mercoledì 17 febbraio 2016

Il senso del mare


Quando distratto cammino, e talvolta inciampo o sbatto contro un lampione, allora è lì che sto pensando. Quando muovo il corpo senza darci peso, quando lo lascio fare in maniera meccanica, senza rifletterci, come di solito si fa col respirare o con i battiti di ciglia, allora è lì che la mente si eleva e se ne va raminga per i cazzi suoi.
Mi succede spesso e più facilmente qui a casa mia, che c'è un viottolo in discesa che porta alla ferrovia. È tortuoso, pieno di buche, in inverno sembra quasi un torrente, a fine estate è circondato di rovi pieni di more.
Inizio a scendere e sciolgo i cani, accendo una sigaretta e mi metto le mani in tasca, la fumo così solo con la bocca.
E giù che si entra in modalità pensiero, e su che sale la mente verso le zone del silenzio ancestrale, mentre alcuni uccelli cinguettano, il vento dondola, e la mia figura svanisce.
Starmene passeggero nella natura sedimenta le mie credenze, mi fa sentire protetto, e talvolta mi stendo ad osservare il cielo, o mi rotolo su di un prato, e lì riscopro d'essere parte dell'humus, d'essere fango, con un forma che talvolta svanisce, forma ché in fondo non ha l'importanza che spesso le attribuiamo.
La natura sono la mia nonna e mio fratello in lunghe passeggiate, è mio padre che ci porta a pescare, la natura è un pesce che accarezzo dopo averlo pescato, poco prima di lasciarlo nuovamente libero di nuotare, di evolversi, di diventare uomo coi millenni.
La natura rappresenta per me tre cose fondamentali.
La prima è la casa, il nido, la mamma, la provenienza, l'origine.
La seconda è la dimensione della conquista, dello sviluppo, dell'attraversamento. Ho soggiogato con i miei mezzi la natura, l'ho seminata e l'ho fatta mia, l'ho recintata e ci ho messo dentro i cani, ho pescato, mi sono spinto oltre la siepe ed ho camminato verso un luogo che non conoscevo ma di cui percepivo l'esistenza. Ho segato un pino che era enorme, abbracciato al suo tronco ho raggiunto la cima, e poi con gesti secchi e decisi ho tagliato i suoi rami, e li ho visti cadere a terra, diventare color ruggine, e diventare polvere.
La terza dimensione è quella dell'erranza, quella che mi è più cara, è il perdersi senza meta, camminare e andare per andare e basta.
Quest'ultima dimensione è quella dionisiaca, orgiastica, indefinita, quella che apre alle riflessioni più strampalate. Questa è una dimensione metafisica, doppia, tu cammini e non ci sei, entra in gioco la capacità di andare meccanicamente, e ci vuole un po' di allenamento, come per lo yoga, che con un po' di pratica poi leviti per davvero. Anche se non ho mai visto nessuno.
Grazie a questa terza dimensione, in cui non c'è altro che pensiero fluidificato, certo all'inizio un po' caotico, ma lentamente poi tutto si fa più chiaro, distinto, si percepisce l'armonia di cui siamo fatti, e si fanno pensieri pericolosi e strani.
L'altro giorno mi venne da pensare a Mike Tyson che mi voleva picchiare e allora scappavo per tutta l'America, la volta prima al cannibalismo dell'Occidente, e poi al papa che forse è malato, ma magari no.
Ma è oggi che ho fatto un pensiero davvero strano.

Sono in una stanza senza né porte né finestre, ma poi, all'improvviso, davanti a me si apre una porta enorme, ed entra il sole.
É una portafinestra dalla quale si vede il mare, il mare che è bello, il mare che ci fa nuotare, e nuotare è bello.
Sono davanti a questa finestra, solo come un cane, e all'improvviso arriva una farfalla che mi svolazza un po' davanti e poi mi si posa su una spalla. Dopo poco ne arrivarono ancora, una per volta, ma di continuo, tutte gialle, ed entrano nella stanza.
C'è profumo di epifania: annunciano qualcosa.
