venerdì 8 agosto 2014

Venerdì.




E la mente è tacita, come l'agosto della campagna.
Qua e là il fruscio di qualche serpe, poi di una lucertola;
ma anche il gatto è troppo fiacco per cacciare.
Lasciatelo stare.
Soffia poco vento caldo,
e l'erba si lascia muovere, stanca, senza opporre resistenza.
E vince su tutto il verde degli alberi,
e quello dei campi di erba medica,
e poi il giallo acceso di alcuni fiori,
poi quello smorto dei campi tagliati da parecchio.
Cosa sente l'orecchio?
E la mano che ci presenta la materia, cosa sente?
Cosa sente l'imbrunire?
E cosa sentono questi piedi scalzi pieni di pinzi e vesciche,
gonfi di scarpe troppo strette portate comunque?
E i cipressi che mi separano da quelle mucche?
Silenzio.
Un aereo attraversa il cielo col suo rumore,
poi tutto nuovamente muore,
silenziosa è la campagna,
è la mente s'acquieta.
E voialtri odiate la resa, l'addio alle armi, la pace senza gloria.
Sono stanco, ma non affranto.
Questo è il riposo del guerriero,
il pompino degli dei, quello col miele caldo,
e a scuola ho sempre fatto confusione tra aglio e caglio,
forse mi sbaglio ancora:
fate posto a una nuova aurora.
L'orologio segna un'ora nuova,
quest'ultima è passata senza bisogno di coraggio,
andata come un miraggio,
mentre in fondo alla vallata ogni cosa resta,
tutto fermo immobile, senza traccia di una ricercata bellezza,
e le strade polverose son deserte,
e le case tutte assorte,
i campanili sempre là,
alti ma non troppo,
a delimitare due mondi, il terreno e il celeste, a voi la scelta.
Allora è vero, tra il susino e il pero c'è una trappola mortale,
lo conferma un raggio di luce che rende lucida una enorme ragnatela, che alcune mosche scansano abilmente; ma eccone una che rimane imbrigliata. Freme e ronza, mentre un ragno la avvolge lesto, fiero della sua destrezza, in una mortale carezza.
Una cicala si schiarisce la voce,
ma è troppo caldo per cantare.
E tutto tace nuovamente.
Del sudore mi cade dalla fronte, un rivolo di gocce s'insinua tra i peli del petto, non trova sbocco per scendere più giù e allora si ferma, e ristagna.
Nulla all'orizzonte, solo una nuvola bianca e solitaria che chiameremo Chiara, come la sera di questo venerdì, dove tutto tace.

lunedì 28 aprile 2014

L'amore.

