"Il capo"
La sua penna se ne stava sospesa ad un centimetro dal foglio. Non che non sapesse in che modo riempire un qualche bollettino, o non sapesse l'indirizzo per spedire una qualche lettera. Scrivendo, non avrebbe rispettato l'ordine. Il capo, era stato chiaro con quella sua voce intensa e viscerale: “scrivi solo quello che ti dico io”. Cosa sarebbe successo nel disertare tale ordine, il ragazzo dai folti capelli ricci, non lo sapeva. Era combattuto, la penna tremava tra le sue mani sudate, il foglio color panna attendeva impaziente che l'inchiostro si posasse su di sé. Si stropicciò gli occhi ed un ciglio cadde sul suo zigomo destro. Era seduto alla sua scrivania e la lampadina puntava dritta sul foglio e sembrava sbirciare, curiosa, quello che il giovane ragazzo si apprestava a scrivere. Dissidente. Questo sarebbe stato scrivendo quello che sentiva di scrivere. Il regime, prima o poi, lo avrebbe scoperto e, forse, giustiziato. Attorno a sé, nella sua casa tagliata da un sole che, potente, filtrava tra le fessure delle persiane, egli non si sentiva sicuro. Erano le due di un caldo pomeriggio di Luglio, il sole era cocente, la campagna sembrava dormire beata, cullata dalle colline e da un debole venticello asciutto che faceva dondolare le foglie e le lunghe piante d'ortica in fondo alla polverosa strada. Uscì di casa alla ricerca di un angolo dove poter scrivere senza esser visto. Stupidamente, pensava di non esser visto. Sapeva che quella maledetta voce lo avrebbe fatto sobbalzare all'improvviso. Non c'erano rifugi o nascondigli in grado dargli sicurezza. Il capo, lo avrebbe trovato in ogni luogo. Quel foglio che teneva stretto tra le mani, esercitava su quel ragazzo, ormai quasi adulto, con un po' di barba e i capelli ricci e confusi, una forza di attrazione fortissima. Era necessario per la sua anima, sfogare e in qualche modo vomitare il suo disappunto per quella tremenda voce viscerale che lo disturbava continuamente. Non era più in grado di vivere serenamente con quelle voce persistente a fargli compagnia. Il capo, come appunto lo aveva soprannominato, lo chiamava durante giornate impegnative per aver considerazione, riusciva a ricavarsi il giusto tempo necessario perché il ragazzo si fermasse e appuntasse un qualcosa. Voleva essere adorato, il capo, ed imporgli ciò che con vigore gli suggeriva all'orecchio. Il ragazzo, non ne poteva veramente più, doveva assolutamente trascrivere il suo stato d'animo sul quel foglio che le sue mani stringevano avidamente. La domanda che picchiava nella sua testa, come fa un picchio sulle cortecce di un qualche albero in una qualche montagna, era semplice ma allo stesso modo inquietante: Chi è il capo? Di chi è quella voce? Chi sono io per sentire quella voce? È reale? Altri possono sentirla? Sono pazzo? Si mise seduto all'ombra di una grande quercia, tanto era inutile nascondersi in un qualsiasi sottoscala o in un bosco. Il capo, lo avrebbe trovato ovunque. Chiuse gli occhi e abbatté il muro di paura che gli impediva di esprimersi. Poggiò la penna sul foglio ed iniziò a scrivere. Si guardò intorno, il vento e la voce del silenzio guidarono la sua mano mancina con la quale sorreggeva la penna e iniziò a scrivere. Era ufficialmente un disertore. Non si era ancora reso conto di ciò che stava scoprendo.