Dal mare emerge una ragazza bellissima con gli occhi azzurri, i capelli rossi e sciolti, ma stranamente asciutti, e resta lì, con l'acqua fino al busto. Mi guarda sorridente, e con un gesto della mano veramente aggraziato mi invita ad andare verso di lei.
Ma resto fermo, un po' mi fa paura.
Mentre la stanza si riempie di farfalle, mi passa accanto un pulcino volante, e poi si posa sulla mia testa, e fa un nido tra i miei capelli, come se dall'alto volesse controllare tutto, quasi senza essere visto.
Da dietro di me si fa strada un suono, e lo sento che arriva lento ma costante, mi volto ma non vedo nulla, c'è come un'ombra, e mi sembra un ragazzo dai capelli mori, ma forse è solo un fantasma. Di fatto, da quando è arrivato, il mare ha assunto il suo rumore di sempre, e anche il vento ha cominciato a soffiare, e lo dicono gli alberi sulla collina qua attorno, che si lasciano accarezzare, si cullano, dondolano.
Poi le farfalle mi spingono verso il mare, e sento che qualcuno mi tiene per le mani: a sinistra c'è Sam e a destra Letizia, la quale tiene per mano una sua amica di nome Manuela, e accanto a lei altre persone, tra cui Francesco, vestito da babbo Natale e con un cuore in mano.
E allora camminiamo, ognuno a suo modo, verso il mare.
I nostri piedi lasciano segni su una sabbia di un giallo intenso, innaturale, come disegnata da un'artista contorsionista, una di quelle che ti parlano con lo sguardo, o scontrandoti con dolcezza.
Ci avviciniamo alla donna dai capelli rossi, siamo a pochi passi dal mare, e tre gabbiani fiochi e sbilenchi ci cominciano a dire di stare fermi, che è pericoloso, che per entrare ci manca qualcosa.
“Cosa?” Domanda il pulcino sulla mia testa.
“Questa”, dice il gabbiano mostrandoci una candela.
“È la candela del Salvatore!” Esclama Francesco, che nel frattempo si è tolto i vestiti da babbo natale per mettersi quelli da befana, perché lui è così, si veste come gli va di vestirsi, è un vero trasformista.
Allora il pulcino si alza in volo, e tutti rimaniamo di stucco per la velocità con la quale è partito.
Eccolo che torna con la stessa velocità della partenza, e mi posa la candela in mano.
Siamo pronti per partire.
Sam alza la mano. Tutti ci giriamo a guardarlo.
“Che c'è?” Domanda Letizia.
“Devo pisciare.”
Allora aspettiamo. Sam se ne va lontano dalla nostra vista e torna contento, asciugandosi le mani ai fianchi e compiacendosi per qualcosa.
Ci immergiamo coi vestiti addosso, nuotiamo in modi strani, e arrivano dei pesci tutti colorati e anche dei delfini spagnoli, che tra un ablas, un todos, un amigos, e un vamos, ci invitano a seguirli.
Ci conducono nel mare più profondo, e io mi sento tranquillo perché insieme a noi c'è la sirena dai capelli rossi che mi guarda con un faccino pieno d'amore e mi sta facendo innamorare. Sam mi bussa alla spalla e mi chiede, dopo aver appreso un po' di spagnolo dai delfini: “donde vamos?” “Non lo so caro Sam, forse andiamo per andare e basta, senza meta, non so cosa ci aspetta”.
Nuotiamo per quasi due giorni senza prendere neanche un respiro, nutrendoci solo di cozze, finché arriviamo di fronte ad una grotta.
“Che si fa? Io sono stanco e ho fame, e poi voglio tornarmene a casa dalla mia ragazza”, dice Francesco che nel frattempo si è vestito da pirata, e ha trovato anche una benda da mettersi su un occhio, e anche delle collane d'oro, di quelle pesanti, che mentre nuota gli stavano a penzoloni verso il basso.
“Io non entro”, esclama il pulcino, un po' innervosito dall'assenza del suo vero nido, e dalla nostalgia della chioccia e dei suoi fratelli.