Occhi assenti, una voce laconica e rotta, tremore alle mani. Il suo essere sempre composta e impeccabile era tradito da un qualcosa di profondo che le aveva scosso lo spirito. Non avevamo ancora avuto modo di rivederci con la Mire, e dunque le porsi le mie condoglianze. Alza lo sguardo e resta inebetita, con la bocca stranamente impastata, storta e con una ricottina giallastra ai lati. Sembrava portasse il peso di una qualche colpa, la vergogna di un peccato inconfessabile, una croce enorme che la rendeva più gobba del solito. La feci sedere su uno sgabello vicino allo scaffale dei biscotti, le portai un bicchiere con dell'acqua del rubinetto e la persuasi a raccontarmi tutto.
Siamo in un piccolo paesino in provincia di Firenze. Lontano dai ronzii della città, nascosto tra le rotonde colline verdastre sulle quali sembrano appoggiate case tendenzialmente di colore giallognolo, dove c'è questo insignificante paesino, spesso sommerso dalla nebbia.
In questo insignificante paesino, accadono cose normali come da qualsiasi altra parte.
Accade che si muore. Morire tocca a tutti, grazie a dio è una di quelle certezze che puoi star tranquillo, o puoi agitarti quanto ti pare e provare anche a scappare, fai un po' quello che ti pare, tanto ti tocca, non c'è nulla da fare.
Arriviamo a dire qualcosa di serio.
È inutile star qui a descrivere il paese dove s'è svolto il fatto in questione, basta solo aver presente la piazza principale, grossa più o meno come un campo da calcio, dove sorge il monumento ai caduti, ma non è una piazza coi sampietrini e tutto: è un giardino. Un giardino con alberi ormai belli grossi, prati, vialetti di ghiaia, aiuole, merde di cane qua e là, nidi di uccelli, schiamazzi di bambini nei giorni di sole e pozzanghere nei giorni di pioggia. A circondare la piazza c'è una strada, oltre la strada, case. Basta immaginare un sasso buttato nell'acqua e i cerchi che si formano.
In una di quelle case abitava Agostino Innocenti. Sullo stesso lato della piazza, due portoni più a sinistra, c'è la mia bottega.
Agostino lo conoscevo bene, veniva tutti i giorni con la moglie a prendere il pane e quello che gli serviva, lo conosceva mio babbo e, prima di lui, mio nonno.
Mica voglio star qui a dire che come lo si conosceva noi non lo conosceva nessuno, è giusto per dire che la nostra bottega è lì da quarantanni e che Agostino s'è sempre servito dai Tagliaferri.
Tre generazioni di bottegai che di gente ne ha vista e di storie ne ha sentite.
La scorsa settimana, martedì per esser precisi, prima di andare a lavorare, saranno state le otto meno dieci, butto lo sguardo agli annunci mortuari e vedo che anche Agostino Innocenti ha lasciato questo mondo. Cosa normale, non ci badai troppo, muore tanta gente, a ottant'anni si muore senza troppo preavviso, basta un colpettino, un'influenza trascurata, una caduta dalle scale.
Mio nonno disse subito che aveva fatto la morte dei giusti, rapida, senza troppa sofferenza, senza dar noia a nessuno.
Per tradizione noi Tagliaferri non andiamo mai ai funerali dei nostri clienti, gli affari sono affari. Sennò, almeno una volta a settimana, bisognerebbe tirar giù il bandone e questo non sarebbe giusto per chi ancora è in vita e ha bisogno di un po' di latte o di una costola di sedano per fare il brodo.
Torniamo a noi.
La Mire se ne stava seduta sullo sgabello, tra le mani tremanti il bicchiere con l'acqua, la testa china. Io le stavo davanti, in piedi, con le punte alle nove e un quarto, curioso come un gatto di sapere come il buon Agostino aveva spirato.
Poi, cautamente, controllando che in bottega non ci fosse nessuno, iniziò a parlare:- “Lo conoscevi, un uomo elegante, mai un giorno di ritardo al lavoro, mai una assenza ingiustificata, sempre pulito e profumato, i capelli sempre fatti, attento a non deludere mai nessuno”- s'interruppe bruscamente quando entrò la signora Coralli. Affetta da podagra, la Coralli trascinò quelle sue enormi gambe fino al banco della gastronomia e qui si appoggiò al vetro, goffamente, e indicò il salame. Gliene affettai un etto abbondante, velocemente e senza troppe accortezze, sapevo che la Mire stava vuotando il sacco, che stava per dirmi qualcosa di non ordinario.
La Coralli se ne andò un po' delusa dalla poca considerazione che le avevo dato.
Mirella continuò:- “aveva deciso per domenica sera, ma poi non ci riusci, dopo vari tentativi rimandò all'indomani”- eccoti quelle rompicoglioni delle zie, tre donnette di cent'anni l'una, uggiose più di un giorno di novembre, impossibili da accontentare, non c'è mai un santo giorno che tutto fili liscio come il piscio. Ci misero venti minuti per prendere un pezzetto di pane e due carote, e anche dei piselli congelati che secondo loro non erano più gli stessi, e anche un dito di schiacciata, che però era troppo cotta e gliela feci toccare tutta prima di trovare quell'unico minuscolo perfetto pezzetto che per loro era cotto a modo.
Poi videro Mirella e la salutarono, condoglianze sopra e sotto, baci e abbracci, la parola infarto che risuonò almeno tre volte, poi ancora baci, e finalmente se ne andarono.
“Gli avevano diagnosticato un tumore,” -proseguì la Mire- “uno di quelli forti che ti mangiano tutto e velocemente, avrebbe dovuto iniziare la chemioterapia proprio quel lunedì, ma non voleva, non gli piaceva, non accettava di consumarsi lentamente, di lasciare un'immagine di sé scarnificata dal male.” Bevve un sorso d'acqua e la sua croce sembrava alleggerirsi lentamente e continuò:- “lo disse subito che non sarebbe andato in ospedale”.
La interruppi e posi una domanda secca: si è ammazzato?
Vedevo che non era tutto, la mia domanda era sciocca, debole. Perché così sconvolta se sapeva tutto? Perché tanta angoscia se era quello che Agostino voleva? Che peso si postava appresso la vecchia Mire?
Biascicò qualcosa, tipo un “mbs osat io”, allora dissi: - “non ho capito cosa hai detto”.
Mi guardò fisso negli occhi, sentivo che eravamo ad un passo dalla verità.
“Sono sempre stata una buona cristiana, anche Agostino lo era. Ora, sul finale della mia vita, ho buttato all'aria tutto, mi son guadagnata un posto all'inferno, ma va bene così. L'ho ammazzato io”.
Mi cascò la penna dalle mani, quella donna così rattrappita mi fece una tenerezza unica, rimasi tanto sconquassato che non mi venne nulla da dire. Non ci capii davvero più nulla, mi venne solo da togliermi il grembiule.
Poi si alzò, fragile ma inscalfibile, fiera ma in ginocchio, e chiese del pane, due pere, una banana e una melanzana. Pagò con gli spicci, poi disse una cosa che mai scorderò: dell'opinione altrui non ho considerazione, ti ho detto questa cosa perché dovevo dirla a qualcuno, il mio è stato un gesto d'amore.
Chiusi bottega prima del tempo, saranno state le una meno venti o giù di lì. Mi attendeva un pomeriggio di riposo, sarebbe toccato a mio babbo ascoltare nuove storie e vedere altra gente.
Arrivato a casa riempii subito la vasca, non mangiai nemmeno, non portai neanche fuori i cani.
Nudo mi guardai allo specchio, un minuscolo bachino grinzoso sbucava da una massa di peli, sul corpo l'odore di alimenti e sudore. Poi mi immersi nell'acqua per togliermi di dosso un'altra storia da digerire con calma, l'amore che giustifica tutto, il dolore come una cosa da cui fuggire senza rimorsi, senza il desiderio di assaggiarne il gusto.
Poi mi venne da pensare al modo in cui l'aveva ucciso. Conclusi che l'aveva soffocato.
Cose che sicuramente accadono un po' dappertutto, che anche in questo paesello sommerso dalla nebbia, accadono. Il fatto è che stanotte non ci ho dormito sopra, mi sarò rigirato cento volte nel letto, tutto il tempo a pensare che cosa avrei fatto io. Tu, cosa avresti fatto? L'amore è davvero così compatibile con la morte?



sabato 26 aprile 2014

"Somari"