_ Adorato foglio color panna a righe orizzontali, questa è la prima volta che scrivo di mia personale iniziativa. Quella voce mi sta distruggendo, sono snervato, tediato e visibilmente affaticato. Scrivo per sfogarmi, il tutto risulterà come un'unica domanda alla quale, so che non puoi rispondermi. Anche se spero vivamente che tu possa farlo. Ma cosa vuole da me? Chi è? In questo momento, ho bisogno di te, anche se poi, sarai probabilmente bruciato per non lasciare prove della mia pazzia. Perché forse, sì forse è vero, sono pazzo. Ma di chi è quella voce? Condiziona il mio vivere, distoglie la mia attenzione dalla realtà e difficilmente riesco a sentirmene parte. Sono infelice e la colpa è tutta sua, è davvero insopportabile. Ieri notte mi ha chiamato mentre stavo dormendo, come uno schiavo sono stato costretto ad alzarmi senza dire una parola, mi sono sentito umiliato. Non ho né sbuffato né protestato, tanto è così, non posso farci niente. Sibilò alle mie orecchie una frase apparentemente illogica e ho dovuto, per sua imposizione, appuntarla su di un pacchetto di sigarette che avevo in camera. Il giorno seguente, rilessi la frase che la sera prima scrissi assonnato:“sentiti Dio”. Per tutto il giorno provai a sentirmi Dio, ma in realtà non so come si sente il Dio. È follia, ne sono certo. Ma non è colpa mia, io sono solo una vittima. È il capo, ed ha sempre ragione. Camminando per la mia campagna, ormai un anno fa, mi disse con voce goliardica: “il mio colore preferito è il trasparente”. Iniziai a tormentarmi la testa di domande, cercai vanamente di dare un senso a quella strana frase. Ora che ci penso, mi torna in mente una ragazza della quale mi sentii innamorato e alla quale chiesi quale fosse il suo colore preferito. A tale domanda, non mi fu mai data risposta: lei, disse di non volermi più rivedere perché le sembravo stano. Glielo domandai, dicendole che se avessi saputo quale fosse il suo colore preferito, avrei velato ogni mia veduta con tale colore, semplicemente per sentirmi più vicino a lei. Ma come ho già detto, non ho mai saputo quale fosse il suo colore preferito. Mentre camminavo, pensai a quel suo trasparente ma poi mi passò di mente e non c' ho più ripensato. Adesso, mentre osservo quelle rosee bistorte cresciute così, spontaneamente, come manifesto dell'infinita bellezza del creato, pongo la domanda che un tempo posi a quella ragazza, a me stesso. Ci rifletto. Trasparente è il colore dell'aria e dell'acqua. Trasparenze a cui noi esseri umani siamo grati. Sono, senza dubbio, trasparenze indispensabili. La trasparenza, nella vita, è un bisogno. Trasparente, in realtà, è un non colore. Ora che ci penso, il trasparente è anche il mio colore preferito. Quella maledetta voce, vuol farmi pensare ma non riesco a farlo se non scrivo. Ora lo so. Ora che sono un disertore lo so. Ma il “capo”, chi è? Perché mi vieta di scrivere quello che vorrei e mi costringe ad appuntare quelle frasi che in parte muoiono se non ho la possibilità di riscriverle e rielaborarle a modo mio? Certe frasi, mi impone di scriverle urlandomi in faccia, mi sembra di sentire l'aria smossa dalle sue grida, il suo alito che bacia il mio volto, la sua bocca pronta a morde la mia se non rispetto il suo ordine. “Scrivi solo quello che ti dico io di scrivere”. Era stato chiaro, ma adesso, ho bisogno di scrivere quello che dico io, di sottolineare la stanchezza che sento, il terrore che da un momento all'altro possa sentirlo nuovamente con quella sua voce viscerale ed inquietante. Un pomeriggio di Novembre, stavo nuotando in piscina come faccio ogni giovedì e tra una bracciata e l'altra mi disse: “la vita è un gioco!”