venerdì 8 agosto 2014

Venerdì.




E la mente è tacita, come l'agosto della campagna.
Qua e là il fruscio di qualche serpe, poi di una lucertola;
ma anche il gatto è troppo fiacco per cacciare.
Lasciatelo stare.
Soffia poco vento caldo,
e l'erba si lascia muovere, stanca, senza opporre resistenza.
E vince su tutto il verde degli alberi,
e quello dei campi di erba medica,
e poi il giallo acceso di alcuni fiori,
poi quello smorto dei campi tagliati da parecchio.
Cosa sente l'orecchio?
E la mano che ci presenta la materia, cosa sente?
Cosa sente l'imbrunire?
E cosa sentono questi piedi scalzi pieni di pinzi e vesciche,
gonfi di scarpe troppo strette portate comunque?
E i cipressi che mi separano da quelle mucche?
Silenzio.
Un aereo attraversa il cielo col suo rumore,
poi tutto nuovamente muore,
silenziosa è la campagna,
è la mente s'acquieta.
E voialtri odiate la resa, l'addio alle armi, la pace senza gloria.
Sono stanco, ma non affranto.
Questo è il riposo del guerriero,
il pompino degli dei, quello col miele caldo,
e a scuola ho sempre fatto confusione tra aglio e caglio,
forse mi sbaglio ancora:
fate posto a una nuova aurora.
L'orologio segna un'ora nuova,
quest'ultima è passata senza bisogno di coraggio,
andata come un miraggio,
mentre in fondo alla vallata ogni cosa resta,
tutto fermo immobile, senza traccia di una ricercata bellezza,
e le strade polverose son deserte,
e le case tutte assorte,
i campanili sempre là,
alti ma non troppo,
a delimitare due mondi, il terreno e il celeste, a voi la scelta.
Allora è vero, tra il susino e il pero c'è una trappola mortale,
lo conferma un raggio di luce che rende lucida una enorme ragnatela, che alcune mosche scansano abilmente; ma eccone una che rimane imbrigliata. Freme e ronza, mentre un ragno la avvolge lesto, fiero della sua destrezza, in una mortale carezza.
Una cicala si schiarisce la voce,
ma è troppo caldo per cantare.
E tutto tace nuovamente.
Del sudore mi cade dalla fronte, un rivolo di gocce s'insinua tra i peli del petto, non trova sbocco per scendere più giù e allora si ferma, e ristagna.
Nulla all'orizzonte, solo una nuvola bianca e solitaria che chiameremo Chiara, come la sera di questo venerdì, dove tutto tace.

lunedì 28 aprile 2014

L'amore.

Occhi assenti, una voce laconica e rotta, tremore alle mani. Il suo essere sempre composta e impeccabile era tradito da un qualcosa di profondo che le aveva scosso lo spirito. Non avevamo ancora avuto modo di rivederci con la Mire, e dunque le porsi le mie condoglianze. Alza lo sguardo e resta inebetita, con la bocca stranamente impastata, storta e con una ricottina giallastra ai lati. Sembrava portasse il peso di una qualche colpa, la vergogna di un peccato inconfessabile, una croce enorme che la rendeva più gobba del solito. La feci sedere su uno sgabello vicino allo scaffale dei biscotti, le portai un bicchiere con dell'acqua del rubinetto e la persuasi a raccontarmi tutto.
Siamo in un piccolo paesino in provincia di Firenze. Lontano dai ronzii della città, nascosto tra le rotonde colline verdastre sulle quali sembrano appoggiate case tendenzialmente di colore giallognolo, dove c'è questo insignificante paesino, spesso sommerso dalla nebbia.
In questo insignificante paesino, accadono cose normali come da qualsiasi altra parte.
Accade che si muore. Morire tocca a tutti, grazie a dio è una di quelle certezze che puoi star tranquillo, o puoi agitarti quanto ti pare e provare anche a scappare, fai un po' quello che ti pare, tanto ti tocca, non c'è nulla da fare.
Arriviamo a dire qualcosa di serio.
È inutile star qui a descrivere il paese dove s'è svolto il fatto in questione, basta solo aver presente la piazza principale, grossa più o meno come un campo da calcio, dove sorge il monumento ai caduti, ma non è una piazza coi sampietrini e tutto: è un giardino. Un giardino con alberi ormai belli grossi, prati, vialetti di ghiaia, aiuole, merde di cane qua e là, nidi di uccelli, schiamazzi di bambini nei giorni di sole e pozzanghere nei giorni di pioggia. A circondare la piazza c'è una strada, oltre la strada, case. Basta immaginare un sasso buttato nell'acqua e i cerchi che si formano.
In una di quelle case abitava Agostino Innocenti. Sullo stesso lato della piazza, due portoni più a sinistra, c'è la mia bottega.
Agostino lo conoscevo bene, veniva tutti i giorni con la moglie a prendere il pane e quello che gli serviva, lo conosceva mio babbo e, prima di lui, mio nonno.
Mica voglio star qui a dire che come lo si conosceva noi non lo conosceva nessuno, è giusto per dire che la nostra bottega è lì da quarantanni e che Agostino s'è sempre servito dai Tagliaferri.
Tre generazioni di bottegai che di gente ne ha vista e di storie ne ha sentite.
La scorsa settimana, martedì per esser precisi, prima di andare a lavorare, saranno state le otto meno dieci, butto lo sguardo agli annunci mortuari e vedo che anche Agostino Innocenti ha lasciato questo mondo. Cosa normale, non ci badai troppo, muore tanta gente, a ottant'anni si muore senza troppo preavviso, basta un colpettino, un'influenza trascurata, una caduta dalle scale.
Mio nonno disse subito che aveva fatto la morte dei giusti, rapida, senza troppa sofferenza, senza dar noia a nessuno.
Per tradizione noi Tagliaferri non andiamo mai ai funerali dei nostri clienti, gli affari sono affari. Sennò, almeno una volta a settimana, bisognerebbe tirar giù il bandone e questo non sarebbe giusto per chi ancora è in vita e ha bisogno di un po' di latte o di una costola di sedano per fare il brodo.
Torniamo a noi.
La Mire se ne stava seduta sullo sgabello, tra le mani tremanti il bicchiere con l'acqua, la testa china. Io le stavo davanti, in piedi, con le punte alle nove e un quarto, curioso come un gatto di sapere come il buon Agostino aveva spirato.
Poi, cautamente, controllando che in bottega non ci fosse nessuno, iniziò a parlare:- “Lo conoscevi, un uomo elegante, mai un giorno di ritardo al lavoro, mai una assenza ingiustificata, sempre pulito e profumato, i capelli sempre fatti, attento a non deludere mai nessuno”- s'interruppe bruscamente quando entrò la signora Coralli. Affetta da podagra, la Coralli trascinò quelle sue enormi gambe fino al banco della gastronomia e qui si appoggiò al vetro, goffamente, e indicò il salame. Gliene affettai un etto abbondante, velocemente e senza troppe accortezze, sapevo che la Mire stava vuotando il sacco, che stava per dirmi qualcosa di non ordinario.
La Coralli se ne andò un po' delusa dalla poca considerazione che le avevo dato.
Mirella continuò:- “aveva deciso per domenica sera, ma poi non ci riusci, dopo vari tentativi rimandò all'indomani”- eccoti quelle rompicoglioni delle zie, tre donnette di cent'anni l'una, uggiose più di un giorno di novembre, impossibili da accontentare, non c'è mai un santo giorno che tutto fili liscio come il piscio. Ci misero venti minuti per prendere un pezzetto di pane e due carote, e anche dei piselli congelati che secondo loro non erano più gli stessi, e anche un dito di schiacciata, che però era troppo cotta e gliela feci toccare tutta prima di trovare quell'unico minuscolo perfetto pezzetto che per loro era cotto a modo.
Poi videro Mirella e la salutarono, condoglianze sopra e sotto, baci e abbracci, la parola infarto che risuonò almeno tre volte, poi ancora baci, e finalmente se ne andarono.
“Gli avevano diagnosticato un tumore,” -proseguì la Mire- “uno di quelli forti che ti mangiano tutto e velocemente, avrebbe dovuto iniziare la chemioterapia proprio quel lunedì, ma non voleva, non gli piaceva, non accettava di consumarsi lentamente, di lasciare un'immagine di sé scarnificata dal male.” Bevve un sorso d'acqua e la sua croce sembrava alleggerirsi lentamente e continuò:- “lo disse subito che non sarebbe andato in ospedale”.
La interruppi e posi una domanda secca: si è ammazzato?
Vedevo che non era tutto, la mia domanda era sciocca, debole. Perché così sconvolta se sapeva tutto? Perché tanta angoscia se era quello che Agostino voleva? Che peso si postava appresso la vecchia Mire?
Biascicò qualcosa, tipo un “mbs osat io”, allora dissi: - “non ho capito cosa hai detto”.
Mi guardò fisso negli occhi, sentivo che eravamo ad un passo dalla verità.
“Sono sempre stata una buona cristiana, anche Agostino lo era. Ora, sul finale della mia vita, ho buttato all'aria tutto, mi son guadagnata un posto all'inferno, ma va bene così. L'ho ammazzato io”.
Mi cascò la penna dalle mani, quella donna così rattrappita mi fece una tenerezza unica, rimasi tanto sconquassato che non mi venne nulla da dire. Non ci capii davvero più nulla, mi venne solo da togliermi il grembiule.
Poi si alzò, fragile ma inscalfibile, fiera ma in ginocchio, e chiese del pane, due pere, una banana e una melanzana. Pagò con gli spicci, poi disse una cosa che mai scorderò: dell'opinione altrui non ho considerazione, ti ho detto questa cosa perché dovevo dirla a qualcuno, il mio è stato un gesto d'amore.
Chiusi bottega prima del tempo, saranno state le una meno venti o giù di lì. Mi attendeva un pomeriggio di riposo, sarebbe toccato a mio babbo ascoltare nuove storie e vedere altra gente.
Arrivato a casa riempii subito la vasca, non mangiai nemmeno, non portai neanche fuori i cani.
Nudo mi guardai allo specchio, un minuscolo bachino grinzoso sbucava da una massa di peli, sul corpo l'odore di alimenti e sudore. Poi mi immersi nell'acqua per togliermi di dosso un'altra storia da digerire con calma, l'amore che giustifica tutto, il dolore come una cosa da cui fuggire senza rimorsi, senza il desiderio di assaggiarne il gusto.
Poi mi venne da pensare al modo in cui l'aveva ucciso. Conclusi che l'aveva soffocato.
Cose che sicuramente accadono un po' dappertutto, che anche in questo paesello sommerso dalla nebbia, accadono. Il fatto è che stanotte non ci ho dormito sopra, mi sarò rigirato cento volte nel letto, tutto il tempo a pensare che cosa avrei fatto io. Tu, cosa avresti fatto? L'amore è davvero così compatibile con la morte?



sabato 26 aprile 2014

"Somari"