Animali da soma, vestiti a festa con la camicia stirata da poco. Animali da soma. Gente che lotta costantemente, senza un futuro, gente che lotta così perché vuol lottare. Che si fa, si muore? No, si lotta, va bene così, si lotta senza speranza perché, in fondo, la lotta ci piace. Siamo amici di ogni lotta perché in noi scorre un'anima futurista. Come la mettiamo? Qual è il senso di questa esistenza? Forse semplicemente non c'è, e allora ti abbandoni tra le braccia di un rum scadente aspettando un guizzo di dio, una parola di verità.
Ma va bene così, noi siamo i vinti, andiamo avanti, alziamoci domani e facciamoci la doccia, prediamo un caffè bollente, facciamoci la barba come se nulla fosse accaduto, come se la notte non fosse passata, come se nulla fosse successo.
Ma c'è la consapevolezza di aver toccato qualcosa, la sensazione di essere stato in un luogo ameno e rivelatore. Inganniamoci di questo, diciamolo: io l'ho visto, io l'ho toccato.
Momenti difficili, momenti di stallo, la maledizione del settimo anno che tocca anche a noi, che ci tocca nel profondo. Uno stupido come me che appunta qualcosa come adesso nella speranza che possa nascere qualcosa di utile. Germi di una malattia che si chiama racconto. Siamo in tanti, siamo in pochi, questo non lo so. Coloro che sono, sono animali da soma. Che ci resta? Chi siamo? Come si fa? Si prova a fare qualcosa, si studia, poi qualcuno ti prende alla gola, ma non è paura di morire, Cristo santo, la morte non ci fa paura, è la vita che ci fa le gambe tremanti, si ha paura delle sfumature, di un verde diverso, di un viola diverso. Si ha paura nonostante tutto. E la vita che ci ha insegnato? Nulla, santo cielo, della vita non si è capito nulla, e si è di mercoledì sera ubriachi marci a girare per il mondo, con uno zaino di desideri. Ragioniamo sui problemi, ma si ragiona da soli, ci si perde in infiniti soliloqui, giocando a tennis con il nulla, che si mangia decine di palline.
Come si risolve? Non si risolve, non c'è un pertugio con un po' di luce, non si trova, e perché non si trova? Perché siamo deboli. Il coraggio che ci manca è dovuto al fatto che non siamo stati in trincea, non abbiamo visto i topi, i cadaveri gonfi di gas che puzzano e poi rendono fertili i campi; noi non li abbiamo visti, santo cielo. Si parla solo per parlare, perché se ne ha voglia, si va avanti. Si pensa che la letteratura sia quello che abbiamo letto ma non abbiamo letto un cazzo, Dio solo sa perché ma Tolstoj non l'abbiamo capito, Dostoevskij l'abbiamo abbandonato. Cristo.
Non ho voglia, l'ho detto. Sigarette? Datemi una sigaretta. Cristo.
Perché vedi, in sottofondo c'è anche una musica piacevole. Mi sono rotto. Temperatura ideale, saranno 17 gradi. L'amore è un gioco a perdere? L'amore cos'è? Come si ama? Desiderio di dormire con qualcuno? Desiderio della sua carne? La consapevolezza che senza lei non sarà più nulla come prima, che le notti non saranno più notti. Il gioco dell'amore. Inganniamoci che abbiamo capito.
Il cuore ce lo rompe la vita. Simo nati piangendo, vagiti strazianti.
Ho bisogno di scrivere un altro romanzo, che sia positivo, pieno di felicità. Vedo due asini, sembrano felici, l'unico nostro sbaglio è che siam voluti rinascere in corpi umani. Siamo stati tracotanti nel momento della scelta, pensavamo di essere pronti a nascere uomini, pronti a farci flagellare, a diventare re con una corona di spine, a farci crocifiggere pubblicamente.
Fondamentalmente ho bisogno di scopare, proprio di fottere, di sentire le palle che sbattono su di una fica: pam, pam, pam. Mentre lei dice basta, che il culo fa male, ma in realtà sta godendo, e allora lo schiaffeggi, poi con le mani lo apri e vedi Dio. Dio è un buco di culo rotto. Dio è lì che ti guarda e dice: godo ma fa male. Dio è dolore e godimento.
Cristo è il mio mito. Ma preferirono Barabba. Allegorie. E il Barabba di turno si salva sempre. Sono il messia di me stesso. Ho visto la mia fine, seguirò la mia strada, poi morirò. Tutto questo per non dire nulla, se non l'hai capito lascia fare, scorri oltre, lasciami in pace. Parlo per chi mi vuol capire.

venerdì 20 settembre 2013

"Le zie"

Sì, davvero, ho provato con tutto me stesso, lo giuro su chi vi pare. Non va, non ci riesco, odio le cose troppo false, artificiose, ipercostruite. Ho provato a scrivere un racconto non realista, ma proprio non ci sono riuscito. Tipo m'ero buttato sulla fantascienza e cose del genere, roba sulla fine del mondo e minchiate varie. Niente da fare, ho provato, ma non va, non fa per me.
Poi, questa gente che ci circonda è troppo bella per tacerne l'esistenza. Per dirne una, oggi ero in bottega che servivo le mie clienti più affezionate, tre tizie che chiamo zie perché le conosco da sempre, ma non sono davvero le mie zie.
Delfina Costi, Mary Banfi ed Ernestina Borelli. Donne impeccabili nei loro novanta e rotti anni, adorne di gioielli, col rossetto fin sulle guance, avvolte nei loro vestiti cuciti a mano, lucenti con quei loro capelli tinti di un biondo davvero troppo innaturale, sorretti da quintali di lacca che si portano appresso lasciando la scia dappertutto.
Bene, sarà che ieri sera ho fatto una bella chiavata, infatti stamani ero contento, raggiante, brillante da restare quasi antipatico, e mentre servivo le zie gliel'ho detto: -belle tutte e tre, siete belle come il sole (ci stava bene un punto esclamativo ma lo trovo un'offesa all'estetica della pagina). E gliel'ho detto mentre stavo affettando del prosciutto cotto per la Delfina, e questa mi guarda e mi dice:- no, la schiacciata non mi serve, riscaldo quella di ieri-. Allora la Mary s'è messa a ridere dicendomi che la Delfina non aveva capito perché tremendamente sorda, quindi la guarda e le dice: - ha chiesto se ti è passato il dolore al femore-.
Allora le guardo entrambe e faccio come a dire sì colla testa. Delfina inizia un soliloquio infinito riguardo a quel dolore, parla di risonanze, di agopuntura, di creme, di dottori e di pasticche, orari d'ingerimento, resoconto della pressione relativo alle ultime settimane, gradi mancanti alla vista e via discorrendo a ritroso fino a dirmi che a cinque anni ha avuto i gattoni.
Tutto questo mentre la zia Ernestina ogni tanto si intrometteva nel discorso sostenendo che nel pesto, il vero pesto, quello alla genovese, ci vuole una patata nell'acqua di cottura della pasta.
Perciò discorsi senza né capo né coda, e tutte sembravano d'accordo, tutte concordanti in diversi punti del discorso tranne che per il pesto. Infatti, mentre la Delfina rimuginava sul fatto che forse non erano i gattoni ma il morbillo, Mary diceva forse ci stava bene anche un pugnello di fagiolini insieme alla patata, ma qui Ernestina è intervenuta con forza, dicendo che una mezza mela non c'entrava proprio nulla.
Mondo parallelo il loro, mondo sorprendente, attorniate da cose che non sono state dette, vivono in un mondo di fraintendimenti ma che comunque sta in piedi.
Mentre le osservavo che lentamente uscivano, mentre mi salutavano ed io ricambiavo, mi son detto che devo stare qui, qui tra la mia gente, a parlare di loro. Inutile rompermi la testa a cercare di scrivere un racconto parlando di cose che non esistono e via discorrendo.
Poi, farò un po' come mi pare, fortunatamente, qui, non devo render conto a nessuno.
Sì, lo so, di questa riflessione forse non ve ne importava un fico secco, era solo per scrivere qualcosa.