“Andiamo noi”, dicono in coro le farfalle.
Un fiume giallo si appresta a varcare la soglia, ma la grotta si oppone al loro ingresso e parla: “stop! Chi siete?”
“Siamo farfalle.”
“E dove volete andare?”
“Vogliamo entrare nella grotta, nuotiamo da tanto e siamo stanchi, la sirena e i delfini ci ha condotto fin qui, e qualcosa vorrà dire.”
“Se rispondete a questo indovinello vi faccio entrare tutti”, dice la grotta con una voce catarrosa: “Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?”
Così Letizia e Manuela cominciano a ridere e a dire che la grotta è troppo stupida.
Ma la grotta se ne accorge e allora propone un altro indovinello: “di che colore è il serpente verde di Linda?”
Tutti facciamo finta di nulla: chi si gratta la testa, chi non riesce a trattenesi dal ridere e allora tossisce, Letizia si controlla lo smalto che non ha, io assumo il mio atteggiamento di quando faccio finta di pensare e allora mi liscio la barba, insomma, tutti ci sforziamo di fare i seri e di far finta di pensare alla soluzione.
Il pulcino propone, furbescamente, di avere due possibilità, data la difficoltà immane della questione.
“Sì”, risponde la grotta, “questa è davvero difficile”.
E le farfalle si scompisciano dal ridere, e Sam sembra che pianga da quanto ride.
“Verde!” esclama Francesco, stanco di aspettare inutilmente, troppo affamato e assonato per perder tempo.
Entriamo. La candela inizia improvvisamente ad illuminare di viola e rosso.
Ci addentriamo, silenziosi e sospettosi, e lungo il percorso ci sono teschi, scheletri, spade, elmi e scritte inquietanti: perdete ogni speranza 'o voi che entrate; abbandonate l'idea di poter rivedere i vostri cari; attenti alla sirena etc..
Procediamo tremanti, con le farfalle che gridano di voler scappare, il pulcino che piange, io che faccio finta di nulla ma in realtà mi sto cagando addosso. Poi, da una nuvola di fumo denso, appare una figura grandissima: il re della grotta.
“Chi siete?” Ci domanda con una voce grossa che faceva tremare tutto.
“Siamo noi, siamo qui perché ci ha condotto la sirena”, rispondiamo in coro.
“Ben arrivati, io sono Tos, il re Tos, padre di tutti i mari, protettore di tutti i pesci, reggitore del mondo marino.”
Il re è grossissimo e ha sembianze umane, il suo corpo è formato da tanti pesci, ha tra le mani due spade, in testa un triregno del colore fosforescente degli evidenziatori gialli, gli occhi tutti bianchi, la bocca storta e senza denti, e non so come faccia ma sta fumando delle alghe arrotolate e quel suo enorme sigaro fuma anche sotto l'acqua.
Guarda Sam. Gli sputa del fumo in faccia e ci dice: “se me lo lasciate mangiare vi do tutto il tesoro della grotta”, tutto questo mentre si lecca i baffi che non ha, e l'acquolina gli esce dalla bocca anche se è tutto circondato d'acqua e pare che non sia così.
Restiamo tutti un po' interdetti, non perché siamo indecisi se farglielo mangiare o meno, ma per questa cosa del tesoro.
“Lasciamoglielo mangiare, voglio essere ricco e tornare a casa il prima possibile” dice Francesco ad alta voce, mentre si abbottona una camicia da soldato austriaco trovata nei paraggi.
Ma noi tutti ci opponiamo, anche se questa novità del tesoro ci alletta un po' tutti.
Sam allora esclama: “mi sacrifico per i miei amici, lasciate che mi mangi!”
Al che, il re gigante Tos, tra cerchietti di fumo e arabeschi, lo prende tra le mani e se lo avvicina alla bocca.
Francesca e Manuela pensano già a come spendere i soldi del tesoro, fanno mente locale di dove avevano visto quella borsa che gli piaceva tanto, poi quella gonna celeste, e quel cappello larghissimo di lana cotta. Ma è un'euforia che dura un istante.