Animali da soma, vestiti a festa con la camicia stirata da poco. Animali da soma. Gente che lotta costantemente, senza un futuro, gente che lotta così perché vuol lottare. Che si fa, si muore? No, si lotta, va bene così, si lotta senza speranza perché, in fondo, la lotta ci piace. Siamo amici di ogni lotta perché in noi scorre un'anima futurista. Come la mettiamo? Qual è il senso di questa esistenza? Forse semplicemente non c'è, e allora ti abbandoni tra le braccia di un rum scadente aspettando un guizzo di dio, una parola di verità.
Ma va bene così, noi siamo i vinti, andiamo avanti, alziamoci domani e facciamoci la doccia, prediamo un caffè bollente, facciamoci la barba come se nulla fosse accaduto, come se la notte non fosse passata, come se nulla fosse successo.
Ma c'è la consapevolezza di aver toccato qualcosa, la sensazione di essere stato in un luogo ameno e rivelatore. Inganniamoci di questo, diciamolo: io l'ho visto, io l'ho toccato.
Momenti difficili, momenti di stallo, la maledizione del settimo anno che tocca anche a noi, che ci tocca nel profondo. Uno stupido come me che appunta qualcosa come adesso nella speranza che possa nascere qualcosa di utile. Germi di una malattia che si chiama racconto. Siamo in tanti, siamo in pochi, questo non lo so. Coloro che sono, sono animali da soma. Che ci resta? Chi siamo? Come si fa? Si prova a fare qualcosa, si studia, poi qualcuno ti prende alla gola, ma non è paura di morire, Cristo santo, la morte non ci fa paura, è la vita che ci fa le gambe tremanti, si ha paura delle sfumature, di un verde diverso, di un viola diverso. Si ha paura nonostante tutto. E la vita che ci ha insegnato? Nulla, santo cielo, della vita non si è capito nulla, e si è di mercoledì sera ubriachi marci a girare per il mondo, con uno zaino di desideri. Ragioniamo sui problemi, ma si ragiona da soli, ci si perde in infiniti soliloqui, giocando a tennis con il nulla, che si mangia decine di palline.
Come si risolve? Non si risolve, non c'è un pertugio con un po' di luce, non si trova, e perché non si trova? Perché siamo deboli. Il coraggio che ci manca è dovuto al fatto che non siamo stati in trincea, non abbiamo visto i topi, i cadaveri gonfi di gas che puzzano e poi rendono fertili i campi; noi non li abbiamo visti, santo cielo. Si parla solo per parlare, perché se ne ha voglia, si va avanti. Si pensa che la letteratura sia quello che abbiamo letto ma non abbiamo letto un cazzo, Dio solo sa perché ma Tolstoj non l'abbiamo capito, Dostoevskij l'abbiamo abbandonato. Cristo.
Non ho voglia, l'ho detto. Sigarette? Datemi una sigaretta. Cristo.
Perché vedi, in sottofondo c'è anche una musica piacevole. Mi sono rotto. Temperatura ideale, saranno 17 gradi. L'amore è un gioco a perdere? L'amore cos'è? Come si ama? Desiderio di dormire con qualcuno? Desiderio della sua carne? La consapevolezza che senza lei non sarà più nulla come prima, che le notti non saranno più notti. Il gioco dell'amore. Inganniamoci che abbiamo capito.
Il cuore ce lo rompe la vita. Simo nati piangendo, vagiti strazianti.
Ho bisogno di scrivere un altro romanzo, che sia positivo, pieno di felicità. Vedo due asini, sembrano felici, l'unico nostro sbaglio è che siam voluti rinascere in corpi umani. Siamo stati tracotanti nel momento della scelta, pensavamo di essere pronti a nascere uomini, pronti a farci flagellare, a diventare re con una corona di spine, a farci crocifiggere pubblicamente.
Fondamentalmente ho bisogno di scopare, proprio di fottere, di sentire le palle che sbattono su di una fica: pam, pam, pam. Mentre lei dice basta, che il culo fa male, ma in realtà sta godendo, e allora lo schiaffeggi, poi con le mani lo apri e vedi Dio. Dio è un buco di culo rotto. Dio è lì che ti guarda e dice: godo ma fa male. Dio è dolore e godimento.
Cristo è il mio mito. Ma preferirono Barabba. Allegorie. E il Barabba di turno si salva sempre. Sono il messia di me stesso. Ho visto la mia fine, seguirò la mia strada, poi morirò. Tutto questo per non dire nulla, se non l'hai capito lascia fare, scorri oltre, lasciami in pace. Parlo per chi mi vuol capire.

venerdì 20 settembre 2013

"Le zie"

Sì, davvero, ho provato con tutto me stesso, lo giuro su chi vi pare. Non va, non ci riesco, odio le cose troppo false, artificiose, ipercostruite. Ho provato a scrivere un racconto non realista, ma proprio non ci sono riuscito. Tipo m'ero buttato sulla fantascienza e cose del genere, roba sulla fine del mondo e minchiate varie. Niente da fare, ho provato, ma non va, non fa per me.
Poi, questa gente che ci circonda è troppo bella per tacerne l'esistenza. Per dirne una, oggi ero in bottega che servivo le mie clienti più affezionate, tre tizie che chiamo zie perché le conosco da sempre, ma non sono davvero le mie zie.
Delfina Costi, Mary Banfi ed Ernestina Borelli. Donne impeccabili nei loro novanta e rotti anni, adorne di gioielli, col rossetto fin sulle guance, avvolte nei loro vestiti cuciti a mano, lucenti con quei loro capelli tinti di un biondo davvero troppo innaturale, sorretti da quintali di lacca che si portano appresso lasciando la scia dappertutto.
Bene, sarà che ieri sera ho fatto una bella chiavata, infatti stamani ero contento, raggiante, brillante da restare quasi antipatico, e mentre servivo le zie gliel'ho detto: -belle tutte e tre, siete belle come il sole (ci stava bene un punto esclamativo ma lo trovo un'offesa all'estetica della pagina). E gliel'ho detto mentre stavo affettando del prosciutto cotto per la Delfina, e questa mi guarda e mi dice:- no, la schiacciata non mi serve, riscaldo quella di ieri-. Allora la Mary s'è messa a ridere dicendomi che la Delfina non aveva capito perché tremendamente sorda, quindi la guarda e le dice: - ha chiesto se ti è passato il dolore al femore-.
Allora le guardo entrambe e faccio come a dire sì colla testa. Delfina inizia un soliloquio infinito riguardo a quel dolore, parla di risonanze, di agopuntura, di creme, di dottori e di pasticche, orari d'ingerimento, resoconto della pressione relativo alle ultime settimane, gradi mancanti alla vista e via discorrendo a ritroso fino a dirmi che a cinque anni ha avuto i gattoni.
Tutto questo mentre la zia Ernestina ogni tanto si intrometteva nel discorso sostenendo che nel pesto, il vero pesto, quello alla genovese, ci vuole una patata nell'acqua di cottura della pasta.
Perciò discorsi senza né capo né coda, e tutte sembravano d'accordo, tutte concordanti in diversi punti del discorso tranne che per il pesto. Infatti, mentre la Delfina rimuginava sul fatto che forse non erano i gattoni ma il morbillo, Mary diceva forse ci stava bene anche un pugnello di fagiolini insieme alla patata, ma qui Ernestina è intervenuta con forza, dicendo che una mezza mela non c'entrava proprio nulla.
Mondo parallelo il loro, mondo sorprendente, attorniate da cose che non sono state dette, vivono in un mondo di fraintendimenti ma che comunque sta in piedi.
Mentre le osservavo che lentamente uscivano, mentre mi salutavano ed io ricambiavo, mi son detto che devo stare qui, qui tra la mia gente, a parlare di loro. Inutile rompermi la testa a cercare di scrivere un racconto parlando di cose che non esistono e via discorrendo.
Poi, farò un po' come mi pare, fortunatamente, qui, non devo render conto a nessuno.
Sì, lo so, di questa riflessione forse non ve ne importava un fico secco, era solo per scrivere qualcosa.

martedì 10 settembre 2013

"Si prova"

Bene. Cane bastardo di un foglio bianco: a noi.
Pipe che fumano, comignoli che sculettano, dita che saltellano, tedeschi che rastrellano.
Notte che rende indefinito tutto, profili, oggetti, ricordi. Notte che non vedo ma che mi avvolge, oscurità che apre la strada a nuove percezioni del tutto inesplorate. Ciechi e veggenti. Visionari che con difficoltà accettano di tornare alla realtà. Dicono: no! Voglio tornare a conoscere come il folle!
E folle è la mia disperata ricerca di concentrazione. Ispirazione annidata da qualche parte del mio corpo come un virus che esplode quando poi gli pare. No, son piani diversi. Come? L'ispirazione potrebbe esserci ma è come se mi mancassero i mezzi. Resisti. Resisti. Ti saresti bevuto anche le tue lacrime, ti sei anche leccato le braccia sudate.
Si cerca il coraggio di scrivere da sobri.
E le stelle girano. Dire che la terra è rotonda è come dire che esiste un qualcosa di perfetto e sommamente intelligente dal quale noi tutti siamo stati creati. Davvero, per me la terra è piatta.
Pensi che nella tua vita hai scritto solo nei momenti difficili, in quei momenti in cui non sapendo dove andare resti fermo e fai una cosa che pare fine a se stessa ma poi, in realtà, ti aiuta a chiarirti le idee e a vederci più chiaro. E accade così, senza pensarci troppo. Tipo la notte che dischiude l'invisibile. Forse non ho più bisogno di scrivere, se i miei conti tornano, se questo tempo si scandisce regolarmente, tra sei anni ci sarà un'altra crisi e quindi le coNdizioni ottimali per tornare a narrare storie. Ma è una cazzata, fate conto che non abbia detto nulla. Mi sono promesso di non cancellare nulla, di lasciare ogni parola, errori compresi (vedi N maiuscola a condizioni).
E i ragni tessono trame che a noi non fanno paura, ma questa povera mosca sopra la mia testa ne è rimasta vittima.
Voi tutto bene? Lo spero.
Dai, sono a un passo da una svolta, si scrive senza spinta. Scrivo anche se tutto va bene, tutti mi dicono che sono (e penso di esserlo per davvero) una persona allegra e solare. Dunque proverò a raccontare qualcosa di allegro e di positivo. Sì, senza farci caso ho già riempito mezzo foglio ed è andato tutto bene, non ho detto un cazzo ma intanto inizio a ritagliare parole.
Vi racconterò altre storie, è questione coraggio. Lo sto trovando.

sabato 8 giugno 2013

L'eterno ritorno.

Nottetempo ti aspettavo, volevo risentirti, domandarti qualcosa come si faceva un tempo.
E penso che sia stato tempo perso, ore tolte alla vita.
E Iris mi aveva avvertito per tempo,
sapevo già tutto prima che tu arrivassi:
c'era scritto sui sassi su alla stazione,
mente un vecchio dal cappello nero saliva su un treno che faceva ciuf ciuf e due ragazzi si baciavano accarezzandosi il volto.
Lì l'ho capito.
Ho capito che saresti tornata vestita con un qualcosa di rosso
e un fiore tra le mani o nei capelli mentre un po' di vento muoveva piante, senza dar noia a nessuno.
Ora guardo i tuoi mignoli smaltati,
e non so più che dirti.
Mi obblighi a restare fermo, mentre tutto corre, e i cespugli crescono e le rane cantano e l'aria fa nitriti forti tra gli alberi nuovi.
Un tempo eri la spinta giusta per riflettere, per scrivere qualcosa.
Ora non ho più voglia.
Aspetto solo che tu te ne vada: non ho niente da dirti.


sabato 18 maggio 2013

Al marchese Santini.

Fraterno augellin, come sopravvivi al tuo pensier? Come sopporti quel duce che ti domina?
Per lo stesso oceano galleggiamo, dallo stesso tormento siam dominati.
Al dì e alla sera, non abbiam pace.
Condividiamo il nostro male, ne tracciam l'immensa potenza.
Infinita brama c'assale, che sia glabra come il palmo di questa mano, o folta come la mia testa, sfumata o ricamata: la amiamo. È portatrice di una bellezza disumana, indescrivibile.
E tu, e tu, come ti liberi dall'idea della reina?
Frale io son.
Quando sen giva il giorno, ignudo e solo, nel bagno, con l'ano sospeso su una pozza d'acqua, io nel pensier mi fingo un albero grimo di quei frutti. Frutti d'ogni specie. E mi scaldo.Li mangio e il loro succo scende dalla mia bocca giù lungo il collo e poi sul petto.
Il membro s'indurisce, colla mancina lo strangolo ritmicamente fino a che un sussulto mi dà i brividi dappertutto e il tormento s'acquieta.
Ma la speme che me ne sia liberato per l'eternità, è breve.
Appena son sul fianco, eccolo che torna e nottetempo mi fa compagnia.
Fraterno augellin, a noi la vita è male.

domenica 3 marzo 2013

Troppe pecore.