martedì 10 settembre 2013

"Si prova"

Bene. Cane bastardo di un foglio bianco: a noi.
Pipe che fumano, comignoli che sculettano, dita che saltellano, tedeschi che rastrellano.
Notte che rende indefinito tutto, profili, oggetti, ricordi. Notte che non vedo ma che mi avvolge, oscurità che apre la strada a nuove percezioni del tutto inesplorate. Ciechi e veggenti. Visionari che con difficoltà accettano di tornare alla realtà. Dicono: no! Voglio tornare a conoscere come il folle!
E folle è la mia disperata ricerca di concentrazione. Ispirazione annidata da qualche parte del mio corpo come un virus che esplode quando poi gli pare. No, son piani diversi. Come? L'ispirazione potrebbe esserci ma è come se mi mancassero i mezzi. Resisti. Resisti. Ti saresti bevuto anche le tue lacrime, ti sei anche leccato le braccia sudate.
Si cerca il coraggio di scrivere da sobri.
E le stelle girano. Dire che la terra è rotonda è come dire che esiste un qualcosa di perfetto e sommamente intelligente dal quale noi tutti siamo stati creati. Davvero, per me la terra è piatta.
Pensi che nella tua vita hai scritto solo nei momenti difficili, in quei momenti in cui non sapendo dove andare resti fermo e fai una cosa che pare fine a se stessa ma poi, in realtà, ti aiuta a chiarirti le idee e a vederci più chiaro. E accade così, senza pensarci troppo. Tipo la notte che dischiude l'invisibile. Forse non ho più bisogno di scrivere, se i miei conti tornano, se questo tempo si scandisce regolarmente, tra sei anni ci sarà un'altra crisi e quindi le coNdizioni ottimali per tornare a narrare storie. Ma è una cazzata, fate conto che non abbia detto nulla. Mi sono promesso di non cancellare nulla, di lasciare ogni parola, errori compresi (vedi N maiuscola a condizioni).
E i ragni tessono trame che a noi non fanno paura, ma questa povera mosca sopra la mia testa ne è rimasta vittima.
Voi tutto bene? Lo spero.
Dai, sono a un passo da una svolta, si scrive senza spinta. Scrivo anche se tutto va bene, tutti mi dicono che sono (e penso di esserlo per davvero) una persona allegra e solare. Dunque proverò a raccontare qualcosa di allegro e di positivo. Sì, senza farci caso ho già riempito mezzo foglio ed è andato tutto bene, non ho detto un cazzo ma intanto inizio a ritagliare parole.
Vi racconterò altre storie, è questione coraggio. Lo sto trovando.

sabato 8 giugno 2013

L'eterno ritorno.

Nottetempo ti aspettavo, volevo risentirti, domandarti qualcosa come si faceva un tempo.
E penso che sia stato tempo perso, ore tolte alla vita.
E Iris mi aveva avvertito per tempo,
sapevo già tutto prima che tu arrivassi:
c'era scritto sui sassi su alla stazione,
mente un vecchio dal cappello nero saliva su un treno che faceva ciuf ciuf e due ragazzi si baciavano accarezzandosi il volto.
Lì l'ho capito.
Ho capito che saresti tornata vestita con un qualcosa di rosso
e un fiore tra le mani o nei capelli mentre un po' di vento muoveva piante, senza dar noia a nessuno.
Ora guardo i tuoi mignoli smaltati,
e non so più che dirti.
Mi obblighi a restare fermo, mentre tutto corre, e i cespugli crescono e le rane cantano e l'aria fa nitriti forti tra gli alberi nuovi.
Un tempo eri la spinta giusta per riflettere, per scrivere qualcosa.
Ora non ho più voglia.
Aspetto solo che tu te ne vada: non ho niente da dirti.


sabato 18 maggio 2013

Al marchese Santini.

Fraterno augellin, come sopravvivi al tuo pensier? Come sopporti quel duce che ti domina?
Per lo stesso oceano galleggiamo, dallo stesso tormento siam dominati.
Al dì e alla sera, non abbiam pace.
Condividiamo il nostro male, ne tracciam l'immensa potenza.
Infinita brama c'assale, che sia glabra come il palmo di questa mano, o folta come la mia testa, sfumata o ricamata: la amiamo. È portatrice di una bellezza disumana, indescrivibile.
E tu, e tu, come ti liberi dall'idea della reina?
Frale io son.
Quando sen giva il giorno, ignudo e solo, nel bagno, con l'ano sospeso su una pozza d'acqua, io nel pensier mi fingo un albero grimo di quei frutti. Frutti d'ogni specie. E mi scaldo.Li mangio e il loro succo scende dalla mia bocca giù lungo il collo e poi sul petto.
Il membro s'indurisce, colla mancina lo strangolo ritmicamente fino a che un sussulto mi dà i brividi dappertutto e il tormento s'acquieta.
Ma la speme che me ne sia liberato per l'eternità, è breve.
Appena son sul fianco, eccolo che torna e nottetempo mi fa compagnia.
Fraterno augellin, a noi la vita è male.

domenica 3 marzo 2013

Troppe pecore.