Tutti siamo tristi e cominciamo a piangere, e le nostre lacrime salate si confondono col mare, e sembra che non stiamo piangendo, ma davvero lo si fa tutti, e i nostri occhi sono rossi.
“È una trappola”, urla il pulcino dalla mia testa, “dobbiamo scappare che non c'è nessun tesoro, vuole mangiarci tutti, dovevamo dare attenzione alle scritte!”
Allora le farfalle guardano in cagnesco la sirena che ci ha condotti nella tana del nemico, e la scacciano da noi imprecandole contro parole in dialetto farfallesco.
Ma ormai è troppo tardi per tutto.
I piedi di Sam penzolano dalla bocca del re Tos, che si avvicina a Francesco con aria minacciosa. Allora le farfalle si dirigono verso Tos e gli lanciano addosso un liquido appiccicoso che lo blocca all'instante, gli entrano nella bocca per poi riuscire con Sam tutto mezzo morto sorretto dalle loro ali.
Lo portano fuori dalla grotta, e dopo una respirazione bocca a bocca durata un'eternità eccolo che si sveglia e chiede a tutti se davvero si è ripreso o se è morto e si trova in paradiso.
La colla delle farfalle non può durare a lungo. Io e Francesco cerchiamo di legarlo, Francesca gli pianta una lancia che aveva raccolto da terra nell'occhio sinistro, e poi anche una nel destro.
Mi accorgo che la candela che tengo in mano non è solo una candela, infatti, stringendola forte e dicendo “vaccabò” partono delle scariche di fulmini. Allora la stringo forte tante volte e dico la parola magica rivolto verso il mostro. Le scariche arrivano dirette sul suo corpo che cade a terra tutto tremante, mentre alcuni pesci gli si staccano dalle membra e scappano via e spariscono nel mare più profondo.
Ci sediamo stremati e pianifichiamo la fuga. Francesco si è fatto delle strisce nere sotto gli occhi per sembrare più cattivo, e ce le impone a tutti, per darci un tono da guerrieri, come se ce ne fosse bisogno. Il pulcino sta accendendo un fuoco, quando, dal fondo della grotta, sentiamo delle voci: “Aiutateci vi prego, aiuto”.
“Andiamo via, chiccazzosenefrega”, pensavo io mentre mi legavo le scarpe, ma Sam, che è un uomo di buon cuore, ci convince tutti di andare a liberare le persone intrappolate.
Controvoglia ci addentriamo nuovamente nella grotta e ci troviamo davanti due persone troppo simpatiche, Francesca e Renata, che da tanto tempo erano rinchiuse e stavano diventando quasi dei pesci.
Partiamo tutti insieme, nuotiamo veloce veloce, arriviamo a galla, respiriamo a pieni polmoni, e la luce del sole ci dà un po' noia, ed ecco ancora quell'ombra fuggente che ci passa accanto, e il vento ritorna a soffiare, e le onde a sciaguattare.
Mi guardo attorno per vedere se ci siamo tutti. Pare di sì. O forse no. Manca Sam.
Allora mi immergo con tutta la forza che ho, e nuoto con tanta potenza che alcune tartarughe marine mi guardano e poi si guardano tra sé e annuiscono con la testa, basite dalla mia stratosferica velocità. Trovo Sam incastrato ad uno scoglio e lo strattono forte, ma sento che sto perdendo tante energie, e mi si stanno chiudendo gli occhi, il bisogno di dormire mi assale, non posso resistere, non ce la faccio. Mi addormento.
Mi addormento abbracciato a Sam che già dormiva russando e mugolando frasi in spagnolo.
Fine dei giochi. Eccoci qui addormentati per sempre, abbracciati come due innamorati.
Ma all'improvviso sento una bocca sopra la mia, e dell'aria m'infilava con forza nei polmoni. Mi sta passando la voglia di dormire, allora apro un occhio, poi anche l'altro.
Questa bocca che ho sulla bocca non si stacca, e questa lingua lecca la mia, e mi conta i denti e ci mette passione.