Sono passati ormai alcuni giorni da quando è avvenuto questo fatto.
Credo sia arrivato il momento buono per raccontarlo. Due volte all'anno, ormai da tre anni, prendo il treno e vado in Romagna a scopare con la mia professionista di fiducia.
È per me diventato un rito, una sorta di benedizione con valenza semestrale rinnovabile solo lì, solo da lei, in quella palazzina anni settanta, da quella biondona non tanto bella ma tanto porca che rimetterebbe al mondo il mio povero zio Carmine. Pace a lui.
Arrivo sempre tutto lavato, profumato, con la gelatina nei capelli, coi peli del pube spuntati e le mutande nuove. Le prime volte partivo eretto e stavo così fino all'arrivo, quello del treno e l'altro. Ma non voglio parlare di come sia salutare andare con una mignotta. Poi, qualcuno mi conosce, e questo qualcuno sa che cerco sempre di scrivere cose che non siano da bollino rosso o banali. Almeno ci provo. Certo, non sarebbe banale raccontare delle strane mosse provate, delle mie sensazioni, degli strani versi di quel demonio, di quella sua fissazione per la pecorina.
Ma lasciamo stare. Bene, principiamo per dire che non sono entrato in quella palazzina nonostante sia montato in treno e sia arrivato fino in Romagna e mi fossi spuntato i peli e tutto. Avevo fissato ma non mi sono presentato, spero non se la sia presa. Non per giustificarmi, ma tra il lavoro ed un esame mostruoso che sto preparando sono un po' stressato e volevo andare a farmi dare una bella benedizione.
Quel che vale la pena raccontare, almeno penso, è ciò che mi è capitato in viaggio, all'andata, seduto sul treno, col quaderno sulle ginocchia e con la penna nella mia mano dalle dita tozze.
Era una giornata piovosa, da queste parti, in inverno, piove sempre. È successo lo scorso mercoledì, dieci giorni oggi, giusto per essere precisi.
Mi siedo, il treno parte.
La mia mente vola in quella stanza dalle pareti spoglie e a quello specchio sul soffitto, con l'immaginazione fermo le immagini della memoria e le arricchisco con immagini di fantasia che vedono me attorcigliato a quel corpo possente ma molto femminile in stravaganti posizioni da far invidia ad un professionista.
Qualcuno mi urta la spalla.
Mi volto, è un uomo anziano e storpio, vestito molto bene, distinto, educato.
Mi chiede scusa e gli domando se sta bene. Ha tra le mani un mazzo di fiori.
Dice di sì, poi mi domanda se può sedersi davanti a me. Dico sì, che non ci sono problemi.
Si siede sputando aria dalla bocca con delicatezza dopo essersi tolto un giubbotto di quelli lunghi che hanno un nome preciso ma che ora mi sfugge. Capelli bianchi bianchi tagliati da poco e messi tutti da una parte, viso grinzoso, dentiera linda, una faccia grande ma non grassa e basette tagliate al filo degli orecchi.
Guardando oltre il vetro, mi dice che ama la pioggia . No è una semplice frase di circostanza e l'apprezzo fortemente. Rispondo che la pioggia ha il suo fascino ma preferisco le giornate di sole. Sorride. Dice che tutti i giovani amano il sole e le belle giornate, che il sole è ciò che più li rappresenta.
Forse è vero anche se per un mio amico non è così, ma non glielo dico e muovo la testa come a dire che forse è vero.
Sono a mio agio.
Dalla tasca del mio giubbotto tolgo il taccuino e la penna. Apro al segno e rileggo le fondamenta per un racconto che oramai non scriverò più perché ci lavoro da tanto e mi è venuto a noia. Succede spesso. Mi porto le mani alle tempie e poi sugli occhi, faccio come per togliermi le cispe, sbuffo.
Forse ho la febbre, ho dolori dappertutto, specie alle giunture delle ossa. Chiudo gli occhi. Apro l'occhio sinistro e vedo l'uomo che ama la pioggia che guarda ancora fuori con sguardo amorevole. Ha gli occhi verdi e profondi, tanto profondi che più li guardo e più vorrei guardarli per vedere fin dove portano.
Direi che sono uno di quegli scrittori fissati coi volti e con gli occhi, spesso ne resto incantato, spesso sono il punto di partenza per uno dei miei racconti.
Sbadiglio, ad alta velocità il panorama scorre, il filo non so di che cosa è una costante al di là della carrozza. Una donna dietro di me parla al telefono quasi bisbigliando per non disturbare noialtri passeggeri silenziosi. L'uomo mi guarda. Lo fisso e lui mi fissa.
Tutto si ferma improvvisamente, afferro la penna senza intenzione, sprofondo in quel verde segnato da un vissuto da raccontare, il mio corpo pare smaterializzarsi e perdo coscienza di tutto, anche del tempo, anche del rumore del treno che scorre sulle rotaie sotto ai miei piedi.

- Correvo come un pazzo, i forasacchi avevano riempito i miei calzini e il terreno che calpestavo aveva perso ogni tonalità di colore, tanto andavo forte.
Eccola la storia, eccoli i momenti di paura, ecco il potere fuori da ogni controllo.
Le lacrime tagliavano il mio viso da bambino, l'attrito con l'aria le scaraventava a terra e mi sembrava di percepirne il rumore quando si rompevano dietro di me. La mamma mi diceva di correre, tra le sue urla strozzate dal terrore era tangibile la paura per il mio destino incerto, il mio cane abbaiava e poi il rumore di uno sparo invase l'aria ed andò ad infilarsi negli angoli più nascosti di una campagna inerme, basita, annichilita dalla follia di uomini incapaci di ragionare o provare pena per ciò che andavano compiendo.
Poi, al processo, diranno che era solo il loro lavoro.
Il cane smise di abbaiare. Mi voltai. Due camionette, sei uomini in divisa, e là la mia famiglia che non vedevo ma sapevo che c'era. Corsi ancora. Salii su di un albero. Poi cinque spari, quasi contemporaneamente. Il cuore mi batteva forte perché avevo capito, non era la corsa o altro, avevo capito che erano tutti morti tranne me. Vidi le camionette ripartire, uno degli uomini in divisa sparò ancora, verso il sole. Scesi dall'albero e corsi, ma non verso casa, verso il fiume.
Erano le sei di sera quando li vedemmo arrivare, mio padre gli andò in contro, mia madre mi disse di smetterla di giocare col cane. Si respirava un'aria densa di paura. Cercavano cibo e mio padre disse di non averne, loro non ci credettero e lo schiaffeggiarono. Cadde a terra. I nostri animali li avevamo nascosti nel bosco poco distante da casa e non li avrebbero trovati neanche con la giusta indicazione. Mio zio iniziò ad urlare per mandare via quei bastardi affamati e la situazione degenerò in un istante. Presero mia madre colla forza, sgambettava e le caddero gli zoccoli. Mia sorella piangeva, mia nonna stava in silenzio con le mani raccolte dietro. La mamma mi urlò di correre. Mi voltai per un istante e vidi che avevano i fucili puntati addosso.
Corsi per un po', un po' parecchio, e arrivai al fiume, lo attraversai e bevvi dell'acqua. Calò la notte. Avevo fame.
Mi rifugiai sotto ad un enorme masso da quale si sprofondava in una buca grossa come un elefante. Passai lì la notte. Il cinguettare degli uccelli mi svegliò. Era l'alba, mi ero addormentato senza accorgermene. Era un sogno? Era davvero successo quel che era successo? No, era realtà, ero desto, e sì, era successo quel che era successo.
Lo zio, durante le cene, dopo aver alzato un po' il gomito, diceva sempre che prima o poi ci avrebbero ammazzati tutti. Mio padre faceva di tutto per tappargli la bocca, ma lui continuava. Lo zio è sempre stato considerato un pazzo, la nonna diceva che aveva letto troppi libri di filosofia e lo avevano stordito più di quanto non lo fosse da piccolo. Con il babbo avevano continui bisticci, lo zio aveva le sue idee e non c'era verso di fargliele cambiare. Probabilmente era il contrario, ma non voglio sta qui a giustificare nessuno dei due. Alla radio, si sentivano sempre gli stessi discorsi, detti sempre dalla stessa voce, e lo zio borbottava in segno di disappunto. Mia sorella aveva solo quattro anni e per quel poco che possono capire i bambini, le sue domande, ora che ci penso, non avevano nulla di stupido.
Io aiutavo mamma in cucina, sbucciavo le patate, apparecchiavo, poi aiutavo mio zio nell'orto, e mia nonna a fare tutto quello che faceva la nonna. Quando ancora avevamo le pecore, prima che mio zio le vendesse pensando che fosse una mossa astuta perché tanto ce le avrebbero prese, le badavo io. Discussero settimane per quelle pecore vendute.
mattina che mi svegliai solo, in quell'umida buca, pensai che forse sarebbe stato meglio morire con tutti. Cosa avrei fatto? Cosa ne sarebbe stato di me? Tornai al fiume, feci il bagno. Avevo voglia di tornare a casa che distava non meno di due ore di corsa, ma preferii non farlo.
Sentii delle ragazze ridere. Mi rivestii in fretta e quatto quatto andai verso quelle risa. Mi videro. Mi chiamarono. Andai loro in contro. Erano sorelle, quasi donne, restai incantato dai loro capezzoli inturgiditi sotto quelle loro fini camicette bianche. Mi domandarono il mio nome ma non risposi. Mi portarono a casa loro. Arrivati in quella casa (molto simile alla mia), dissero di avermi trovato al fiume, impaurito. Avevano le pecore e le riconobbi, erano le nostre vecchie pecore. Mi fecero mangiare. Mai desiderato così tanto un piatto di minestra. Stavo in silenzio. Mi chiesero se ero muto o sordo ma scossi la testa. Il padre delle ragazze si sedette al mio fianco e mi guardò in faccia, poi con la mancina mi prese il mento e lo volse verso di sé. Disse di conoscermi, che il mio volto gli era familiare. Piansi. Singhiozzando dissi di chiamarmi Attilio. Tutti si raccolsero attorno a me e volevano che parlassi e dicessi cosa fosse successo. Gli raccontai della mia famiglia. Dissi che forse sarebbero venuti anche da loro. Il padre ed il fratello maggiore delle ragazze andarono a casa mia in cavallo. Tornarono dopo alcune ore che trascorsi accarezzando le mie pecore, in silenzio. Mi abbracciarono e dissero che si sarebbero occupati di me come se fossi loro figlio. Una delle ragazze, Carla, la più piccola delle due, divenne mia amica.
Nei giorni seguenti curai le pecore, le accudivo come avevo sempre fatto. Un pomeriggio, ero col mio bastone poco distante da casa a vedere se le pecore stavano bene, se brucavano o meno. Vidi arrivare due camionette, quelle stesse camionette con quegli uomini in divisa che fecero quel che fecero alla mia famiglia. Inizia a correre per avvertire tutti, entrai in casa strillando e la madre delle ragazze mi tappò la bocca e mi strinse forte a sé. Mi dimenavo come un pesce e poi mi dette un ceffone in faccia dicendomi di stare calmo. Arrivarono le sorelle e mi dissero che era tutto sotto controllo. Carla mi portò in camera e dalla finestra vidi che suo padre caricava una pecora su una delle camionette.
Per alcuni giorni non capii cosa fosse successo ma non feci domande. Tutte le notti piangevo, avevo gli incubi che venissero a pretendermi, che mi stessero cercando.
Poi, una mattina, capii che barattavamo la loro sopravvivenza con delle bestie.
Il tempo passò. L'inverno seguente mi ammalai, il padre delle ragazze mi portò un' arancia e fu un regalo meraviglioso. La guerra finì, me lo urlarono le sorelle mentre me ne stavo con le mie pecore e pioveva.
Molte volte pensavo al Dio della nonna, prima di andare a letto me ne parlava sempre, tutt'ora non capisco dove se ne fosse andato in quegli anni.
Diventai grande.
Carla andò a studiare in città, uno dei suoi zii morì per colpa di uno scalcio di cavallo dritto sullo sterno. Io continuai a badare alle mie pecore, a tosarle con l'arrivo dell'estate. Carla si sposò, sua sorella si fece suora, i suoi genitori divennero vecchi e stanchi.
Prima che morisse, il padre di Carla mi trovò un impiego in città e per molti anni lavorai diligentemente da un notaio sghembo e gentile. Abitavo in un piccolo appartamento in affitto da una donna anziana che immaginavo fosse mia madre. Poi incontrai mia moglie, uno splendido fiore dai capelli biondi. La casa in cui abitavano i miei genitori fu venduta e con i soldi comprai quella in cui stavo in affitto, pensò a tutto il notaio per cui lavoravo. Restai sposato per soli pochi anni, mia moglie morì quando nacque il nostro primo figlio. Ogni notte mi rintronano in testa quegli spari, mia madre che mi urla di correre, il vento sulla mia faccia.
La storia della storia.