. Ci pensai per tutta la nuotata. Adesso, concludo dicendo che la vita non è un gioco come gli scacchi, di quelli d'astuzia o di strategia, la vita è come un gioco di dadi: si vince solo se si è fortunati. In ogni caso, sì, la vita, forse, è un gioco. Alcuni giorni fa, precisamente ieri l'altro, stavo tornando a casa dopo una cena tra amici. Fu una serata divertente, leggera, bevemmo del vino e ridemmo per delle stronzate. Ero in macchina, la pioggia che violentemente si scontrava contro il vetro mi impediva di vedere bene, da un momento all'altro avevo il terrore di sbandare. Ecco puntuale il “capo”, vuole che io appunti una delle sue frasi. Ero in difficoltà, non avevo niente su cui e con cui scrivere. Cercai di ignorarlo ma iniziò a gridare, ebbi paura per come si stava rivolgendo a me. Non era mai stato così burbero. Accostai la macchina e con l'alito appannai lo specchietto retrovisore, scrissi: “La maggioranza degli uomini è cattiva”. Frase morta lì. Il vino bevuto mi fece addormentare appena toccato il letto. Ora che sono qui, all'ombra di quest'albero, che la frase di quella sera riemerge, voglio rifletterci sopra. Ti ringrazio caro foglio di ospitare frammenti della mia pazzia, ormai ho preso confidenza con te, mi sfogo se non ti dispiace. Ancora mi domando chi sia il “capo”, di chi sia quella dannata voce e cosa voglia da me. Sarà qualcuno che a mia insaputa riesce ad entrarmi nella testa? Tipo telepatia? Avrò dunque una specie di canale scoperto dove è possibile connettersi alla mia mente? O allora di chi è quella voce? Soprattutto, cosa vuole da me? A volte, mi racconta storie bellissime ed io resto a bocca aperta, ricordo quella dei marinai nordici perduti tra i ghiacci: l'odore del pesce sembrò materializzarsi, i baffi congelati, le candele altalenanti, gli iceberg, la nausea e poi lo smarrimento, l'attesa della morte, la fame. Mi sentii uno di quei marinai e percepii la sensazione che il mio corpo si stesse congelando, che la fame mi stesse mordendo l'anima. Avrei voluto scrivere la storia di quegli uomini ma non ho potuto. Il “capo”, non ha voluto. Mi viene in mente allora quell'assurda storia che mi fu raccontata dalla voce e che a sua volta gli fu raccontata da un nomade vissuto prima della venuta del Cristo. È la storia del Sole e della Luna. La Luna e il Sole, un tempo furono amanti ma pare però che lui l'abbia tradita. Ora, il sole rincorre la luna per riabbracciarla e dirle che quelle, furono solo malelingue messe in giro dagli invidiosi Marte e Saturno, perennemente alla ricerca di una compagna ed eternamente respinti dall'altezzosa Venere. Sole e Luna si rincorrono in maniera circolare attorno ad una palla azzurra chiamata Terra. È il circolo dell'amore, o dell'ipotetico tradimento, o della malvagità di Marte e Saturno. Il rincorrersi di Sole e Luna, racchiude in sé il segreto che rende la Terra capace di ospitare la vita e se dovessero fare pace, tutti i meccanismi salterebbero e addio esseri umani. Ma tanto non smetteranno mai di rincorrersi: la Luna è troppo orgogliosa e arrabbiata per starlo a sentire e dunque per perdonarlo. La storia è folle, infatti sappiamo che la Luna è minuscola rispetto al Sole ed è solo un' illusione per noi terrestri che sembrano della stessa grandezza, ma quel nomade non poteva saperlo e in questo momento questa storiella si ricollega a quella frase che la voce mi suggerì all'orecchio in quella piovosa notte di qualche giorno fa. Infatti, il rincorrersi di Sole e Luna, rende loro infelici. Non che loro siano malvagi, sono solo vittime della malvagità di quei due invidiosi quali sono Marte e Saturno. Se penso all'uomo, penso che in parte sia malvagio perché obbligato a rispettare leggi innaturali impostagli da pochi. Dai malvagi appunto. Leggi e regole innaturali: l'uomo diventa malvagio perché per natura è libero e innamorato, ma come il sole, è costretto ad inseguire la felicità che qualcuno gli ha negato. Libertà negatagli per far raggiungere vili ed egoistici interessi di pochi. Poveri allora tutti gli uomini, ammantati da una malvagità terrena che a sua volta si ammanta di una malvagità universale. Allora, quella frase che dovrebbe essere del Biante, uno dei sette sapienti greci, un presocratico, poeta e oratore, scritta in maniera titubante sul frontone dell'oracolo a Delfi, come frase illuminante per le generazioni future, letta dalla parte di chi detiene il potere deve essere apparsa come una vera e propria manna dal cielo. Infatti, se al posto di “è”, ci mettiamo “deve”, la frase diventa: “la maggioranza degli uomini deve essere cattiva”. Mi sembra questo il principio che molti hanno usato per espandere e consolidare il proprio potere nel corso dei secoli. In effetti, la