Così mi stacco di dosso con una gomitata la figura che mi ha salvato. “Non ho resistito”, dice la sirena mentre lentamente si sta riavvicinando con la testa inclinata. Non resisto e la bacio, anche se so che la nostra storia non potrà funzionare, che ci ha tradito già una volta, che io ho le gambe e lei una coda, una gran della coda ma è comunque una coda, che se volessimo andare al cinema le servirebbe una vasca, e dovrei trasferirmi al mare ma non mi va.
Così, dopo un bacio appassionato e tante carezze, cominciamo a scastrare Sam, a dargli degli schiaffi per farlo riprendere. Sam si riprende e ci abbraccia, e ci dice che lo sapeva che qualcuno sarebbe tornato a prenderlo, che tutte le persone hanno qualcosa di buono.
“Ma la sirena non era cattiva?” mi domanda Sam, “è innamorata di me”, gli dico, e rimane basito, perplesso, come se non riuscisse a spiegarselo.
Raggiungiamo la superficie, emergiamo come balene sputando acqua.
Eccoci soli in mezzo al mare, c'è solo un peschereccio in lontananza e degli squali che ci girano attorno. Poi ci sentiamo tirare verso la barca, siamo tutti vicini e abbracciati perché qualcosa ci tiene insieme. Siamo stati pescati da una rete. Mi volto e vedo la sirena che ci sta dando dentro con Francesco, allora Sam mi guarda sorridente, alzando le spalle, dicendomi che non potevo farci niente se lei amava un po' tutti.
Il peschereccio ci ha definitivamente alzati dal mare, e ce ne stiamo sospesi, mentre un marinaio strano con un cappello da ciclista ci guarda e si arrotola una sigaretta di alghe.
“E voi chi sareste?”
“La prego signor marinaio, con quei bei capelli biondi lei non può essere cattivo, la prego ci faccia scendere che le spieghiamo tutto”, balbettava il pulcino.
Il marinaio, lento come un bradipo, ci fa cadere a terra. Dopo avergli raccontato la nostra storia, ci offre qualcosa da mangiare. Dalla cambusa fa uscire di tutto, e apparecchia come per Natale, coi bicchieri da vino e le candele. Mangiamo del pesce fritto e della pasta con dei granchi vivi, una pasta scotta e senza sale, e ce ne accorgiamo tutti, ma non diciamo nulla per gentilezza.
La sirena, che nel frattempo si era buttata in acqua per non crepare, con gli occhi sta facendo sesso col marinaio, il quale, a detta mia, potrebbe essere il suo uomo ideale.
Si è fatto l'imbrunire.
Il marinaio ci riporta gentilmente alla spiaggia, proprio nella spiaggia da cui eravamo partiti giorni prima. Scendiamo tutti, chi camminando e chi volando, altri facendo finta di fare i soldati, trascinandosi con gomiti.
Il peschereccio si dissolve in lontananza con la sirena a seguito che fa piroette e salti da favola.
Mentre siamo distesi, dal mare sentiamo strane voci che ci chiamano. Sono i delfini. Li osserviamo, adesso parlano francese e ci dicono “bravi, bravi, bon, tres bien”, poi dalle loro bocche escono dei fiori, fiori che si fanno piccolissimi come granelli di sabbia e che ci vengono incontro, li respiriamo e ci sentiamo felici. Siamo fecondi di felicità.
Improvvisamente se ne vanno tutti, rimango solo con le farfalle ma poi fuggono anche loro.
E se ne va anche il rumore del mare e il soffiare del vento, il sole si attenua, e mi ritrovo nuovamente nella mia stanza buia, senza porte e finestre.
Allora ecco l'odore di sigaretta, l'abbaiare dei cani, e apro gli occhi, inciampo in una buca, ed eccoci alla ferrovia.
Il tutto non ha senso, ma alle cose, il senso, alla fine lo diamo noi.
Al di là di un senso sensato o di un senso sensibile, c'è un terzo senso particolare, quello del mare.