- Mi svegliai di botto.
L'uomo davanti a me fissava ancora la pioggia che non la smetteva di cadere. Sul mio taccuino c'erano appuntate alcune frasi slegate tra sé. Scesi dal treno stordito per quella febbre che mi sentivo addosso e per il sogno fatto. L'uomo mi salutò dicendomi che nel sogno avevo urlato. Lo salutai guardandogli ancora gli occhi. Che sia stata la vera storia di quell'uomo? Triste davvero.
Al bar della stazione presi un caffè macchiato in tazza grande e poi mi avviai verso casa della bionda anche se ero in anticipo di ben un'ora. Pensai che qualcosa per ammazzare il tempo l'avrei fatta, tipo starmene un'ora sotto la pioggia a sentire le gocce ticchettare sul mio ombrello verde, o magari mi sarei scaccolato. Mentre camminavo verso il piacere notai ancora quell'uomo davanti a me, rallentai il passo e lo vidi che suonò il campanello della mia mignotta. Si spiegarono i fiori e l'aspetto elegante.
Restai immobile e girai il culo, tornai alla stazione e presi il primo treno per tornare a casa. Mi feci tutte le fermate ed arrivai nel pomeriggio. Non me la sentii, vuoi per la febbre, vuoi per la storia di quell'uomo, vuoi per quello che ti pare, non me la sentii.

mercoledì 6 febbraio 2013

C'era una volta un marinaio tutto storto che beveva Porto da un bicchiere rotto.

Avete presente la ruvidità della carta vetrata?
La lingua dei gatti somiglia alla carta vetrata.
Stamani mi sono alzato di scatto perché la mia gatta mi stava leccando la fronte. Una sensazione tremenda. Non so precisamente cosa stavo sognando, forse nulla. So solo che, all'improvviso, m'è sembrato che mi avessero sparato alla testa, o che con la parte ruvida della gomma da cancellare qualcuno mi stesse cancellando qualcosa dalla fronte.
Brutto risveglio, pessimo risveglio.
Orribile come poi è stata la giornata che ho affrontato.
Si sta concludendo adesso. Spero proprio di sì, saranno le quattro di notte.
Avete mai scritto con una mano che non è la vostra preferita? Forse per gioco. Sì, io spesso l'ho fatto per imitare mio padre che usa quella opposta alla mia. Ora, sono obbligato a farlo. Sto infatti scrivendo colla mancina.
Se vi racconto quello che mi è successo alla destra, qualcuno stenterà a crederci.
Ma partiamo dal principio.
Accantoniamo il dolce risveglio abrasivo.
Come ogni domenica sono andato a lavorare. Lavorando in un pastificio artigianale, è una cosa normale lavorare la domenica. La gente, specialmente nel giorno di quel Signore, in questo piccolo paese del Mugello, è abituata a mangiare pasta fresca. Non voglio star qui a vantarmi, ma la nostra è di gran lunga superiore a quella di ogni altro pastificio di tutta la Toscana. Dai, un po' di campanilismo, tanto poi, finito di leggere il post, penserete che sono un cretino. Forse lo state già pensando.
Basta, arriviamo al dunque.
Sono uscito da lavorare alle tredici e qualcosa. Sbracato sul divano ho mangiato appunto un piatto di ravioli mentre guardavo su Sky la storia di un tizio che raccontava della sua vita e della sua casa.
Bella casa la sua, lui mi stava un po' sulle palle perché era troppo pieno di sé. Uno di quelli che son bravi solo loro e tutto. Gli ho ruttato in faccia.
Poi, è arrivata la mia ragazza col cane appresso, puzzavano tutte e due di fritto che manco dopo una cena dal cinese. Fritto, sua madre aveva fritto di tutto. È arrivata e s'è messa a sedere al mio fianco mentre il cane leccava il piatto che se ne stava a terra. La forchetta sbatacchiava sul coccio e l'ho tolta prima che mi desse sui nervi. Ha cominciato a fare la dolce, la mia ragazza intendo, a dirmi cose carine, ad accarezzarmi la testa. Ho iniziato a sentire caldo al culo.
Sentivo che me lo stava preparando.
Infatti, mentre le effusioni si facevano intense, mentre nella mia mente già si figurava un pomeriggio di mugolii, di peli in gola e di sigarette in camera tra puzzo di sesso e fritto, è arrivata la frase che mi ha fatto tornare alla realtà. Con la sua voce suadente, è partita da lontano (ma poi neanche tanto lontano) e poi c'è arrivata:
-Pensavo che dovresti comprarti una nuova lampada per la scrivania, quella è rotta da un pezzo, lo dico per te, vorrei regalartela io. Visto che oggi non devi studiare, e che dovrei comprare anche alcune cose per la cucina, o magari un nuovo divano.... potremmo andare all'Ikea.
Avrei preferito un calcio, anche lì, sì, proprio lì. Ho sentito il mio buco del culo che lentamente si dilatava.
Ho comunque visto il lato positivo della cosa ed ho pensato che mi sarei pienato le tasche di lapis.
Mi sono fatto la doccia sbuffando, poi mi sono vestito peggio che potevo con una maglietta che mi sta corta ed è infeltrita. Siamo andati all'Ikea. Sessanta chilometri per farla contenta. È giusto farla contenta visto che mi sopporta tutti i giorni e sono un tipo molto instabile.
Se fossi un mio amico direi che sono un pazzo, uno a cui mancano dei giovedì. Il minimo che posso fare (quando il mio ego non me lo vieta) è farla contenta.
Ho appena fatto un esame e per almeno una decina di giorni non voglio sentir parlare di filosofia e cazzi vari. Arriviamo, parcheggiamo, mi faccio coraggio ed entriamo.
Non spingo mai i carrelli, né all'Ikea né in un qualsiasi supermercato. Se vedo che un uomo spinge il carrello e la moglie gironzola qua e là mi viene sempre da prenderlo per il culo.
In quel posto di mere presenze non ho spinto il carrello e alla fine non ho comprato neanche la lampada per la scrivania. Ho tenuto il cane in collo per tutto il tempo dopo che una commessa linfatica mi ha detto che era vietato portare i cani come se fossimo in un parco. Che vada a farsi inculare.
Ho osservato tutta quella gente ed ho anche mentalmente preso appunti ma adesso non mi va di descriverli o raccontare quello che ho visto. Mi fa un male becco questa porca di mano.
Morale della favola, la mia ragazza ha voluto comprare un nuovo divano.
Arrivati a casa alle sette circa, contrariato per aver buttato via un pomeriggio e parecchi soldi, ma in parte felice perché vedevo lei felice, ho iniziato a montare il divano. Alle undici ho finito, ho cenato mentre tra le mani tenevo la chiave a brugola che adesso è proprio a fianco del computer su questa scrivania illuminata da una lampada fioca e dal gambo rotto.
Alle undici e qualcosa sono andato a buttare via i cartoni ed il sudicio, faccio per buttare tutto nel cassonetto dopo che con il piede avevo alzato il pedale e sbam! Troiaccia della miseria infame. Non so se quelle merde di cassonetti hanno una molla o cosa, sta di fatto che mi si è chiuso il cassonetto sul polso, di schianto.
Un male boia. A caldo non ci ho fatto troppo caso, ho fatto un giro dei giardini e sono andato a comprare una birra dal tunisino del Kebab.
Rientro a casa.
Salendo le scale sento che il polso destro mi pulsa, faccio per girare la chiave nella toppa e non ci riesco. Entro dopo aver aperto con la mancina, la mia ragazza sta già provando il nuovo divano mentre quello vecchio è nel corridoio con un'aria triste e preoccupata. La gatta invece è felicissima e se lo gusta come se fosse per sè, tutto suo.
Accendo la luce e dico che mi sono fatto male. Metto la mano sotto l'acqua fredda, dal congelatore prendo una busta di minestrone e ci avvolgo il polso. La mia ragazza guarda e ride per la cosa alla Fantozzi che mi è capitata. Finisco la birra e vado a farmi un'altra doccia dopo lo sforzo ed il sudore dovuto al montaggio di una cosa che, a mio avviso, è superflua. Esco dalla doccia e la mano mi è gonfiata vistosamente.
Decide di portami al pronto soccorso.
Un'infermiera deficiente mi fa tremila domande e dopo un'ora mi fa entrare a farmi visitare da un dottore. Disteso su di un lettino che manco avessi le vertigini, un dottore sghembo mi fa ancora domande e poi inizia a toccarmi dove mi fa male. Decide che c'è da fare un radiografia.
Aspetto ancora e dopo poco mi chiamano. Entro ed esco in poco tempo. Torno a sedermi al mio posto in attesa della risposta. Fisso i neon e li conto. Novantasette tra corridoio e sala d'attesa.
Frattura del polso e quello e quell'altro. Un gesso di quelli non proprio di gesso da metà dell'avambraccio fino alle nocche delle dita.
Non so se essere felice o meno.
Esco dall'ospedale e vado alla macchina dove la mia ragazza sta dormendo col cane sulle ginocchia.
Sembra una tossica. La sveglio. Ride. Le dico che è colpa sua. Ride. Vorrei darle un ceffone con gesso ma è ancora fresco.
Torniamo a casa e mando un messaggio a quelli del lavoro.
Domani mi sveglierò con la ruvidità di questo finto gesso da accarezzare.
La mia ragazza va a letto ed io mi metto al computer con un bicchiere di rum.
Che dire, forse che il polso mi fa male, che tuttavia le seghe posso farmele anche con l'altra mano, che per un po' non andrò a lavorare e che ho un divano nuovo da provare.
In realtà non ho nulla di cui lamentarmi ma mi andava di provare a scrivere solo con una mano.
Sì, avete ragione, il titolo dovrebbe avere un nesso col testo.
Buonanotte.

mercoledì 19 dicembre 2012

Attilio pensa.

