazzarlo. 
Ho scaricato la mia rabbia stringendo il pugno più che potevo.
Ho chiuso nuovamente gli occhi 
nella speranza di non riaprirli mai più. 

-Alzati, negro!

Ho aperto gli occhi. Oltre la porta della baracca, ho visto che il caldo sfocava tutto.

Nel sud dell'Italia, in estate, il caldo è insopportabile.
Fa comodo pensare che noi, noi che veniamo dall'Africa, possiamo sopportare tutto.
Siamo abituati al caldo, sì, ma siamo uomini.


Bisbigliando, ho maledetto quel bastardo nella mia lingua. 
Non capiva, ma rideva colla bocca spalancata. Ho visto le sue tonsille.
Poi, ha sputato la sigaretta sul pavimento e l'ha spenta girandoci sopra la punta del piede destro
per un paio di volte.
È uscito lasciando la porta aperta. Ho sentito che parlottava con altra gente.
L'italiano non lo parlo ma lo capisco: 
Ha detto agli altri che ero solo svenuto, dovevo riposare e l'indomani avrei potuto riprendere il lavoro.

Ecco perché volevo morire, per la mia situazione, per il lavoro.

È salito in macchina ed è partito insieme agli altri. 
Io sono rimasto solo nella baracca piena di attrezzi, disteso su alcuni pancali di legno. 
Immobile, ho atteso senza sapere cosa attendere veramente.


Mi chiamo Mohammed. Ho 33 anni. Ho studiato musica.
Ho vissuto nella campagna napoletana per due anni.
Ho lasciato il mio paese per cercare fortuna, pace, una vita felice.
Ho pagato tanti soldi per arrivare qui in Italia. 
Mi avevano promesso un lavoro dignitoso, la possibilità di avere documenti regolari, 
una casa per i primi tempi. Insomma, un futuro. 
Sono un clandestino, questo rende me e i miei compagni.. ricattabili.


Saranno state le cinque del pomeriggio. 
Solo, 
nella baracca sperduta, non sapevo dove fossi. 
Mi sono addormentato. 
Ho sognato che avevo un figlio e aveva i miei stessi denti grandi e bianchi, 
anche i miei crespi capelli. Avevamo un cane. Il piccolo aveva deciso di chiamarlo Italo.
Eravamo felici. Correvamo spensierati tra le margherite che coloravano un verde prato, 
qualche albero qua e là, alla nostra destra scorreva un fiume silenzioso e potente,
in cielo nessuna nuvola.
Mi figlio correva e mi diceva
  • corri papà, vieni, prendimi!




Mi alzai colla schiena dolorante, la pancia vuota.
Avevo fatto un bel sogno. 
Era notte, si erano dimenticati di me.
Correre spensierato col proprio figlio, per noi, è un'utopia:

Abitiamo in una baraccopoli, è un vecchio complesso industriale abbandonato 
e ci stiamo in più di mille.
Non abbiamo né bagni né elettricità.
Le condizioni igieniche sono disumane, non abbiamo medicine, i topi vivono con noi. 
Buttiamo l'immondizia da una parte e poi la bruciamo quando è tanta, allora i topi escono dalla montagna e s'infilano nei nostri giacigli logori. 
Siamo ammassati come bestie.
Mangiamo poco e quel poco siamo costretti a comprarlo da chi ci tiene rinchiusi. 
In inverno, specialmente di notte, fa un freddo da morire.
Ci pagano 10€ al giorno per lavorare dalle 4.30 del mattino alle 17 del pomeriggio, nei campi.
Dal nostro villaggio non possiamo uscire. 
Se ci vedono per strada, o ci riportano dentro o ci fanno fuori. 
“Se ti vede la polizia, vieni rimpatriato”. Almeno così dicono.
Noi non siamo uomini liberi, siamo schiavi.
Non c'è scampo. Appena arriviamo ci smistano.
Le donne, o al tessile, o a fare le puttane. 
Anche gli uomini sono divisi in due gruppi: muratori e contadini.
Se fai fortuna e si fidano di te, finisci a spacciare da qualche parte d'Italia, magari al nord.



Si sono dimenticati di me
in una baracca sperduta nella notte:

Ho pensato che morire e provare a scappare stavano sullo stesso piano, 
e che forse, scappando, avrei potuto avere una minima possibilità di vita nuova. 
I miei amici, mi avranno dato sicuramente per morto. Ma sono morto solo per un po'. Anche se loro non lo sanno.

Rinvigorito dal sogno di avere un figlio, un cane dal nome Italo ed una vita spensierata, 
ho iniziato a correre verso nord, lungo i campi, seguendo la stella polare.
Lasciandomi alle spalle la terra del dolore e della schiavitù, 
correvo come se mio figlio fosse davanti a me e dovessi inseguirlo per gioco e poi potessi abbraccialo forte.
Il sole sembrò emergere dalla terra quella mattina. 
L'alba mi sorprese a correre guardingo verso il mio futuro. 