Sono passati ormai alcuni giorni da quando è avvenuto questo fatto.
Credo sia arrivato il momento buono per raccontarlo. Due volte all'anno, ormai da tre anni, prendo il treno e vado in Romagna a scopare con la mia professionista di fiducia.
È per me diventato un rito, una sorta di benedizione con valenza semestrale rinnovabile solo lì, solo da lei, in quella palazzina anni settanta, da quella biondona non tanto bella ma tanto porca che rimetterebbe al mondo il mio povero zio Carmine. Pace a lui.
Arrivo sempre tutto lavato, profumato, con la gelatina nei capelli, coi peli del pube spuntati e le mutande nuove. Le prime volte partivo eretto e stavo così fino all'arrivo, quello del treno e l'altro. Ma non voglio parlare di come sia salutare andare con una mignotta. Poi, qualcuno mi conosce, e questo qualcuno sa che cerco sempre di scrivere cose che non siano da bollino rosso o banali. Almeno ci provo. Certo, non sarebbe banale raccontare delle strane mosse provate, delle mie sensazioni, degli strani versi di quel demonio, di quella sua fissazione per la pecorina.
Ma lasciamo stare. Bene, principiamo per dire che non sono entrato in quella palazzina nonostante sia montato in treno e sia arrivato fino in Romagna e mi fossi spuntato i peli e tutto. Avevo fissato ma non mi sono presentato, spero non se la sia presa. Non per giustificarmi, ma tra il lavoro ed un esame mostruoso che sto preparando sono un po' stressato e volevo andare a farmi dare una bella benedizione.
Quel che vale la pena raccontare, almeno penso, è ciò che mi è capitato in viaggio, all'andata, seduto sul treno, col quaderno sulle ginocchia e con la penna nella mia mano dalle dita tozze.
Era una giornata piovosa, da queste parti, in inverno, piove sempre. È successo lo scorso mercoledì, dieci giorni oggi, giusto per essere precisi.
Mi siedo, il treno parte.
La mia mente vola in quella stanza dalle pareti spoglie e a quello specchio sul soffitto, con l'immaginazione fermo le immagini della memoria e le arricchisco con immagini di fantasia che vedono me attorcigliato a quel corpo possente ma molto femminile in stravaganti posizioni da far invidia ad un professionista.
Qualcuno mi urta la spalla.
Mi volto, è un uomo anziano e storpio, vestito molto bene, distinto, educato.
Mi chiede scusa e gli domando se sta bene. Ha tra le mani un mazzo di fiori.
Dice di sì, poi mi domanda se può sedersi davanti a me. Dico sì, che non ci sono problemi.
Si siede sputando aria dalla bocca con delicatezza dopo essersi tolto un giubbotto di quelli lunghi che hanno un nome preciso ma che ora mi sfugge. Capelli bianchi bianchi tagliati da poco e messi tutti da una parte, viso grinzoso, dentiera linda, una faccia grande ma non grassa e basette tagliate al filo degli orecchi.
Guardando oltre il vetro, mi dice che ama la pioggia . No è una semplice frase di circostanza e l'apprezzo fortemente. Rispondo che la pioggia ha il suo fascino ma preferisco le giornate di sole. Sorride. Dice che tutti i giovani amano il sole e le belle giornate, che il sole è ciò che più li rappresenta.
Forse è vero anche se per un mio amico non è così, ma non glielo dico e muovo la testa come a dire che forse è vero.
Sono a mio agio.
Dalla tasca del mio giubbotto tolgo il taccuino e la penna. Apro al segno e rileggo le fondamenta per un racconto che oramai non scriverò più perché ci lavoro da tanto e mi è venuto a noia. Succede spesso. Mi porto le mani alle tempie e poi sugli occhi, faccio come per togliermi le cispe, sbuffo.
Forse ho la febbre, ho dolori dappertutto, specie alle giunture delle ossa. Chiudo gli occhi. Apro l'occhio sinistro e vedo l'uomo che ama la pioggia che guarda ancora fuori con sguardo amorevole. Ha gli occhi verdi e profondi, tanto profondi che più li guardo e più vorrei guardarli per vedere fin dove portano.
Direi che sono uno di quegli scrittori fissati coi volti e con gli occhi, spesso ne resto incantato, spesso sono il punto di partenza per uno dei miei racconti.
Sbadiglio, ad alta velocità il panorama scorre, il filo non so di che cosa è una costante al di là della carrozza. Una donna dietro di me parla al telefono quasi bisbigliando per non disturbare noialtri passeggeri silenziosi. L'uomo mi guarda. Lo fisso e lui mi fissa.
Tutto si ferma improvvisamente, afferro la penna senza intenzione, sprofondo in quel verde segnato da un vissuto da raccontare, il mio corpo pare smaterializzarsi e perdo coscienza di tutto, anche del tempo, anche del rumore del treno che scorre sulle rotaie sotto ai miei piedi.