Una candela, poggiata sul comodino, illuminava la stanza. 
I suppellettili proiettavano ombre contorte e sembravano sottolineare la loro stanchezza, forse erano stanchi della polvere che li ricopriva, o forse semplicemente della giornata trascorsa.
Scrocchiò il collo e inarcò il dorso.
Attilio Benelli, ventitreenne, moro, occhi verdi, capelli ricci, barba incolta, ateo e fioraio di professione, si distese sul suo letto.
La giornata trascorsa risultò piatta come le altre già vissute, senza avvenimenti degni di nota, le stesse cose irrilevanti e poco considerevoli di sempre.
Stesse facce e stessi fiori.
Era una tipica serata estiva, di quelle in cui si dorme volentieri con le finestre aperte, quelle nottate in cui ci si lascia cullare dai suoni di una natura instancabile, sempre sveglia, pronta a sfoggiare tutto il suo repertorio canoro e a farci godere con il cantare dei suoi animali notturni.
Distesa al suo fianco, Irma, la sua ragazza, dormiva già.
Rannicchiata in posizione fetale apparteneva ormai all'altra vita, quella dei sogni e Attilio si domandava cosa stesse succedendo in quell'altra sua vita.
Attilio si era trattenuto in giardino a leggere uno di quei libri che a lui piacevano tanto, di fantascienza, libri che ad Irma non piacevano affatto.
Per la precisione, era perduto sul pianeta Iduna con la famiglia Svenson.
Disteso sul letto, Attilio restò a guardare le travi in legno sul soffitto della stanza alla ricerca di qualche scorpione.
Irma, russava beatamente.
La casa in campagna di Attilio e Irma sembrava infestata dagli scorpioni, non passava giorno che non ne uccidessero uno. 
Se ne stava lì, disteso e guardingo, pronto a raccogliere una ciabatta da terra e sbatterla sul malcapitato animale che avrebbe opposto resistenza semplicemente alzando il suo pungiglione.
La stanza era apposto, animali al suo interno non ce n'erano.
Si leccò due dita e le appoggiò sullo stoppino della candela e questa frisse in segno di disappunto.
Il buio della notte avvolse i corpi dei due fidanzati.
Attilio chiuse gli occhi.
Gli parve finalmente di spegnere la ragione e di lasciare il suo corpo.
Fluttuava beato coi suoi pensieri irrazionali, pensieri tremendamente appaganti che lo facevano sentire come una di quelle foglie secche e ingiallite in autunno, quelle guidate da un vento misteriosamente tiepido e familiare che pare guidarle proprio dove devono andare.
Alcuni grilli cantavano, il vento muoveva le fronde degli alberi, alcuni gatti miagolavano, un cane ululava in lontananza, delle rane gracidavano, alcune cicale frinivano e un topo squittiva.
Nella testa di Attilio, tutti questi suoni, si trasformarono in forme e colori.
Strane figure si scontravano l'una contro l'altra, si intrecciavano e diventavano una sola cosa dai colori indefiniti.
Triangoli viola, cerchi rossi, rombi verdi, esagoni blu cobalto, trapezi bianchi, cubi, cilindri, piramidi, coni, sfere e tetraedri riempivano la sua mente errante.
La musica della natura.
Un tripudio di colori e di forme.
Il metallico frinire delle cicale si fece prepotente e sovrastava gli altri suoni. Nella mente di Attilio un'unica figura di colore viola sostituì tutto il resto: un cono.
Attilio osservava quella figura, la scrutava, sforzava gli occhi per guardarla meglio, allungava le braccia per toccarla.
Il cono roteava su se stesso, sospeso nel nulla danzava ad un ritmo lento ed incantevole.
Improvvisamente, il cono restò immobile, fermo sulla sua larga base rotonda, appoggiato su un piano immaginario.
Le cicale frinivano potentemente.
Poi, dalla punta del cono, iniziò ad uscire densa schiuma bianca che scivolò elegantemente lungo i lati della figura fino a raggiungere terra.
La schiuma avvolse completamente il cono.
Da bianca che era, la schiuma divenne gialla, poi grigia e poi nera.
La nera schiuma iniziò a sciogliersi come un gelato al sole e divenne liquida.
Molle tutt'intorno, petrolio che come neve dopo una giornata di sole e pioggia sembrava alla ricerca di un fosso per defluire.
Il cono era scomparso, corroso da quella strana bambagia dal colore della pece.
Attilio, allora, poggiò la sua mano destra sul piano immaginario dove fino a pochi istanti prima c'era il cono.
La sua mano, nel vuoto della stanza, sembrò bagnarsi.
Improvviso silenzio, improvviso vuoto nella sua mente, né una forma né un colore.
Poi, alcune cicale iniziarono nuovamente a frinire.
Attilio attese un nuovo cono.
Iniziò a domandarsi cosa fosse quel cono, che significato avesse, che cosa volesse dirgli la natura mostrandogli un cono corroso e poi cancellato dalla bambagia.
Ecco poi un nuovo cono, fluttua e poi si ferma al contrario di come s'era fermato la prima volta.
Adesso, ha la punta verso il basso e la bocca spalancata verso l'alto, sembra uno di quei funghi di montagna, una Gallinella.
Sembra avvolto dalla nebbia.
Come la polvere su certe spugne, il cono venne ammantato da dante palline che lo ricoprirono fino a ricoprirlo tutto.
Poi le palline esplosero come fossero palloncini pieni d'acqua.
Il cono scomparve.
Il ragazzo rimase sbalordito. Era stordito da ciò che aveva osservato.
Iniziò a fare supposizioni su ciò che aveva appena veduto. La vita? L'uomo? Se stesso?
La sua storia d'amore? Il suo lavoro?
Domande gli riempivano la testa, voleva capire, riflettere su ciò che la natura gli aveva comunicato in un linguaggio che Attilio ancora non comprendeva.
Riecco il metallico frinire delle cicale ed un nuovo cono.
Lo guardò, istintivamente decise che il cono fosse la rappresentazione di un uomo.
Il cono-uomo restò immobile, poggiato sulla sua base. Attilio s'immaginò che la base rappresentasse i cardini immateriali su cui si sviluppa la vita di un uomo, la sensazione di esistere, i suoi preconcetti e poi tutto quello che un uomo percepisce coi sensi, al centro il suo sapere, le sue esperienze, la sua religione.
Sulla punta del cono, volle vederci le aspirazioni di ogni uomo.
Poi un vento potentissimo spazzò via il cono, un vento che sembrò plasmare il volto di Attilio.
Attilio sentì in lontananza un gomitata su di un fianco: stava urlando ma non se ne accorgeva, Irma gli stava dicendo di svegliarsi.
Attilio si svegliò bruscamente, non sapeva dove fosse, ciò che aveva veduto in sogno lo aveva scioccato.
-Tutto bene?
Chiese Irma assonnata.
-Sì, ho fatto solo un brutto sogno.
Rispose Attilio col cuore che gli batteva.
Poi si addormentò nuovamente.
É un uomo?
Sì, per Attilio, quel cono è un uomo.
Un uomo, un essere umano come tu che stai leggendo.
Pensò che qualunque sia la posizione di un uomo, qualunque siano le sue aspirazioni, la sua cultura e il suo modo di vivere, le sue sensazioni, noi uomini siamo destinati ad andarcene e a non lasciare traccia di noi.
La mattina seguente, Attilio non andò a lavorare giustificandosi che aveva vomitato per tutta la notte. Quella mattina prese foglio e penna e decise di mettersi a scrivere racconti e lo fece con l'intenzione di lasciare traccia di sé in questo mondo e di non andarsene come un cono qualunque.
Pensò che scrivere, in qualche modo, potesse renderlo immortale.


giovedì 6 dicembre 2012

“La mia prima volta”

Mancano soltanto pochi giorni.
Ogni inizio non ha senso. Prendi la prima frase di ogni cosa e vedi che non conta un cazzo.
Oggi bene, diciamo. Si scrive per la prima volta con le falene. Tra le falene.
Sono contento che con Giovanni si sia risolto tutto.
Amo i cambiamenti, non può venire a dirmi che sono uno che non li accetta.
Non ci sto, proprio no.
Quella bambina di ieri sera avrei voluto ucciderla, davvero noiosa. Se una bambina se ne sta tutta la sera a girare attorno al tuo tavolo gridando e battendo le mani mentre tu stai argomentando su cose che ti stanno a cuore, deve darti per forza sui nervi. Io non ne potevo più. Volevo farle sgambetto e farla rotolare nel sangue. Nel suo.
Dai, ora basta. Dicci quel che hai da dire e vattene a letto.
Che gran voglia avevo di una beck's.
Dai, sono pronto.
Piacere sono Andrea e dopo tanto tempo scrivo per un lettore immaginario.
Ero abituato a scrivere qualcosa per i miei lettori del blog, ormai li conoscevo più o meno tutti e sapevo dove colpirli per far presa su di loro e sentirli dire: bravo, forte l'astronauta.
Bene, ora non posso. Devo far colpo solo su me stesso. Perché scrivere, in sé per sé, se sai per chi scrivere, è una cosa abbastanza semplice. Ti appoggi a quei luoghi comuni che ci sono e batti e ribatti qualche punto lo porti a casa, o qualche “bravo lui”, lo metti in cassa a va tutto a favore della tua autostima. Ma in realtà sei un cazzo di coglione. Io sono un coglione.
Roba che sai di non sapere e fai contento Socrate, ma poi in realtà sai qualcosa e fingi di non ricordare allora mescoli un po' tutto e fai una frase che che non si capisce un cazzo ma pare intelligente perché hai citato il Socrate.
Roba da pazzi.
Chiariamo punto per punto le premesse.
Punto per punto non mi riesce, provo con un'unica risposta. Pace con Giovanni.
Non so per quale motivo ma ieri sera me ne viene fuori dicendomi che sono uno che non accetta i cambiamenti.
Eravamo al matrimonio della sorella di M. Io e Giovanni seduti uno di fianco all'altro, quella rompi palle della bambina a correre, tutti a dire:” auguri agli sposi”, e noi che ce ne fottevamo a stavamo lì a parlare fitti fitti di cose stupide con tono serio, o magari serie ma dette con tono stupido. Non lo so.
Insomma, ci sentivamo e sembravamo a decidere le sorti del globo.
Poi me ne viene fuori con quella cosa.
Apriamo una parentesi (ho in cuffia roba buona ed ho una voglia tremenda di mettermi a ballare in questo soppalco appositamente per me costruito in questa casa sperduta tra le montagne dove non arriva segnale alcuno e potresti morire da un momento all'altro e non se ne accorgerebbe nessuno.)
Stop. Chiusa parentesi ).
Basta. Con Giovanni s'è risolta solo stasera e ci ho davvero pensato tutto il giorno.
Ora dico cose a caso.
Ma qual è la nostra fortuna?
Che abbiamo tra le mani un'arte, tu scrivi, lei disegna, lui colora, l'altro pensa, quella tipa iraniana tanto carina che hai anche pensato di mandare in culo tutto ed invitarla a cena, fa sculture. Siamo tutti maledettamente malati, tutti tremendamente soffocati da una opprimente malinconia che a tratti ci toglie il fiato.
Ma ci stiamo salvando, l'arte ci sta salvando.
La mia è solo pazzia, ma la vostra, è arte. Coltivatela.
Andate in pace.
Che idiota.
Che strana sensazione scrivere solo per me stesso, pensare che ho aperto un blog per essere letto e sapere ciò che la gente pensava di me, e mi ritrovo adesso, per scelta, a conoscere realmente me stesso, a veder di costruire qualcosa di serio.
Questa birra mi sta dando noia.
Che cazzo di casino nella testa, è una foresta, pane e tempesta, le dita vanno lente, sbagli le parole, vorrei un giorno di gran sole e dedicarlo a te, amore amore amore, ancora non ho capito se sono un vinto o un vincitore.
Se vinco così, son bravi tutti, o non capisce un cazzo chi dovrebbe capirci qualcosa e questo è un vero problema.
Lasciatemi dalla parte dei vinti. Va bene così.
Passerebbe un messaggio sbagliato.
Ci vuole tecnica ed allenamento, il mio è solo un diletto.
Io sono un vinto, un perdente, io sono il dente più brutto della dentiera, la pecora nera, la febbre per l'ultimo dell'anno, le mestruazioni in vacanza, il graffio sulla macchina nuova.
Fumo. Una cazzo di sigaretta fatemela fumare.
Che poi, un filo rosso pare che non ci sia ma c'è di sicuro, involontario, il filo, c'è.
Non so se ho  detto che con Giovy si è risolto tutto. S'è risolto.
Quella troia della sorella di M s'è sposata. Che troia, scusami ma devo dirlo ancora, troia fino all'osso.
La scommessa di ieri sera: 250 € per uno (eravamo in 4) a Mr Josef per farsi fare un pompino e riprenderla con cellulare.
Ma non se l'è sentita.
Dopo i primi 4 americani aveva già il batocco in erezione e si sentiva già i portafoglio pieno, ma poi è venuto fuori il suo animo pugliese ed è stato tutta la sera a tessere le lodi del matrimonio.
Sono sicuro che stamani, aprendo il portafoglio e vedendolo vuoto, si sia mangiato le mani ed abbia maledetto il suo moralismo.
Che poi, sarebbe stata una cosa da urlo. Roba da film porno americano.
Parliamo di cose serie.
Josef è una persona seria e merita rispetto, anche le sue scelte lo meritano.
Josef, proprio ieri sera, mi consigliava di iniziare a scrivere un vero libro, una cosa seria.
Okay, se voglio fare lo scrittore devo mettermi nell'ottica di fare come dice lui.
Ho già del materiale e ci sto lavorando, mi ci vorrà del tempo ma penso di poter fare qualcosa.
Come ho già detto molte volte, le mie trame mi annoiano da morire.
Mi fumo un'altra sigaretta e stappo un'altra birretta.
Qualcuno capisce quello che sto dicendo, avrà le mie stesse sensazioni, ne sono certo.
Josef è uno che realizza ed ha ragione, apprezzo i suoi consigli.
Infatti, prima di aprire una pagina vuota e scrivere le cazzate che sto scrivendo, ho aperto il file col mio pseudo romanzo e stavo andando avanti col mio Carmelo Corsini che parlava di sé nella sua bottega di alimentari in piazza dante 46 a Borgo San Lorenzo, ma poi m'è presa male.
Datemi un po' di costanza, non c'è in questo corpo, non si trova in un orto, non si compra al supermercato.
Ma quella di stasera, prometto che è un'eccezione, da domani si torna alla stesura della 97° pagina del mio primo romanzo. Come mi gasa dire che sto scrivendo un romanzo. Sono al 5° capitolo.
Mi sono trasferito quassù tra le falene per questo.
Porca puttana, sono ubriaco anche per stasera. Spero che non sia evidente il mio stato. Sapete la definizione di stato? Ma sapete chi? Sono solo. Che palle. Stop internet, stop il voi ed il tu.
Sono solo io, il me che parla di sé e vorrebbe parare a te o a lui o a lei.
Ho bisogno di un voi.
Ho bisogno di essere acclamato da una folla, di incitare una rivolta, ho bisogno di rivolgermi a qualcuno, che sia quel Nessuno che in realtà è Ulisse e quel tizio con un occhio solo soltanto alla fine lo scoprirà e saranno cazzi, o magari sei tu davanti al tuo scarico computer, in questa fredda notte di settembre, tu stanco ed indeciso se continuare o meno in questa triste lettura che parla di me, che non sei te, e non c'è nessun luogo comune nel quale nuotare, nessun bastone da tirare per poi poterlo riavere indietro con tanto di sorriso.
Io non sono nessuno. Vorrei essere un vecchio, quelli sì che hanno cose da dire e si fanno ascoltare.
Io sono un bastardo che piange ogni notte perché nella vita vorrebbe fare lo scrittore ma in realtà non ha niente da dire.
Qualcuno dovrebbe aiutarmi, vorrei vivere una vita felice come fanno in tanti, conoscere la formazione della propria squadra di calcio, gli orari dei treni per andare a Firenze, quando pagare le tasse universitarie e che fra l'altro non ho mezzo € in tasca e ieri a Josef gliel'ho buttata lì perché tanto so che i terroni certe cose non le fanno, vorrei essere a letto in questo momento e non ubriaco a gesticolare davanti ad un qualcosa che assorbe lettere e risputa parole.
Forse ha ragione Giovanni, io non accetto il cambiamento perché  non riesco a cambiare, perché il salto di qualità io non riesco a farlo e son sempre qui a scrivere stronzate, invidioso (e non è un sentimento positivo) dei traguardi raggiunti dagli amici, sono una persona incline all'abuso e che cazzo,troia della miseria, non riesco a fare buon uso.
Io sono un vinto, lo dice la vita, lo dicono i risultati.
O magari, sto andando in culo a tutti e sto inculando il mondo a secco e con la sabbia, non lo so.
Bla bla bla, son tutti bravi a dire che qui e là. Io combatto solo.
Madò. L'autocommiserazione è da veri perdenti, mi sono interrotto al momento giusto.
La falena è ancora appiccicata allo schermo, sua sorella è sul travetto che ho sopra la testa.
In questa casa si sta bene, c'è un panorama spaziale, la notte si dorme col canto dei grilli,  i cani hanno un bel parco per correre ed io posso uscire nudo e camminare finalmente sull'erba senza rompimenti.
Per quanto riguarda  barba e capelli, non me li son tagliati.
C'è stata a trovarmi mia madre ed è stata tutta la giornata a chiedermi se mi drogavo e se stavo bene.
Sto bene, ho solo bisogno di tranquillità.
So che non si trova in nessun luogo, è come la costanza, o ce l'hai per natura o ti attacchi.
Ora sto bene così.
Ho cambiato idea sul fatto di scrivere per me stesso, questa roba va sul blog.
È un cambiamento che per adesso non mi sento di affrontare.
Carico tutto su di una pennetta e me la metto in tasca, al primo internet point butto in rete queste tre pagine che voracemente ho scritto, così di getto, per diletto.
Vado a letto.
Tra pochi giorni non succederà nulla, ve lo avevo detto, le prime frasi non contano.
No, è una cazzata e me ne stavo dimenticando, contano.
Sabato prossimo sarò alla presentazione di un libro che è una raccolta di racconti e ce ne sono due che sono miei. Sono contento.
Ora vado a letto, sul serio.