Arrivai ad una strada, mi accasciai sul ciglio per non essere visto. Attesi lì che il sole tramontasse e che fosse ancora notte. Alcune piante mi protessero dalla calura del giorno. 
Non passò una macchina.
La luna illuminava un paesaggio suggestivo e, le stelle, mi sembrava di poterle toccare.
Davanti a me, sospesa in cielo, la mia guida.

Ripresi la mia corsa anche se più lentamente. La debolezza si faceva sentire.
Mi bruciavano i piedi. Ma noi, noi negri, siamo maledettamente tenaci e resistenti.

Senza accorgermene, mi trovai davanti ad una casa. Una lampada sorretta da un braccio in ferro emetteva una fioca luce che illuminava debolmente un piazzale sassoso. 
Dei grilli cantavano scandendo un ritmo regolare.
Solo una delle sei finestre era illuminata.
Mi appiattii a terra. Mi avvicinai strusciando. Nel parcheggio, solo una vecchia jeep. 
Andai sul retro della casa nella speranza di trovare qualcosa da mangiare o da bere.
Poi un cane iniziò ad abbaiare all'improvviso.
Avevo il cuore in gola. Restai immobile. Vidi che era legato.
Non smetteva di abbaiare. Un'altra luce si accese. Mi gettai verso la veranda:
Avevo visto, sul tavolo una busta.
La presi al volo e corsi dietro la jeep. Restai immobile.
Dalla finestra, la testa di un uomo uscì sospettosa.
Si guardò attorno. Poi chiuse la finestra. La luce si spense.
Attesi ancora un po'. Forse un'ora. Avevo la busta tra le braccia. 
Mi alzai e presi a camminare tutto aggobbito. Passi timorosi e felpati come quelli di un gatto.
Camminai finché la paura e il tremore alle gambe non passarono.
Urinai. Pare che urinando, scenda la tensione.
Mi nascosi in un canale per lo scolo dell'acqua.
Aprii il sacchetto, dentro ci trovai i resti della cena:
bucce di frutta, pezzetti di pomodori che forse ero stato proprio io a raccogliere, 
bottiglie vuote e poi tanta plastica.
Ci trovai anche una busta di latte, ce n'era dentro forse solo un dito: 
Mi sembrò il più buono della mia vita.

Ripresi a camminare.
Raggiunsi un paese ma ci girai alla larga. Poi arrivai ad una strada larga e ben asfaltata.
Macchine sfrecciavano ad alta velocità.
Seguii quell'enorme strada fino ad una stazione di servizio. Alcuni camion erano parcheggiati.
Trovai una fontanella e finalmente mi dissetai. Avevo la pancia piena d'acqua. 
Mi lavai anche un po'.
Era notte, ma fece presto giorno.
Alcuni tizi scesero dai loro mezzi, il bar della stazione di servizio accese le sue luci.
Non sapevo cosa fare.
Ai lati della strada, c'erano mucchi di carte carte. Cercai qualcosa da mangiare ma non trovai nulla.
Un uomo tarchiato e tutto tatuato aprì il retro del suo camion bianco, entrò dentro ed uscì quasi subito. Lasciò la porta socchiusa mentre andò alla fontanella a lavarsi il viso. Sputò sull'aiuola uno sputo catarroso che fu subito assorbito dalla terra.

Allora, mi venne in mente di saltare su quel camion, di lasciarmi inghiottire dalla strada come quello sputacchio s'era fatto inghiottire dal terreno.


È tutto pieno di scatoloni e c'è puzzo di chiuso.
Io sono qui racchiuso in questa gabbia buia che spero possa guidarmi alla libertà.

Sento l'asfalto sotto di me. Ho ancora nel naso l'odore del tormento.

Proprio ieri sono morto, ieri che ero ancora uno schiavo.
Ieri, era qualche giorno fa.

Ora proverò a dormire un po'.
Non ho più voglia di morire.
Questa mia maglia di una squadra di calcio italiana, è polverosa e puzzolente.
Mi tocco la pelle. Forse, la nostra colpa, sta nel suo color


Ieri era qualche giorno fa
Non ho più voglia di morire:

Avrò una moglie, faremo un figlio ed avremo un cane.
O forse non arriverò da nessuna parte, forse resteranno soltanto parole.

Ora proverò a dormire un po', penserò a tanti eleganti violinisti che suonano dove mare a cielo sembrano incontrarsi, dove l'armonia tocca il centro dell'universo. 

Mi sento felice.
Sto correndo da mio figlio.