Proprio come succede ad ognuno di noi, figli del destino e dell'erranza, figli della destinerranza.
Come la musica pop, viva e vita, piena di vita.
Le stagioni. Otto diviso due, quattro.
È naturalista. Egli ci parla di naturismo. Naturista, nudista.
Movimento costante. Monolitico è il morto. Va bene l'andamento lento.
Il sudore toglie aridità alla pelle.
Pregati il tuo dio.
Lui ha un dio.
Egli ha un dio tutto suo. Si è inventato un suo dio! Egli prega solo il suo dio.
M'invita a farmi un dio tutto mio. Un dio tutto mio!
Ora prega, e si ripete che deve essere virtuoso.
Sforzati di essere virtuoso. Sforzati di essere virtuoso.
Alle nostre umili esistenze non c'è altra alternativa che il sudore, il mal di schiena per la troppa vicinanza alla terra , bassa come il lavandino dove lavi i piatti, e bassa è negli angoli la polvere che stavi cercando quella notte: sposta il battiscopa in angolo, in bagno, v'è lì nascosta l'alternativa illusoria a quella che per molti è già un'illusione. M'illudo nell'illusione. Come sognare un sogno in cui sogni. Dimmi quando, quando.
E sputa a terra l'ora tarda, e vattene a letto che stai un po' meglio e ti sei ripreso. Non far l'errore di andare a letto mentre t'illudi nell'illusione che non sia illusione.
Non ho capito se è insonne o meno. È meno insonne solo la notte dopo che l'ha fatta in bianco.
È che il mondo è pieno di cose inutili da fare.
Piacere di avervi conosciuti tutti, i miei omaggi a voialtri, e perché Linda sogna la libertà? Va forse ella cercando l'amore?
Di tutto questo chi se ne fa? Non credo sia inutile, tra tutte le cose inutili che ho fatto, questa non lo è affatto.
Sono qui presentati i quattro elementi tipici delle nostre esistenze: la cosa, ovvero l'esperienza del mondo, quella che i bravi chiamano empiria, ovvero ciò che abbiamo di fronte ogni santo giorno.
Poi la memoria della cosa, il ricordo, a tratti vivido ma talvolta distorto, ed entra qui in gioco l'onirismo della memoria, il ricordarsi un pomo non più arancio ma azzurro, che quella tale persona era mancina e invece e destrorsa.
E ora siamo di fronte al terzo elemento: la fantasia. La fantasia è la massima espressione di quello che fa il nostro cervello: affabula. Affabulando di continuo, in realtà non sappiamo più ciò che è vero e ciò che non lo è. Proiettiamo di continuo su ciò che ci presentano i senti un qualcosa che alla purezza della cosa non appartiene.
Viviamo, in pace o meno con noi stessi, con altro da ciò che c'è. Che, estremizzato, è come credere di avere le ali e di poter buttarsi giù da un palazzo, e accorgesi ad un secondo dal salto che quelle ali non funzionano, che quelle non sono ali. Ed è un storia realmente accaduta, successe a Faenza alcuni anni fa ad un tizio che credeva gli fossero spuntate le ali.
Ma la fantasia ci permette anche di trasformare ciò che è ignoto e ci fa paura in un qualcosa di familiare, di non estraneo o anormale.
Forse è stata davvero una proiezione la sensazione che ho provato in una stanza parecchio tempo fa, ma non avevo davanti dei disabili, quelli che sbavano, che sbattono la testa al muro, che urlano ed ulano in un grande richiamo o imprecazione a un qualche dio. E non li avevo neppure di fronte a me, non c'era tra noi alcun tipo di distanza. Io ero lì con loro, tra loro, ero loro. È caduta una sorta di maschera da uomo, uomo inteso come colui che domina, che ammaestra, educa, impone un ordine da una posizione privilegiata. Da sopra, mi son sentito dentro, son scivolato giù.
Forse ha smesso di funzionare la mia macchina proiettiva, c'è stato un cortocircuito. In quella stanza ho sentito solo energia: energia per respirare, energia per vivere.