venerdì 3 agosto 2012

Il titolo non mi viene


Bianca è il nome della pagina che ho di fronte. Bianca è anche il nome di mia cugina. Che cosa succede nel mondo? Le cose di sempre. Stessi discorsi e stesse facce. Bisogna che smetta di fumare. Questo continuo mal di schiena credo sia dovuto a questa scrivania e alle sigarette. Magari sono le decine di cassette di frutta che scarico ogni mattina. Ma non voglio star qui a lamentarmi, è da effeminati. Salta annuncio.
Ieri sera sono andato a bere qualcosa con la mia ragazza ed un mio amico. A cena, ero a casa di mio padre. Guai a chiamarlo padre, s'incazza. Preferisce essere chiamato babbo. Ero a cena da mio babbo. Si festeggiava il mio compleanno. Ventiquattro.
Abbiamo preso un altro cane. Una sola bega, non ci bastava. Ha quattro mesi e si chiama Oliver. Sul nome c'è stato da discutere perché io volevo chiamarlo Leopold in onore del vecchio Bloom, ma come sempre ha vinto la mia ragazza. Pesa già 16 kg. Con Tea, il Jack Russell, vanno d'accordo. Per ora comanda lei. Il povero pastore tedesco Oliver, è stato sottomesso. Stasera siamo andati a portarli fuori, lungo il fiume. Dopo che ieri mattina ho preso la multa per averli sciolti, li tengo sempre legati. A cena, con la mia ragazza, abbiamo discusso. Sarà che il caldo mi dà noia. Stanchezza mista a nervosismo. È che mi sono rotto di fare tutto io. La mattina, da ormai venti giorni, giorno in cui abbiamo preso il nuovo cane, sono io che raccatto la merda ed asciugo il piscio da terra. Uso la varechina e mi dà noia alla testa. Mi tocca stare tutto il giorno con la nausea e gli occhi rossi. La cosa che mi fa incazzare, è che è stata lei a volere un altro cane, dunque pensavo che se ne assumesse tutte le relative responsabilità. Col cazzo. Mi tocca portarlo fuori sempre a me e, a due guinzagli, devo ancora abituarmi. Stamani non sono andato a lavorare, tra un mese avrò un esame ed ho bisogno di tempo per studiare. Ringrazio mio padre per aver compreso le mie necessità. Il nostro rapporto è migliorato. Patrizia aveva ragione in toto. Storia lunga, un giorno vi parlerò anche di lei e di suo marito. Quindi, a cena, abbiamo discusso e poi siamo andati fuori coi cani. Forse volevo soltanto avere delle attenzioni da lei. Mi considera poco. È tutta presa dal suo negozio, lavora tutto il giorno e la sera è sempre stanca. Da un anno s'è messa in proprio e ne risento. Sono contento per lei, davvero, è una cosa che sognava da tanto. Quando faceva ancora l'apprendista e prendeva una miseria al mese, aveva più tempo per me e per la casa. Forse, non mi ama più. Parliamo con difficoltà, facciamo di rado l'amore. Litighiamo spesso. Io la amo. Ma anche su questo c'è stata una discussione tremenda. Le ho chiesto cosa fosse per lei l'amore ed è successo il pandemonio. Cos'è per voi l'amore? Credo sia una cosa soggettiva. Non credo si possa dare una definizione universale di amore. Credo che ognuno abbia il suo modo di amare. A modo mio, amo. Mica che abbia un modo particolare, è solo il mio. Devo inventarmi qualcosa.
Il mio amico M, peggiora giorno dopo giorno. Ha smesso di prendere le sue pillole ed è nuovamente nel baratro. Ci soffro tremendamente. Oggi pomeriggio è venuta sua madre in negozio da me, piangeva. Deve essere dura vedere un figlio in quelle condizioni. È dura, lo dice lei. Ci siamo abbracciati. Come si fa? La vita è anche questo. Proprio ieri sera, mio fratello di cinque anni, mi diceva che la vita è dura e bella. Sua madre, che non è la mia, mio padre s'è infatti sposato nuovamente dopo il divorzio con mia madre, ed ha appunto avuto un altro figlio, fa bene ad insegnarglielo fin da piccolo. Se a me, da piccolo, è stato detto, non lo ricordo. Ora posso dirlo con quel briciolo di esperienza accumulata in questi anni. La vita, è come dice mio fratello. Parole semplici ed efficaci. Oliver sta dormendo sotto la scrivania. Gli voglio bene e mi fa un po' di compassione perché ha solo un testicolo. Ogni tanto, lo chiamo Mono ma non si gira, forse capisce che lo prendo per il culo. Per la nuova casa in campagna, è perfetto. Per questo monolocale è inappropriato. Due cani, un gatto e due persone, in una stanza di 30 mq, sono sacrificati. Che poi, ci si adatta a tutto, era solo per fare una considerazione. Salta annuncio. Odio la pubblicità su YouTube. Mi sono lamentato senza accorgermene, l'ho visto adesso mentre rileggevo, forse sono effeminato. Il mio lato omosessuale, emerge nella scrittura. In questi giorni, ho pensato anche al mio rapporto con lo scrivere. È una cosa che mi sento di fare, una cosa che mi fa stare bene. Tuttavia, provo ancora un certo imbarazzo. Mi nascondo ancora dietro un falso nome. Forse la mia ragazza ha un altro. C'è un tizio che le fa il filo, va in negozio da lei con delle scuse banali, una volta le ha mandato anche dei fiori. Lei è davvero bella, ha degli occhi verdi che non sto qui a descrivere perché non sono capace di descrivere le cose belle. Ha la pelle olivastra ed i capelli castani. È alta un po' meno di me che sono 1.80. Un altro non ce l'ha, non c'è verso. Se così fosse, li uccido tutti e due. L’amore è un bellissimo fiore sull’orlo di un spaventoso precipizio. Parole di Stendhal. Forse c'è ancora l'assoluzione per il delitto passionale. Ma no, un altro non ce l'ha. Domani vado da quel tizio e ci parlo, chiarisco le cose. So dove lavora. Se lei perde un cliente, pace. Non voglio perdere lei.
Sono le una di notte e tutto va bene, come dicevano in quel cartone animato che piaceva tanto a mio fratello quando eravamo piccoli. Mi tolgo le cuffie. Il ventilatore fa un rumore strano. Anche per stasera ha fatto il suo lavoro, ha dato il massimo, è proprio l'aria che è densa. Per la storia del fegato ho smesso di bere alcolici. Ho finito una boccia d'acqua in un'ora. Per stasera basta scrivere. Mi affaccio alla finestra, la luna è piena ed illumina tutto. Magnifica. Splendente, bianca più di quanto lo era questa pagina un'ora fa.

venerdì 20 luglio 2012

"Io non sono Carmelo Corsini."

Le false partenze, quelle che mandano tutto all'aria, quelle che aspetti e speri e poi non se ne fa di nulla, in realtà, non infastidiscono il fantino forte ma anzi consolidano le sue certezze di vittoria. Detto questo, che forse è una stupidaggine clamorosa, inizia il mio racconto. È la storia di Carmelo Corsini, il buon vecchio Carmelo Corsini. Vecchio non è, ha solo 8760 giorni che tradotti in anni sono 24. Precisi, oggi. Grande Carmelo, auguri. Lo conobbi sei anni fa alle scuole superiori. Tutti e due ripetenti, ci trovammo in una classe di tutte donne. Lui carino, educato, fisico scolpito, alto, occhi azzurri, capelli lisci. Io quasi l'opposto. Entrambi bocciati per la condotta. Io fui beccato in bagno a farmi masturbare da una mia compagna di classe e mi sospesero seduta stante. Poi, gasato dal nome che mi ero fatto, dedicai l'anno scolastico allo svezzamento del 40% delle mie coetanee. La beauté n'est pas importante, il suffit de manipuler. Carmelo, fu beccato a vendere erba nei bagni della scuola. Mica una sola volta, forse un centinaio. Una volta arrivarono anche i poliziotti ma non gli trovarono nulla. Buttò tutto nel cesso. Astuto. Negli anni che trascorremmo insieme, due per l'esattezza, continuammo il nostro mestiere senza mai essere scoperti. Sì, le mie compagne di classe le ho scopate tutte e tutte tranne una certa Irene Galeotti, si sono fatte almeno un paio di canne. All'esame passammo discretamente, Carmelo molto bravo in matematica ed in economia, io in storia ed italiano. Le lingue ce le dividemmo: lui l'inglese ed io il francese. Squadra vincente. Il voto finale, in due, fu 190. Très bien. Soddisfatti, andammo in vacanza ad Ibiza ma non andò molto bene perché appena arrivati ci pestarono come sigarette e ci rubarono tutto. Passammo una settimana a fare piaceri qua e là per racimolare qualche soldo. Fu divertente. Non aspettatevi niente di particolare, è la storia di C.C che è un tizio come tanti ed ha molti difetti, uno di questi è di essere mio amico.