voce, non so che cosa abbia voluto dirmi con questa frase, sono certo che ha scosso il mio spirito come lo scosse a tanti pensatori nel corso della storia. Rousseau e Hobbes, ebbero opinioni contrastanti su tale frase. Il primo diceva che l'uomo è buono per natura, il secondo che l'uomo è per natura crudele. Sinceramente, non so cosa il “capo” volle insinuare con tale frase. Non lo so proprio. E forse, il mio ragionamento non torna ed è giusto che non torni. Cerca di comprendere il mio stato d'animo caro foglio, la mia mano in questo momento sembra affamata di spazzi vuoti che da sinistra verso destra riempio per sfogare la rabbia che provo nel non poter riflettere giorno per giorno come ora sto facendo. Forse dico cose illogiche, ma tanto servi solo a me e poi sarai bruciato. Quella voce è malvagia, mi spaventa, mi intimorisce, mi chiama mentre sono a lavoro, mentre leggo, mentre dormo e mentre faccio l'amore. Non mi lascia in pace mai, sono ormai il suo schiavo. Ora, grazie a te, foglio degno di lode, sento meno pesante il fardello che ho sulle spalle, non importa se sono un disertore. Mi sento più leggero, la mia mente sembra svuotarsi e il mio cuore trovare pace. Mi sei di giovamento all'anima, se devo morire, se il “capo” mi scopre e decide di uccidermi, muoio senza dubbio alleggerito. Ancora non capisco perché non vuole che io scriva le storie che mi racconta, mi ipnotizza in quei momenti, perdo completamente il contatto con la realtà. Chi è? Cosa vuole da me? La bramosia mi assale, vorrei saperlo, voglio saperlo. Se nelle pieghe di ogni racconto mi lasciasse degli indizi ed io non sia in grado di capire? Magari non sono abbastanza sveglio per captarli? Mi domando chi sia il “capo”, di chi sia quella voce profonda e viscerale che accompagna ogni mio giorno. Un po' di tempo fa, mi ha descritto un giovane ragazzo, lo ricordo benissimo: moro, capelli ricci, occhi marroni, con addosso una camicia celeste tutta grinzosa. Mentre me lo descriveva, mi sembrava di averlo davanti, forse, lo avrei potuto toccare. Era un ragazzo sempre indaffarato, costretto ad ammalarsi per portare a compimento i libri che iniziava e che mai aveva il tempo di finire. Magari, forse, era lui. Il “capo” voglio dire, si intende. Oppure, è lo spirito di un uomo morto che vaga per il mondo prima di andarsene definitivamente da questa terra e nell'attesa racconta storie a uomini scelti casualmente in base forse ai numeri che compongono la loro data di nascita. Perché questa della data di nascita devo assolutamente raccontartela. Avevo dieci o undici anni, fui portato all'ospedale per un attacco di appendicite. Forse, proprio lì tutto ebbe inizio. Ero terrorizzato dai dottori, dall'acuto odore del disinfettante che impregnò il mio naso, dalle facce doloranti dei malati in sala d' attesa e soprattutto dall'idea di dovermi operare. Non smettevo di piangere, mia madre mi teneva per mano e i dottori mi dicevano di star tranquillo. Ero seduto su di un lettino e non riuscivo a muovermi, sentivo dolore. Un dottore, scuro di pelle, con delle dita lunghissime, seduto davanti ad un computer, chiese a mia madre quali fossero i miei dati anagrafici. Lei rispose: “ 26-07-1988” Il dottore mi guardò negli occhi e mi disse: “ per i cinesi, sei nato nell'anno del Drago, per questo non puoi aver paura, i maschi nati sotto l'anno del Drago sono forti, coraggiosi, fortunati e intelligenti”. Tali parole, per un po' mi tranquillizzarono ma pensai anche che dicesse certe cose a tutti i ragazzini fifoni che gli passassero tra le mani. Successe però in quell'istante, quando finì di parlare, una cosa inspiegabile e sconvolgente. Infatti, iniziai a sentire grosse e grasse risate di donna. Chiusi gli occhi e mi sembrava di averle davanti, tre grasse donne sedute una accanto all'altra, sembravano in un ippodromo, o ad un rodeo. Portavano vestiti a fiori colorati. Tutte coi capelli color mogano, quel mogano dei cassettoni delle case in campagna, pettinate tutte e tre alla stessa maniera, come quella nel film “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, non ricordo bene il nome, forse Cindy o Nancy, fa lo stesso. Facce enormi sorrette da visiere per ripararle dal