La quarta dimensione della quale volevo parlare è quella relativa all'ipotesi.
Perché sì, si fanno sempre delle ipotesi su tutto. Così per dire, ipotizzo che l'energia e l'amore che ho provato siano frutto del mio egoismo. Avevo davanti il diverso, l'anormale, ciò che non sono. E questo mi ha fatto sentire bene, osservavo dal mio corpo normale e al sicuro una tempesta, un terremoto, una sorta di catastrofe mostruosa fatta di bava e contorsioni, di urla.
Fermo, al sicuro, stabile, distaccato, il tutto mi è sembrato sublime. Egoismo, sono un egoista.
Atteggiamento da saggio. Nevvero che forse è così?
Ma non sono così, o penso di non esserlo. Non riesco a stare fermo sulla riva ad osservare. La vita, parlo in generale, fa sempre la chiama, come un arbitro prima di una partita, e una volta che il tuo nome è stato fatto, sei dentro, sei sulla nave in mezzo al mare. Si è tutti in mezzo al mare, si è tutti in pericolo, siamo tutti anormali. Aver frequentato quei ragazzi è stato per me una scommessa, forse la più alta. Siamo tutti sulla stessa barca, è questo che mi sono detto mentre leggevo loro una storia, mentre mi accarezzavano e una ragazza aveva la testa incastrata sotto il mio collo, e mi accarezzava la barba, ed era delicata, e l'ho amata, e un po' sono ancora innamorato.
Chiusa la possibilità di osservare il tutto da distanza, ho capito che ci si salva soffrendo e sperando insieme agli altri , considerandoli fratelli (Cristo santo, sono un vero cristiano!).
Sono rimasto colpito dal fatto che le opere che questi ragazzi hanno liberamente creato ruotavano attorno a tre cose: il mare, l'amore e la felicità.
Il mare, a cui è dedicato il titolo di questo scritto, ci mette davanti alla vita, è una metafora di questa. Siamo tutti, ognuno a suo modo, vogando come ci riesce, sospinti dalle onde e dalla corrente, in un enorme mare. E allora proiettiamo e cerchiamo punti fermi, nauseati quanto basta, per aver coscienza che tutto scricchiola, che non ci sono fondamenta, che l'abisso è sotto di noi, attorno a noi.
E poi la felicità. Chi parla di felicità con tanta leggerezza? Chi sa cos'è la felicità, chi comprende la sua situazione, chi sa che è tutto mare. La felicità non consiste nell'osservare da una zona franca l'altro che soffre e affonda, ma nel partecipare in prima persona ai rischi della navigazione. È forse questo un invito a gettarsi nella mischia? Sì, altrimenti si spreca la vita. Si nuota, perché nuotare è bello, ed è più bello se si nuota nel mare, coi i rischi che ciò comporta. Nuota, balla, slaccia le funi che ti tengono in porto, muoviti. È forse questo stato un invito? I saggi sono loro, quei ragazzi, che si ritrovano in un centro che porta il loro nome singolare collettivo: delfino.
E poi l'amore. Tutti parlavano d'amore, e cristo benedetto lo si percepiva davvero l'amore. Cose che a me mettono in difficoltà, come per esempio l'amore e la felicità, a loro vengono naturali, ne comprendono il senso.
O magari non è così, parole come amore e felicità vengono abusate, se ne sente parlare di continuo e così, con l'ingenuità che li contraddistingue, loro le hanno fatte proprie, forse ne abusano anche loro.
Insomma, questo mi andava di scrivere e l'ho scritto, se ai perbenisti non va bene possono pure andare in culo.


5 commenti:

  1. Ci tenevo a salutarti, dopo tanto tempo, sono contenta di trovarti qui. Un abbraccio grande!

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  2. Ciao, ho riaperto il mio blog con un nome leggermente diverso pietraeluce.blogspot.it. Se capiti da quelle parti vienimi a trovare.
    Ciao Bartel

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  3. Si legge tutto d'un fiato!
    Bentornato nella blogsfera.

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