- Tratto da “Io non sono Carmelo Corsini”. Racconto di sette pagine che non è adatto per il blog.
È solo un assaggio, se poi vi piace l'inizio ne metto un altro pezzetto.

mercoledì 4 luglio 2012

"Ciao!"

Ho bisogno di una casa in campagna. Accidenti a me e quando mi sono voluto trasferire in paese. Cretino. Se vi dico il motivo mi prendete per pazzo. Già, lasciamo stare i pazzi. Sì, c'entrano i medici ma non sono quelli. Sodi. Non c'entra un cazzo Firenze. Basta. Accidenti a me e quando sono infilato in questo ginepraio. Voglio tornare in campagna, non ne posso più del paese, della pulizia delle strade, del pub sotto casa e dei discorsi dei briachi che sento la sera tardi. Anche cane e gatto stanno meglio in campagna. 2 anni in questo bilocale e mi sono esaurito. Avete visto che situazione questo blog? S'è toccato il fondo. Un blog ce l'ha anche il mio cane. Anche suo fratello. Con tutto il rispetto. Penso che lo chiuderò. Nei vostri blog non ci metto piede da una vita e sinceramente non ne sento la mancanza. Solo in pochi scrivono cose interessanti. Poi, siete permalosi da fare schifo. Se uno non lascia un commento una volta, lo dimenticate. Questo dimostra che nei commenti siete più falsi delle tette di luxuria. Tutti a dire bravo qui e bravo là, ti seguo con interesse e blablablaa. Poi quando c'è da leggere qualcosa di più lungo o di scrivere un commento serio, scappate subito. Racconto lungo uguale untore. Dagli! Dagli! La mia ragazza ha il ciclo. Ne risento anch'io. Nervosetto. 'sto computer s'inceppa. Palle. Insomma, la casa in campagna l'abbiamo trovata. Tra poco ci trasferiamo. Sono il re dei traslochi. 14 in 23 anni. Già, tra poco sarà il mio compleanno. Ne faccio 24. Auguri. Volete sapere perché mi sono trasferito in paese? -No! Dice la biondina colla frangia, quella del blog tutto verde stile sala parto. Ciccia non rompere, scrivo quello che voglio. Se l'è presa. Mi dilungo in queste cazzate e perdo il filo del discorso. Telefono. -No mamma, ancora non ci sono andato, andrò lunedì, sì ci vado, dai mamma ci vado e stai tranquilla dai, ora ti lascio che sto scrivendo una cosa, sì ciao ciao. Dottore. Esami sballati. Trigliceridi troppo alti, altissimi. Lunedì andrò a farmi vedere. L'ho visto 2 volte in tutta la mia vita, il dottore. Il motivo per cui mi sono avvicinato alla civiltà è semplice. Pensavo che i pensieri fluttuassero guidati da una qualche corrente, che partissero da noi per poi spargersi nell'aria. Stando vicino a tante persone, pensavo di poterli sfruttare. Cazzata tremenda. Teoria assurda. Scrivo meno e penso meno. Certo è più comoda una casa qui, ma non me ne frega una sega della comodità. Torno a vivere in campagna. Sono stanco di sentire questi di sopra che scopano come conigli e litigano come palestinesi e israeliani. Per non parlare dei motorini smarmittati che fanno un casino boia. Basta!! Torno in campagna, con la rugiada che mi bagna. Se poi non c'è, va bene uguale. Questo per dirvi che con internet mi dovrò sistemare, mi sto informando, se costa tanto lascio stare. Piacere di avervi conosciuto. Vuoi mettere scrivere e studiare immerso nella natura? Dai, non c'è storia. Ma ancora c'è tempo, forse qualche mio altro racconto lo leggerete. A presto, forse.

sabato 16 giugno 2012

"Il capo"


La sua penna se ne stava sospesa ad un centimetro dal foglio. Non che non sapesse in che modo riempire un qualche bollettino, o non sapesse l'indirizzo per spedire una qualche lettera. Scrivendo, non avrebbe rispettato l'ordine. Il capo, era stato chiaro con quella sua voce intensa e viscerale: “scrivi solo quello che ti dico io”. Cosa sarebbe successo nel disertare tale ordine, il ragazzo dai folti capelli ricci, non lo sapeva. Era combattuto, la penna tremava tra le sue mani sudate, il foglio color panna attendeva impaziente che l'inchiostro si posasse su di sé. Si stropicciò gli occhi ed un ciglio cadde sul suo zigomo destro. Era seduto alla sua scrivania e la lampadina puntava dritta sul foglio e sembrava sbirciare, curiosa, quello che il giovane ragazzo si apprestava a scrivere. Dissidente. Questo sarebbe stato scrivendo quello che sentiva di scrivere. Il regime, prima o poi, lo avrebbe scoperto e, forse, giustiziato. Attorno a sé, nella sua casa tagliata da un sole che, potente, filtrava tra le fessure delle persiane, egli non si sentiva sicuro. Erano le due di un caldo pomeriggio di Luglio, il sole era cocente, la campagna sembrava dormire beata, cullata dalle colline e da un debole venticello asciutto che faceva dondolare le foglie e le lunghe piante d'ortica in fondo alla polverosa strada. Uscì di casa alla ricerca di un angolo dove poter scrivere senza esser visto. Stupidamente, pensava di non esser visto. Sapeva che quella maledetta voce lo avrebbe fatto sobbalzare all'improvviso. Non c'erano rifugi o nascondigli in grado dargli sicurezza. Il capo, lo avrebbe trovato in ogni luogo. Quel foglio che teneva stretto tra le mani, esercitava su quel ragazzo, ormai quasi adulto, con un po' di barba e i capelli ricci e confusi, una forza di attrazione fortissima. Era necessario per la sua anima, sfogare e in qualche modo vomitare il suo disappunto per quella tremenda voce viscerale che lo disturbava continuamente. Non era più in grado di vivere serenamente con quelle voce persistente a fargli compagnia. Il capo, come appunto lo aveva soprannominato, lo chiamava durante giornate impegnative per aver considerazione, riusciva a ricavarsi il giusto tempo necessario perché il ragazzo si fermasse e appuntasse un qualcosa. Voleva essere adorato, il capo, ed imporgli ciò che con vigore gli suggeriva all'orecchio. Il ragazzo, non ne poteva veramente più, doveva assolutamente trascrivere il suo stato d'animo sul quel foglio che le sue mani stringevano avidamente. La domanda che picchiava nella sua testa, come fa un picchio sulle cortecce di un qualche albero in una qualche montagna, era semplice ma allo stesso modo inquietante: Chi è il capo? Di chi è quella voce? Chi sono io per sentire quella voce? È reale? Altri possono sentirla? Sono pazzo? Si mise seduto all'ombra di una grande quercia, tanto era inutile nascondersi in un qualsiasi sottoscala o in un bosco. Il capo, lo avrebbe trovato ovunque. Chiuse gli occhi e abbatté il muro di paura che gli impediva di esprimersi. Poggiò la penna sul foglio ed iniziò a scrivere. Si guardò intorno, il vento e la voce del silenzio guidarono la sua mano mancina con la quale sorreggeva la penna e iniziò a scrivere. Era ufficialmente un disertore. Non si era ancora reso conto di ciò che stava scoprendo.

