L'amore.
Occhi assenti, una voce laconica e
rotta, tremore alle mani. Il suo essere sempre composta e impeccabile
era tradito da un qualcosa di profondo che le aveva scosso lo
spirito. Non avevamo ancora avuto modo di rivederci con la Mire, e
dunque le porsi le mie condoglianze. Alza lo sguardo e resta
inebetita, con la bocca stranamente impastata, storta e con una
ricottina giallastra ai lati. Sembrava portasse il peso di una
qualche colpa, la vergogna di un peccato inconfessabile, una croce
enorme che la rendeva più gobba del solito. La feci sedere su uno
sgabello vicino allo scaffale dei biscotti, le portai un bicchiere
con dell'acqua del rubinetto e la persuasi a raccontarmi tutto.
Siamo in un piccolo paesino in
provincia di Firenze. Lontano dai ronzii della città, nascosto tra
le rotonde colline verdastre sulle quali sembrano appoggiate case
tendenzialmente di colore giallognolo, dove c'è questo
insignificante paesino, spesso sommerso dalla nebbia.
In questo insignificante paesino,
accadono cose normali come da qualsiasi altra parte.
Accade che si muore. Morire tocca a
tutti, grazie a dio è una di quelle certezze che puoi star
tranquillo, o puoi agitarti quanto ti pare e provare anche a
scappare, fai un po' quello che ti pare, tanto ti tocca, non c'è
nulla da fare.
Arriviamo a dire qualcosa di serio.
È inutile star qui a descrivere il
paese dove s'è svolto il fatto in questione, basta solo aver
presente la piazza principale, grossa più o meno come un campo da
calcio, dove sorge il monumento ai caduti, ma non è una piazza coi
sampietrini e tutto: è un giardino. Un giardino con alberi ormai
belli grossi, prati, vialetti di ghiaia, aiuole, merde di cane qua e
là, nidi di uccelli, schiamazzi di bambini nei giorni di sole e
pozzanghere nei giorni di pioggia. A circondare la piazza c'è una
strada, oltre la strada, case. Basta immaginare un sasso buttato
nell'acqua e i cerchi che si formano.
In una di quelle case abitava Agostino
Innocenti. Sullo stesso lato della piazza, due portoni più a
sinistra, c'è la mia bottega.
Agostino lo conoscevo bene, veniva
tutti i giorni con la moglie a prendere il pane e quello che gli
serviva, lo conosceva mio babbo e, prima di lui, mio nonno.
Mica voglio star qui a dire che come lo
si conosceva noi non lo conosceva nessuno, è giusto per dire che la
nostra bottega è lì da quarantanni e che Agostino s'è sempre
servito dai Tagliaferri.
Tre generazioni di bottegai che di
gente ne ha vista e di storie ne ha sentite.
La scorsa settimana, martedì per esser
precisi, prima di andare a lavorare, saranno state le otto meno
dieci, butto lo sguardo agli annunci mortuari e vedo che anche
Agostino Innocenti ha lasciato questo mondo. Cosa normale, non ci
badai troppo, muore tanta gente, a ottant'anni si muore senza troppo
preavviso, basta un colpettino, un'influenza trascurata, una caduta
dalle scale.
Mio nonno disse subito che aveva fatto
la morte dei giusti, rapida, senza troppa sofferenza, senza dar noia
a nessuno.
Per tradizione noi Tagliaferri non
andiamo mai ai funerali dei nostri clienti, gli affari sono affari.
Sennò, almeno una volta a settimana, bisognerebbe tirar giù il
bandone e questo non sarebbe giusto per chi ancora è in vita e ha
bisogno di un po' di latte o di una costola di sedano per fare il
brodo.
Torniamo a noi.
La Mire se ne stava seduta sullo
sgabello, tra le mani tremanti il bicchiere con l'acqua, la testa
china. Io le stavo davanti, in piedi, con le punte alle nove e un
quarto, curioso come un gatto di sapere come il buon Agostino aveva
spirato.
Poi, cautamente, controllando che in
bottega non ci fosse nessuno, iniziò a parlare:- “Lo conoscevi, un
uomo elegante, mai un giorno di ritardo al lavoro, mai una assenza
ingiustificata, sempre pulito e profumato, i capelli sempre fatti,
attento a non deludere mai nessuno”- s'interruppe bruscamente
quando entrò la signora Coralli. Affetta da podagra, la Coralli
trascinò quelle sue enormi gambe fino al banco della gastronomia e
qui si appoggiò al vetro, goffamente, e indicò il salame. Gliene
affettai un etto abbondante, velocemente e senza troppe accortezze,
sapevo che la Mire stava vuotando il sacco, che stava per dirmi
qualcosa di non ordinario.