- Correvo come un pazzo, i forasacchi avevano riempito i miei calzini e il terreno che calpestavo aveva perso ogni tonalità di colore, tanto andavo forte.
Eccola la storia, eccoli i momenti di paura, ecco il potere fuori da ogni controllo.
Le lacrime tagliavano il mio viso da bambino, l'attrito con l'aria le scaraventava a terra e mi sembrava di percepirne il rumore quando si rompevano dietro di me. La mamma mi diceva di correre, tra le sue urla strozzate dal terrore era tangibile la paura per il mio destino incerto, il mio cane abbaiava e poi il rumore di uno sparo invase l'aria ed andò ad infilarsi negli angoli più nascosti di una campagna inerme, basita, annichilita dalla follia di uomini incapaci di ragionare o provare pena per ciò che andavano compiendo.
Poi, al processo, diranno che era solo il loro lavoro.
Il cane smise di abbaiare. Mi voltai. Due camionette, sei uomini in divisa, e là la mia famiglia che non vedevo ma sapevo che c'era. Corsi ancora. Salii su di un albero. Poi cinque spari, quasi contemporaneamente. Il cuore mi batteva forte perché avevo capito, non era la corsa o altro, avevo capito che erano tutti morti tranne me. Vidi le camionette ripartire, uno degli uomini in divisa sparò ancora, verso il sole. Scesi dall'albero e corsi, ma non verso casa, verso il fiume.
Erano le sei di sera quando li vedemmo arrivare, mio padre gli andò in contro, mia madre mi disse di smetterla di giocare col cane. Si respirava un'aria densa di paura. Cercavano cibo e mio padre disse di non averne, loro non ci credettero e lo schiaffeggiarono. Cadde a terra. I nostri animali li avevamo nascosti nel bosco poco distante da casa e non li avrebbero trovati neanche con la giusta indicazione. Mio zio iniziò ad urlare per mandare via quei bastardi affamati e la situazione degenerò in un istante. Presero mia madre colla forza, sgambettava e le caddero gli zoccoli. Mia sorella piangeva, mia nonna stava in silenzio con le mani raccolte dietro. La mamma mi urlò di correre. Mi voltai per un istante e vidi che avevano i fucili puntati addosso.
Corsi per un po', un po' parecchio, e arrivai al fiume, lo attraversai e bevvi dell'acqua. Calò la notte. Avevo fame.
Mi rifugiai sotto ad un enorme masso da quale si sprofondava in una buca grossa come un elefante. Passai lì la notte. Il cinguettare degli uccelli mi svegliò. Era l'alba, mi ero addormentato senza accorgermene. Era un sogno? Era davvero successo quel che era successo? No, era realtà, ero desto, e sì, era successo quel che era successo.
Lo zio, durante le cene, dopo aver alzato un po' il gomito, diceva sempre che prima o poi ci avrebbero ammazzati tutti. Mio padre faceva di tutto per tappargli la bocca, ma lui continuava. Lo zio è sempre stato considerato un pazzo, la nonna diceva che aveva letto troppi libri di filosofia e lo avevano stordito più di quanto non lo fosse da piccolo. Con il babbo avevano continui bisticci, lo zio aveva le sue idee e non c'era verso di fargliele cambiare. Probabilmente era il contrario, ma non voglio sta qui a giustificare nessuno dei due. Alla radio, si sentivano sempre gli stessi discorsi, detti sempre dalla stessa voce, e lo zio borbottava in segno di disappunto. Mia sorella aveva solo quattro anni e per quel poco che possono capire i bambini, le sue domande, ora che ci penso, non avevano nulla di stupido.
Io aiutavo mamma in cucina, sbucciavo le patate, apparecchiavo, poi aiutavo mio zio nell'orto, e mia nonna a fare tutto quello che faceva la nonna. Quando ancora avevamo le pecore, prima che mio zio le vendesse pensando che fosse una mossa astuta perché tanto ce le avrebbero prese, le badavo io. Discussero settimane per quelle pecore vendute.
mattina che mi svegliai solo, in quell'umida buca, pensai che forse sarebbe stato meglio morire con tutti. Cosa avrei fatto? Cosa ne sarebbe stato di me? Tornai al fiume, feci il bagno. Avevo voglia di tornare a casa che distava non meno di due ore di corsa, ma preferii non farlo.
Sentii delle ragazze ridere. Mi rivestii in fretta e quatto quatto andai verso quelle risa. Mi videro. Mi chiamarono. Andai loro in contro. Erano sorelle, quasi donne, restai incantato dai loro capezzoli inturgiditi sotto quelle loro fini camicette bianche. Mi domandarono il mio nome ma non risposi. Mi portarono a casa loro. Arrivati in quella casa (molto simile alla mia), dissero di avermi trovato al fiume, impaurito. Avevano le pecore e le riconobbi, erano le nostre vecchie pecore. Mi fecero mangiare. Mai desiderato così tanto un piatto di minestra. Stavo in silenzio. Mi chiesero se ero muto o sordo ma scossi la testa. Il padre delle ragazze si sedette al mio fianco e mi guardò in faccia, poi con la mancina mi prese il mento e lo volse verso di sé. Disse di conoscermi, che il mio volto gli era familiare. Piansi. Singhiozzando dissi di chiamarmi Attilio. Tutti si raccolsero attorno a me e volevano che parlassi e dicessi cosa fosse successo. Gli raccontai della mia famiglia. Dissi che forse sarebbero venuti anche da loro. Il padre ed il fratello maggiore delle ragazze andarono a casa mia in cavallo. Tornarono dopo alcune ore che trascorsi accarezzando le mie pecore, in silenzio. Mi abbracciarono e dissero che si sarebbero occupati di me come se fossi loro figlio. Una delle ragazze, Carla, la più piccola delle due, divenne mia amica.
Nei giorni seguenti curai le pecore, le accudivo come avevo sempre fatto. Un pomeriggio, ero col mio bastone poco distante da casa a vedere se le pecore stavano bene, se brucavano o meno. Vidi arrivare due camionette, quelle stesse camionette con quegli uomini in divisa che fecero quel che fecero alla mia famiglia. Inizia a correre per avvertire tutti, entrai in casa strillando e la madre delle ragazze mi tappò la bocca e mi strinse forte a sé. Mi dimenavo come un pesce e poi mi dette un ceffone in faccia dicendomi di stare calmo. Arrivarono le sorelle e mi dissero che era tutto sotto controllo. Carla mi portò in camera e dalla finestra vidi che suo padre caricava una pecora su una delle camionette.
Per alcuni giorni non capii cosa fosse successo ma non feci domande. Tutte le notti piangevo, avevo gli incubi che venissero a pretendermi, che mi stessero cercando.
Poi, una mattina, capii che barattavamo la loro sopravvivenza con delle bestie.
Il tempo passò. L'inverno seguente mi ammalai, il padre delle ragazze mi portò un' arancia e fu un regalo meraviglioso. La guerra finì, me lo urlarono le sorelle mentre me ne stavo con le mie pecore e pioveva.
Molte volte pensavo al Dio della nonna, prima di andare a letto me ne parlava sempre, tutt'ora non capisco dove se ne fosse andato in quegli anni.
Diventai grande.
Carla andò a studiare in città, uno dei suoi zii morì per colpa di uno scalcio di cavallo dritto sullo sterno. Io continuai a badare alle mie pecore, a tosarle con l'arrivo dell'estate. Carla si sposò, sua sorella si fece suora, i suoi genitori divennero vecchi e stanchi.
Prima che morisse, il padre di Carla mi trovò un impiego in città e per molti anni lavorai diligentemente da un notaio sghembo e gentile. Abitavo in un piccolo appartamento in affitto da una donna anziana che immaginavo fosse mia madre. Poi incontrai mia moglie, uno splendido fiore dai capelli biondi. La casa in cui abitavano i miei genitori fu venduta e con i soldi comprai quella in cui stavo in affitto, pensò a tutto il notaio per cui lavoravo. Restai sposato per soli pochi anni, mia moglie morì quando nacque il nostro primo figlio. Ogni notte mi rintronano in testa quegli spari, mia madre che mi urla di correre, il vento sulla mia faccia.
La storia della storia.