_ Adorato foglio color panna a righe orizzontali, questa è la prima volta che scrivo di mia personale iniziativa. Quella voce mi sta distruggendo, sono snervato, tediato e visibilmente affaticato. Scrivo per sfogarmi, il tutto risulterà come un'unica domanda alla quale, so che non puoi rispondermi. Anche se spero vivamente che tu possa farlo. Ma cosa vuole da me? Chi è? In questo momento, ho bisogno di te, anche se poi, sarai probabilmente bruciato per non lasciare prove della mia pazzia. Perché forse, sì forse è vero, sono pazzo. Ma di chi è quella voce? Condiziona il mio vivere, distoglie la mia attenzione dalla realtà e difficilmente riesco a sentirmene parte. Sono infelice e la colpa è tutta sua, è davvero insopportabile. Ieri notte mi ha chiamato mentre stavo dormendo, come uno schiavo sono stato costretto ad alzarmi senza dire una parola, mi sono sentito umiliato. Non ho né sbuffato né protestato, tanto è così, non posso farci niente. Sibilò alle mie orecchie una frase apparentemente illogica e ho dovuto, per sua imposizione, appuntarla su di un pacchetto di sigarette che avevo in camera. Il giorno seguente, rilessi la frase che la sera prima scrissi assonnato:“sentiti Dio”. Per tutto il giorno provai a sentirmi Dio, ma in realtà non so come si sente il Dio. È follia, ne sono certo. Ma non è colpa mia, io sono solo una vittima. È il capo, ed ha sempre ragione. Camminando per la mia campagna, ormai un anno fa, mi disse con voce goliardica: “il mio colore preferito è il trasparente”. Iniziai a tormentarmi la testa di domande, cercai vanamente di dare un senso a quella strana frase. Ora che ci penso, mi torna in mente una ragazza della quale mi sentii innamorato e alla quale chiesi quale fosse il suo colore preferito. A tale domanda, non mi fu mai data risposta: lei, disse di non volermi più rivedere perché le sembravo stano. Glielo domandai, dicendole che se avessi saputo quale fosse il suo colore preferito, avrei velato ogni mia veduta con tale colore, semplicemente per sentirmi più vicino a lei. Ma come ho già detto, non ho mai saputo quale fosse il suo colore preferito. Mentre camminavo, pensai a quel suo trasparente ma poi mi passò di mente e non c' ho più ripensato. Adesso, mentre osservo quelle rosee bistorte cresciute così, spontaneamente, come manifesto dell'infinita bellezza del creato, pongo la domanda che un tempo posi a quella ragazza, a me stesso. Ci rifletto. Trasparente è il colore dell'aria e dell'acqua. Trasparenze a cui noi esseri umani siamo grati. Sono, senza dubbio, trasparenze indispensabili. La trasparenza, nella vita, è un bisogno. Trasparente, in realtà, è un non colore. Ora che ci penso, il trasparente è anche il mio colore preferito. Quella maledetta voce, vuol farmi pensare ma non riesco a farlo se non scrivo. Ora lo so. Ora che sono un disertore lo so. Ma il “capo”, chi è? Perché mi vieta di scrivere quello che vorrei e mi costringe ad appuntare quelle frasi che in parte muoiono se non ho la possibilità di riscriverle e rielaborarle a modo mio? Certe frasi, mi impone di scriverle urlandomi in faccia, mi sembra di sentire l'aria smossa dalle sue grida, il suo alito che bacia il mio volto, la sua bocca pronta a morde la mia se non rispetto il suo ordine. “Scrivi solo quello che ti dico io di scrivere”. Era stato chiaro, ma adesso, ho bisogno di scrivere quello che dico io, di sottolineare la stanchezza che sento, il terrore che da un momento all'altro possa sentirlo nuovamente con quella sua voce viscerale ed inquietante. Un pomeriggio di Novembre, stavo nuotando in piscina come faccio ogni giovedì e tra una bracciata e l'altra mi disse: “la vita è un gioco!”. Ci pensai per tutta la nuotata. Adesso, concludo dicendo che la vita non è un gioco come gli scacchi, di quelli d'astuzia o di strategia, la vita è come un gioco di dadi: si vince solo se si è fortunati. In ogni caso, sì, la vita, forse, è un gioco. Alcuni giorni fa, precisamente ieri l'altro, stavo tornando a casa dopo una cena tra amici. Fu una serata divertente, leggera, bevemmo del vino e ridemmo per delle stronzate. Ero in macchina, la pioggia che violentemente si scontrava contro il vetro mi impediva di vedere bene, da un momento all'altro avevo il terrore di sbandare. Ecco puntuale il “capo”, vuole che io appunti una delle sue frasi. Ero in difficoltà, non avevo niente su cui e con cui scrivere. Cercai di ignorarlo ma iniziò a gridare, ebbi paura per come si stava rivolgendo a me. Non era mai stato così burbero. Accostai la macchina e con l'alito appannai lo specchietto retrovisore, scrissi: “La maggioranza degli uomini è cattiva”. Frase morta lì. Il vino bevuto mi fece addormentare appena toccato il letto. Ora che sono qui, all'ombra di quest'albero, che la frase di quella sera riemerge, voglio rifletterci sopra. Ti ringrazio caro foglio di ospitare frammenti della mia pazzia, ormai ho preso confidenza con te, mi sfogo se non ti dispiace. Ancora mi domando chi sia il “capo”, di chi sia quella dannata voce e cosa voglia da me. Sarà qualcuno che a mia insaputa riesce ad entrarmi nella testa? Tipo telepatia? Avrò dunque una specie di canale scoperto dove è possibile connettersi alla mia mente? O allora di chi è quella voce? Soprattutto, cosa vuole da me? A volte, mi racconta storie bellissime ed io resto a bocca aperta, ricordo quella dei marinai nordici perduti tra i ghiacci: l'odore del pesce sembrò materializzarsi, i baffi congelati, le candele altalenanti, gli iceberg, la nausea e poi lo smarrimento, l'attesa della morte, la fame. Mi sentii uno di quei marinai e percepii la sensazione che il mio corpo si stesse congelando, che la fame mi stesse mordendo l'anima. Avrei voluto scrivere la storia di quegli uomini ma non ho potuto. Il “capo”, non ha voluto. Mi viene in mente allora quell'assurda storia che mi fu raccontata dalla voce e che a sua volta gli fu raccontata da un nomade vissuto prima della venuta del Cristo. È la storia del Sole e della Luna. La Luna e il Sole, un tempo furono amanti ma pare però che lui l'abbia tradita. Ora, il sole rincorre la luna per riabbracciarla e dirle che quelle, furono solo malelingue messe in giro dagli invidiosi Marte e Saturno, perennemente alla ricerca di una compagna ed eternamente respinti dall'altezzosa Venere. Sole e Luna si rincorrono in maniera circolare attorno ad una palla azzurra chiamata Terra. È il circolo dell'amore, o dell'ipotetico tradimento, o della malvagità di Marte e Saturno. Il rincorrersi di Sole e Luna, racchiude in sé il segreto che rende la Terra capace di ospitare la vita e se dovessero fare pace, tutti i meccanismi salterebbero e addio esseri umani. Ma tanto non smetteranno mai di rincorrersi: la Luna è troppo orgogliosa e arrabbiata per starlo a sentire e dunque per perdonarlo. La storia è folle, infatti sappiamo che la Luna è minuscola rispetto al Sole ed è solo un' illusione per noi terrestri che sembrano della stessa grandezza, ma quel nomade non poteva saperlo e in questo momento questa storiella si ricollega a quella frase che la voce mi suggerì all'orecchio in quella piovosa notte di qualche giorno fa. Infatti, il rincorrersi di Sole e Luna, rende loro infelici. Non che loro siano malvagi, sono solo vittime della malvagità di quei due invidiosi quali sono Marte e Saturno. Se penso all'uomo, penso che in parte sia malvagio perché obbligato a rispettare leggi innaturali impostagli da pochi. Dai malvagi appunto. Leggi e regole innaturali: l'uomo diventa malvagio perché per natura è libero e innamorato, ma come il sole, è costretto ad inseguire la felicità che qualcuno gli ha negato. Libertà negatagli per far raggiungere vili ed egoistici interessi di pochi. Poveri allora tutti gli uomini, ammantati da una malvagità terrena che a sua volta si ammanta di una malvagità universale. Allora, quella frase che dovrebbe essere del Biante, uno dei sette sapienti greci, un presocratico, poeta e oratore, scritta in maniera titubante sul frontone dell'oracolo a Delfi, come frase illuminante per le generazioni future, letta dalla parte di chi detiene il potere deve essere apparsa come una vera e propria manna dal cielo. Infatti, se al posto di “è”, ci mettiamo “deve”, la frase diventa: “la maggioranza degli uomini deve essere cattiva”. Mi sembra questo il principio che molti hanno usato per espandere e consolidare il proprio potere nel corso dei secoli. In effetti, la voce, non so che cosa abbia voluto dirmi con questa frase, sono certo che ha scosso il mio spirito come lo scosse a tanti pensatori nel corso della storia. Rousseau e Hobbes, ebbero opinioni contrastanti su tale frase. Il primo diceva che l'uomo è buono per natura, il secondo che l'uomo è per natura crudele. Sinceramente, non so cosa il “capo” volle insinuare con tale frase. Non lo so proprio. E forse, il mio ragionamento non torna ed è giusto che non torni. Cerca di comprendere il mio stato d'animo caro foglio, la mia mano in questo momento sembra affamata di spazzi vuoti che da sinistra verso destra riempio per sfogare la rabbia che provo nel non poter riflettere giorno per giorno come ora sto facendo. Forse dico cose illogiche, ma tanto servi solo a me e poi sarai bruciato. Quella voce è malvagia, mi spaventa, mi intimorisce, mi chiama mentre sono a lavoro, mentre leggo, mentre dormo e mentre faccio l'amore. Non mi lascia in pace mai, sono ormai il suo schiavo. Ora, grazie a te, foglio degno di lode, sento meno pesante il fardello che ho sulle spalle, non importa se sono un disertore. Mi sento più leggero, la mia mente sembra svuotarsi e il mio cuore trovare pace. Mi sei di giovamento all'anima, se devo morire, se il “capo” mi scopre e decide di uccidermi, muoio senza dubbio alleggerito. Ancora non capisco perché non vuole che io scriva le storie che mi racconta, mi ipnotizza in quei momenti, perdo completamente il contatto con la realtà. Chi è? Cosa vuole da me? La bramosia mi assale, vorrei saperlo, voglio saperlo. Se nelle pieghe di ogni racconto mi lasciasse degli indizi ed io non sia in grado di capire? Magari non sono abbastanza sveglio per captarli? Mi domando chi sia il “capo”, di chi sia quella voce profonda e viscerale che accompagna ogni mio giorno. Un po' di tempo fa, mi ha descritto un giovane ragazzo, lo ricordo benissimo: moro, capelli ricci, occhi marroni, con addosso una camicia celeste tutta grinzosa. Mentre me lo descriveva, mi sembrava di averlo davanti, forse, lo avrei potuto toccare. Era un ragazzo sempre indaffarato, costretto ad ammalarsi per portare a compimento i libri che iniziava e che mai aveva il tempo di finire. Magari, forse, era lui. Il “capo” voglio dire, si intende. Oppure, è lo spirito di un uomo morto che vaga per il mondo prima di andarsene definitivamente da questa terra e nell'attesa racconta storie a uomini scelti casualmente in base forse ai numeri che compongono la loro data di nascita. Perché questa della data di nascita devo assolutamente raccontartela. Avevo dieci o undici anni, fui portato all'ospedale per un attacco di appendicite. Forse, proprio lì tutto ebbe inizio. Ero terrorizzato dai dottori, dall'acuto odore del disinfettante che impregnò il mio naso, dalle facce doloranti dei malati in sala d' attesa e soprattutto dall'idea di dovermi operare. Non smettevo di piangere, mia madre mi teneva per mano e i dottori mi dicevano di star tranquillo. Ero seduto su di un lettino e non riuscivo a muovermi, sentivo dolore. Un dottore, scuro di pelle, con delle dita lunghissime, seduto davanti ad un computer, chiese a mia madre quali fossero i miei dati anagrafici. Lei rispose: “ 26-07-1988” Il dottore mi guardò negli occhi e mi disse: “ per i cinesi, sei nato nell'anno del Drago, per questo non puoi aver paura, i maschi nati sotto l'anno del Drago sono forti, coraggiosi, fortunati e intelligenti”. Tali parole, per un po' mi tranquillizzarono ma pensai anche che dicesse certe cose a tutti i ragazzini fifoni che gli passassero tra le mani. Successe però in quell'istante, quando finì di parlare, una cosa inspiegabile e sconvolgente. Infatti, iniziai a sentire grosse e grasse risate di donna. Chiusi gli occhi e mi sembrava di averle davanti, tre grasse donne sedute una accanto all'altra, sembravano in un ippodromo, o ad un rodeo. Portavano vestiti a fiori colorati. Tutte coi capelli color mogano, quel mogano dei cassettoni delle case in campagna, pettinate tutte e tre alla stessa maniera, come quella nel film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, non ricordo bene il nome, forse Cindy o Nancy, fa lo stesso. Facce enormi sorrette da visiere per ripararle dal sole, piedi come lievitati in quelle loro orrende ciabatte, garretti che salgono come tronchi di mandorlo e sfociano in cosce livide a causa delle vene varicose. Donne che ridono e scherzano, ridono a crepacuore, risate grasse e potenti. Ora che ci ripenso, quelle risate mi sembra di sentirle nuovamente, perché quelle donne iniziarono a ridere resta tuttavia un mistero. Probabilmente, è da lì che ho iniziato a sentire le voci, prima le risate delle donne e ora il “capo”. Le donne segnarono l'inizio, scoprirono che io nacqui il 26-07-88 e comunicarono all'altra voce, quella che vaga per il mondo a raccontare storie, di aver trovato un'altra vittima. Poi non fui operato, trascorsi una notte in osservazione e il mattino seguente mi mandarono a casa. Risi come risero quelle donne. Resta comunque l'interrogativo iniziale, di chi è quella voce? Se un giorno dovesse iniziare a urlare talmente forte da costringermi a sbattere la testa al muro od in terra, se iniziasse a cantare e lo facesse ripetutamente notte e giorno? Oppure, se quella voce profonda si tramutasse nella stridula voce di un bimbo piangente che mi chiede di uccidere una qualche persona per liberarlo dal suo tormento? Ora, mi sale un po' di paura. Tuttavia, mi rendo conto che quella voce apre i miei occhi, mi costringe a pensare, offre input di riflessione, è insistente e caparbia proprio come lo sono io. Sono scocciato sì, ma allo steso modo mi sento fortunato. Ora, me ne rendo conto. Penserai che mi contraddico, ma forse ho risolto il rebus. Mentre scrivo, e l'ombra di questa quercia disegna un mostro sul campo di grano di fianco a me, mi sento bene, scrivere mi appaga. Come se questa quercia fossi io, e l'ombra la voce che sento. Come se la voce, fosse ombra di me. Forse, sono io l'unico narratore e uditore. Se fosse così, allora chi mi vieta di scrivere sono io. Sono io che pongo limiti al mio sviluppo interiore per un pregiudizio nei confronti di me stesso. Riflettendo, mi accorgo di vivere per quella voce, di essere quella voce. Allora, amo semplicemente l'idea che qualcuno di esterno a me abbia il tempo di raccontarmi storie, di narrarmi aneddoti e avventure, massime o solo parole. Ma in realtà, quello sono io. Non credevo di essere io perché forse, ancora non mi conoscevo abbastanza. La voce, è una parte del mio “io” che vuole emergere dalle viscere del mio essere. Ecco perché la voce che credevo di sentire, suonava profonda e viscerale. Caro foglio, pensare che una volta sono stato tutto il giorno nell'acqua con la speranza che questa facesse da scudo a quell'assurda voce che sentivo. Ora, mentre scrivo, la voce di quello che chiamavo “capo”, sembra essersi confusa con la mia, la mia voce di sempre si è arricchita, è in qualche modo più profonda e matura. L'insegnamento che mi dai, o foglio, è quello di ascoltare tutte le voci di me, tutte le sfaccettature della mia persona, di accettare questa che è la mia realtà e quindi me stesso. Visibilmente imbarazzato, cresco, nell'attesa di scoprire e sentire altre voci di me._

Era ormai sera, il sole stava tramontando e sembrava infilarsi nel ventre della madre terra. Ora, gli animali del giorno lasciavano il loro posto a quelli della notte. Alcuni grilli, suonavano melodie rilassanti. Il giovane ragazzo ricciolo, era intontito per quello che aveva scoperto in quello strano pomeriggio di Luglio. Teneva tra le mani il foglio su cui aveva raccontato se stesso, fatto molte domande e poi finalmente aver dato qualche risposta. Scoprì di essere lui stesso il “capo”. Disertare, è stato un gesto di coraggio ben ricompensato. Salì in casa di corsa, si mise alla scrivania e scrisse la storia dei marinai perduti tra i ghiacci. La lampadina osservava curiosa la storia che lui stava ascoltando e scrivendo. Passò una notte intera a riempire fogli, scrivere racconti, pensieri, poesie o semplici lemmi, era in pieno ascolto del suo sé. Il foglio della diserzione, poi non fu bruciato: è mescolato ad altri fogli che parlano di un giovane ragazzo dai capelli ricci.