La Coralli se ne andò un po' delusa
dalla poca considerazione che le avevo dato.
Mirella continuò:- “aveva deciso per
domenica sera, ma poi non ci riusci, dopo vari tentativi rimandò
all'indomani”- eccoti quelle rompicoglioni delle zie, tre donnette
di cent'anni l'una, uggiose più di un giorno di novembre,
impossibili da accontentare, non c'è mai un santo giorno che tutto
fili liscio come il piscio. Ci misero venti minuti per prendere un
pezzetto di pane e due carote, e anche dei piselli congelati che
secondo loro non erano più gli stessi, e anche un dito di
schiacciata, che però era troppo cotta e gliela feci toccare tutta
prima di trovare quell'unico minuscolo perfetto pezzetto che per loro
era cotto a modo.
Poi videro Mirella e la salutarono,
condoglianze sopra e sotto, baci e abbracci, la parola infarto che
risuonò almeno tre volte, poi ancora baci, e finalmente se ne
andarono.
“Gli avevano diagnosticato un
tumore,” -proseguì la Mire- “uno di quelli forti che ti mangiano
tutto e velocemente, avrebbe dovuto iniziare la chemioterapia proprio
quel lunedì, ma non voleva, non gli piaceva, non accettava di
consumarsi lentamente, di lasciare un'immagine di sé scarnificata
dal male.” Bevve un sorso d'acqua e la sua croce sembrava
alleggerirsi lentamente e continuò:- “lo disse subito che non
sarebbe andato in ospedale”.
La interruppi e posi una domanda secca:
si è ammazzato?
Vedevo che non era tutto, la mia
domanda era sciocca, debole. Perché così sconvolta se sapeva tutto?
Perché tanta angoscia se era quello che Agostino voleva? Che peso si
postava appresso la vecchia Mire?
Biascicò qualcosa, tipo un “mbs osat
io”, allora dissi: - “non ho capito cosa hai detto”.
Mi guardò fisso negli occhi, sentivo
che eravamo ad un passo dalla verità.
“Sono sempre stata una buona
cristiana, anche Agostino lo era. Ora, sul finale della mia vita, ho
buttato all'aria tutto, mi son guadagnata un posto all'inferno, ma va
bene così. L'ho ammazzato io”.
Mi cascò la penna dalle mani, quella
donna così rattrappita mi fece una tenerezza unica, rimasi tanto
sconquassato che non mi venne nulla da dire. Non ci capii davvero più
nulla, mi venne solo da togliermi il grembiule.
Poi si alzò, fragile ma inscalfibile,
fiera ma in ginocchio, e chiese del pane, due pere, una banana e una
melanzana. Pagò con gli spicci, poi disse una cosa che mai scorderò:
dell'opinione altrui non ho considerazione, ti ho detto questa cosa
perché dovevo dirla a qualcuno, il mio è stato un gesto d'amore.
Chiusi bottega prima del tempo, saranno
state le una meno venti o giù di lì. Mi attendeva un pomeriggio di
riposo, sarebbe toccato a mio babbo ascoltare nuove storie e vedere
altra gente.
Arrivato a casa riempii subito la
vasca, non mangiai nemmeno, non portai neanche fuori i cani.
Nudo mi guardai allo specchio, un
minuscolo bachino grinzoso sbucava da una massa di peli, sul corpo
l'odore di alimenti e sudore. Poi mi immersi nell'acqua per togliermi
di dosso un'altra storia da digerire con calma, l'amore che
giustifica tutto, il dolore come una cosa da cui fuggire senza
rimorsi, senza il desiderio di assaggiarne il gusto.
Poi mi venne da pensare al modo in cui
l'aveva ucciso. Conclusi che l'aveva soffocato.
Cose che sicuramente accadono un po'
dappertutto, che anche in questo paesello sommerso dalla nebbia,
accadono. Il fatto è che stanotte non ci ho dormito sopra, mi sarò
rigirato cento volte nel letto, tutto il tempo a pensare che cosa
avrei fatto io. Tu, cosa avresti fatto? L'amore è davvero così
compatibile con la morte?
Amore e Morte fanno proprio scopa.
RispondiEliminaBello, comunque.