- Mi svegliai di botto.
L'uomo davanti a me fissava ancora la pioggia che non la smetteva di cadere. Sul mio taccuino c'erano appuntate alcune frasi slegate tra sé. Scesi dal treno stordito per quella febbre che mi sentivo addosso e per il sogno fatto. L'uomo mi salutò dicendomi che nel sogno avevo urlato. Lo salutai guardandogli ancora gli occhi. Che sia stata la vera storia di quell'uomo? Triste davvero.
Al bar della stazione presi un caffè macchiato in tazza grande e poi mi avviai verso casa della bionda anche se ero in anticipo di ben un'ora. Pensai che qualcosa per ammazzare il tempo l'avrei fatta, tipo starmene un'ora sotto la pioggia a sentire le gocce ticchettare sul mio ombrello verde, o magari mi sarei scaccolato. Mentre camminavo verso il piacere notai ancora quell'uomo davanti a me, rallentai il passo e lo vidi che suonò il campanello della mia mignotta. Si spiegarono i fiori e l'aspetto elegante.
Restai immobile e girai il culo, tornai alla stazione e presi il primo treno per tornare a casa. Mi feci tutte le fermate ed arrivai nel pomeriggio. Non me la sentii, vuoi per la febbre, vuoi per la storia di quell'uomo, vuoi per quello che ti pare, non me la sentii.

mercoledì 6 febbraio 2013

C'era una volta un marinaio tutto storto che beveva Porto da un bicchiere rotto.