sole, piedi come lievitati in quelle loro orrende ciabatte, garretti che salgono come tronchi di mandorlo e sfociano in cosce livide a causa delle vene varicose. Donne che ridono e scherzano, ridono a crepacuore, risate grasse e potenti. Ora che ci ripenso, quelle risate mi sembra di sentirle nuovamente, perché quelle donne iniziarono a ridere resta tuttavia un mistero. Probabilmente, è da lì che ho iniziato a sentire le voci, prima le risate delle donne e ora il “capo”. Le donne segnarono l'inizio, scoprirono che io nacqui il 26-07-88 e comunicarono all'altra voce, quella che vaga per il mondo a raccontare storie, di aver trovato un'altra vittima. Poi non fui operato, trascorsi una notte in osservazione e il mattino seguente mi mandarono a casa. Risi come risero quelle donne. Resta comunque l'interrogativo iniziale, di chi è quella voce? Se un giorno dovesse iniziare a urlare talmente forte da costringermi a sbattere la testa al muro od in terra, se iniziasse a cantare e lo facesse ripetutamente notte e giorno? Oppure, se quella voce profonda si tramutasse nella stridula voce di un bimbo piangente che mi chiede di uccidere una qualche persona per liberarlo dal suo tormento? Ora, mi sale un po' di paura. Tuttavia, mi rendo conto che quella voce apre i miei occhi, mi costringe a pensare, offre input di riflessione, è insistente e caparbia proprio come lo sono io. Sono scocciato sì, ma allo steso modo mi sento fortunato. Ora, me ne rendo conto. Penserai che mi contraddico, ma forse ho risolto il rebus. Mentre scrivo, e l'ombra di questa quercia disegna un mostro sul campo di grano di fianco a me, mi sento bene, scrivere mi appaga. Come se questa quercia fossi io, e l'ombra la voce che sento. Come se la voce, fosse ombra di me. Forse, sono io l'unico narratore e uditore. Se fosse così, allora chi mi vieta di scrivere sono io. Sono io che pongo limiti al mio sviluppo interiore per un pregiudizio nei confronti di me stesso. Riflettendo, mi accorgo di vivere per quella voce, di essere quella voce. Allora, amo semplicemente l'idea che qualcuno di esterno a me abbia il tempo di raccontarmi storie, di narrarmi aneddoti e avventure, massime o solo parole. Ma in realtà, quello sono io. Non credevo di essere io perché forse, ancora non mi conoscevo abbastanza. La voce, è una parte del mio “io” che vuole emergere dalle viscere del mio essere. Ecco perché la voce che credevo di sentire, suonava profonda e viscerale. Caro foglio, pensare che una volta sono stato tutto il giorno nell'acqua con la speranza che questa facesse da scudo a quell'assurda voce che sentivo. Ora, mentre scrivo, la voce di quello che chiamavo “capo”, sembra essersi confusa con la mia, la mia voce di sempre si è arricchita, è in qualche modo più profonda e matura. L'insegnamento che mi dai, o foglio, è quello di ascoltare tutte le voci di me, tutte le sfaccettature della mia persona, di accettare questa che è la mia realtà e quindi me stesso. Visibilmente imbarazzato, cresco, nell'attesa di scoprire e sentire altre voci di me._
Era ormai sera, il sole stava tramontando e sembrava infilarsi nel ventre della madre terra. Ora, gli animali del giorno lasciavano il loro posto a quelli della notte. Alcuni grilli, suonavano melodie rilassanti. Il giovane ragazzo ricciolo, era intontito per quello che aveva scoperto in quello strano pomeriggio di Luglio. Teneva tra le mani il foglio su cui aveva raccontato se stesso, fatto molte domande e poi finalmente aver dato qualche risposta. Scoprì di essere lui stesso il “capo”. Disertare, è stato un gesto di coraggio ben ricompensato. Salì in casa di corsa, si mise alla scrivania e scrisse la storia dei marinai perduti tra i ghiacci. La lampadina osservava curiosa la storia che lui stava ascoltando e scrivendo. Passò una notte intera a riempire fogli, scrivere racconti, pensieri, poesie o semplici lemmi, era in pieno ascolto del suo sé. Il foglio della diserzione, poi non fu bruciato: è mescolato ad altri fogli che parlano di un giovane ragazzo dai capelli ricci.
Amici lettori, dopo tanto tempo sono tornato.
RispondiEliminaQuesto racconto è stato scritto un anno fa, l'ho solo riletto.
Spero sia di vostro gradimento.
A presto.