Avete presente la ruvidità della carta vetrata?
La lingua dei gatti somiglia alla carta vetrata.
Stamani mi sono alzato di scatto perché la mia gatta mi stava leccando la fronte. Una sensazione tremenda. Non so precisamente cosa stavo sognando, forse nulla. So solo che, all'improvviso, m'è sembrato che mi avessero sparato alla testa, o che con la parte ruvida della gomma da cancellare qualcuno mi stesse cancellando qualcosa dalla fronte.
Brutto risveglio, pessimo risveglio.
Orribile come poi è stata la giornata che ho affrontato.
Si sta concludendo adesso. Spero proprio di sì, saranno le quattro di notte.
Avete mai scritto con una mano che non è la vostra preferita? Forse per gioco. Sì, io spesso l'ho fatto per imitare mio padre che usa quella opposta alla mia. Ora, sono obbligato a farlo. Sto infatti scrivendo colla mancina.
Se vi racconto quello che mi è successo alla destra, qualcuno stenterà a crederci.
Ma partiamo dal principio.
Accantoniamo il dolce risveglio abrasivo.
Come ogni domenica sono andato a lavorare. Lavorando in un pastificio artigianale, è una cosa normale lavorare la domenica. La gente, specialmente nel giorno di quel Signore, in questo piccolo paese del Mugello, è abituata a mangiare pasta fresca. Non voglio star qui a vantarmi, ma la nostra è di gran lunga superiore a quella di ogni altro pastificio di tutta la Toscana. Dai, un po' di campanilismo, tanto poi, finito di leggere il post, penserete che sono un cretino. Forse lo state già pensando.
Basta, arriviamo al dunque.
Sono uscito da lavorare alle tredici e qualcosa. Sbracato sul divano ho mangiato appunto un piatto di ravioli mentre guardavo su Sky la storia di un tizio che raccontava della sua vita e della sua casa.
Bella casa la sua, lui mi stava un po' sulle palle perché era troppo pieno di sé. Uno di quelli che son bravi solo loro e tutto. Gli ho ruttato in faccia.
Poi, è arrivata la mia ragazza col cane appresso, puzzavano tutte e due di fritto che manco dopo una cena dal cinese. Fritto, sua madre aveva fritto di tutto. È arrivata e s'è messa a sedere al mio fianco mentre il cane leccava il piatto che se ne stava a terra. La forchetta sbatacchiava sul coccio e l'ho tolta prima che mi desse sui nervi. Ha cominciato a fare la dolce, la mia ragazza intendo, a dirmi cose carine, ad accarezzarmi la testa. Ho iniziato a sentire caldo al culo.
Sentivo che me lo stava preparando.
Infatti, mentre le effusioni si facevano intense, mentre nella mia mente già si figurava un pomeriggio di mugolii, di peli in gola e di sigarette in camera tra puzzo di sesso e fritto, è arrivata la frase che mi ha fatto tornare alla realtà. Con la sua voce suadente, è partita da lontano (ma poi neanche tanto lontano) e poi c'è arrivata:
-Pensavo che dovresti comprarti una nuova lampada per la scrivania, quella è rotta da un pezzo, lo dico per te, vorrei regalartela io. Visto che oggi non devi studiare, e che dovrei comprare anche alcune cose per la cucina, o magari un nuovo divano.... potremmo andare all'Ikea.
Avrei preferito un calcio, anche lì, sì, proprio lì. Ho sentito il mio buco del culo che lentamente si dilatava.
Ho comunque visto il lato positivo della cosa ed ho pensato che mi sarei pienato le tasche di lapis.
Mi sono fatto la doccia sbuffando, poi mi sono vestito peggio che potevo con una maglietta che mi sta corta ed è infeltrita. Siamo andati all'Ikea. Sessanta chilometri per farla contenta. È giusto farla contenta visto che mi sopporta tutti i giorni e sono un tipo molto instabile.
Se fossi un mio amico direi che sono un pazzo, uno a cui mancano dei giovedì. Il minimo che posso fare (quando il mio ego non me lo vieta) è farla contenta.
Ho appena fatto un esame e per almeno una decina di giorni non voglio sentir parlare di filosofia e cazzi vari. Arriviamo, parcheggiamo, mi faccio coraggio ed entriamo.
Non spingo mai i carrelli, né all'Ikea né in un qualsiasi supermercato. Se vedo che un uomo spinge il carrello e la moglie gironzola qua e là mi viene sempre da prenderlo per il culo.
In quel posto di mere presenze non ho spinto il carrello e alla fine non ho comprato neanche la lampada per la scrivania. Ho tenuto il cane in collo per tutto il tempo dopo che una commessa linfatica mi ha detto che era vietato portare i cani come se fossimo in un parco. Che vada a farsi inculare.
Ho osservato tutta quella gente ed ho anche mentalmente preso appunti ma adesso non mi va di descriverli o raccontare quello che ho visto. Mi fa un male becco questa porca di mano.
Morale della favola, la mia ragazza ha voluto comprare un nuovo divano.
Arrivati a casa alle sette circa, contrariato per aver buttato via un pomeriggio e parecchi soldi, ma in parte felice perché vedevo lei felice, ho iniziato a montare il divano. Alle undici ho finito, ho cenato mentre tra le mani tenevo la chiave a brugola che adesso è proprio a fianco del computer su questa scrivania illuminata da una lampada fioca e dal gambo rotto.
Alle undici e qualcosa sono andato a buttare via i cartoni ed il sudicio, faccio per buttare tutto nel cassonetto dopo che con il piede avevo alzato il pedale e sbam! Troiaccia della miseria infame. Non so se quelle merde di cassonetti hanno una molla o cosa, sta di fatto che mi si è chiuso il cassonetto sul polso, di schianto.
Un male boia. A caldo non ci ho fatto troppo caso, ho fatto un giro dei giardini e sono andato a comprare una birra dal tunisino del Kebab.
Rientro a casa.
Salendo le scale sento che il polso destro mi pulsa, faccio per girare la chiave nella toppa e non ci riesco. Entro dopo aver aperto con la mancina, la mia ragazza sta già provando il nuovo divano mentre quello vecchio è nel corridoio con un'aria triste e preoccupata. La gatta invece è felicissima e se lo gusta come se fosse per sè, tutto suo.
Accendo la luce e dico che mi sono fatto male. Metto la mano sotto l'acqua fredda, dal congelatore prendo una busta di minestrone e ci avvolgo il polso. La mia ragazza guarda e ride per la cosa alla Fantozzi che mi è capitata. Finisco la birra e vado a farmi un'altra doccia dopo lo sforzo ed il sudore dovuto al montaggio di una cosa che, a mio avviso, è superflua. Esco dalla doccia e la mano mi è gonfiata vistosamente.
Decide di portami al pronto soccorso.
Un'infermiera deficiente mi fa tremila domande e dopo un'ora mi fa entrare a farmi visitare da un dottore. Disteso su di un lettino che manco avessi le vertigini, un dottore sghembo mi fa ancora domande e poi inizia a toccarmi dove mi fa male. Decide che c'è da fare un radiografia.
Aspetto ancora e dopo poco mi chiamano. Entro ed esco in poco tempo. Torno a sedermi al mio posto in attesa della risposta. Fisso i neon e li conto. Novantasette tra corridoio e sala d'attesa.
Frattura del polso e quello e quell'altro. Un gesso di quelli non proprio di gesso da metà dell'avambraccio fino alle nocche delle dita.
Non so se essere felice o meno.
Esco dall'ospedale e vado alla macchina dove la mia ragazza sta dormendo col cane sulle ginocchia.
Sembra una tossica. La sveglio. Ride. Le dico che è colpa sua. Ride. Vorrei darle un ceffone con gesso ma è ancora fresco.
Torniamo a casa e mando un messaggio a quelli del lavoro.
Domani mi sveglierò con la ruvidità di questo finto gesso da accarezzare.
La mia ragazza va a letto ed io mi metto al computer con un bicchiere di rum.
Che dire, forse che il polso mi fa male, che tuttavia le seghe posso farmele anche con l'altra mano, che per un po' non andrò a lavorare e che ho un divano nuovo da provare.
In realtà non ho nulla di cui lamentarmi ma mi andava di provare a scrivere solo con una mano.
Sì, avete ragione, il titolo dovrebbe avere un nesso col testo.
Buonanotte.