Summer of love (I-IV; sviluppo continuo)
I
i
superpoteri che non ho
La
profezia mi fu rivelata, ma non ne sentii neanche metà: mi
stavo grattando la testa. Quando mi gratto questa testona di
riccioli mi isolo dal mondo e i miei orecchi non ricevono onde
dall'esterno. Deve essere tipo un meccanismo di difesa che attua il
mio corpo in certe situazioni particolari, quelle importanti.
Grattandomi la testa ho il superpotere di non capire un cazzo di
quello mi viene detto e ciao mondo, au revoir, pur tuttavia
restando visibile agli altri, come mi fa notare la gatta qui al mio
fianco mentre faccio alcune prove.
Così,
mentre oggi pomeriggio stavo dormendo sull'amaca con un bacchettino
di liquirizia in bocca, in sogno mi è apparso il Sultano che
delineava il mio futuro, e mi diceva di ascoltarlo che mi stava
facendo un regalo, che così potevo prepararmi in tempo, per tutto.
Eccolo che inizia a parlarmi dall'alto dei suoi duecento chili
portati bene, e così la maledetta pulce che abita nel mio orecchio
mi salta tra i capelli e inizia a far pizzicare tutto fortissimo.
Resisto per un po', ma poi inizio a grattarmi e vedo che la bocca del
Sultano si muove ma non sento un minchia, e il pizzicore cresce
insieme alla disperazione per non capire un cazzo di quello che mi
sta dicendo. Mi gratto con due mani fino a scorticarmi, fino a quando
il prurito diminuisce, e allora smetto di grattarmi per un po' e poi
ricomincio e poi smetto giusto in tempo per sentire il Sultano che
dice: - “è così, ti ho aiutato più del previsto, ora devo
andare”.
Cazzo
di sfigato dimmerda che sono.
Detto
tra noi, avevo proprio bisogno di farmi dire che cosa ne sarà della
mia esistenza, dove andrò a battere questa capoccia, dove struscerò,
scivolerò o salterò nei prossimi mesi, anni, giorni, ore.
Tutto
questo, ammettendo che il Sultano sia un vero profeta capace di
vedere il futuro.
Resto
immobile sull'amaca a far finta di fumare il bastoncino di liquirizia
e immagino il fumo denso che mi avvolge e mi porta con sé sopra gli
alberi, e mi fa vedere me stesso dall'alto come in un bel trip di
ketamina, immobile a far finta di fumare, avvolto in un finto fumo,
ad attendere tante cose e a pensarne duemila.
Credo
fortemente nel potere terapeutico della scrittura e della
comunicazione in generale e per questo, adesso, vi parlerò di tutti
i miei problemi, visto che ne ho molti e ve ne siete di sicuro già
accorti. Attenderemo inoltre una comune catarsi. Vi starete
chiedendo: quale maledetto peccato abbiamo commesso e ci apprestiamo
a scontare? Vi chiedo solo di aver pazienza e di darmi una mano, che
magari un giorno ne avete bisogno voi. Siamo tutti amici, e l'amico
ha bisogno dell'amico, come dice un mio amico.
II
lo
specchio, la sua natura e la mia
Da
qualche parte bisogna pur partire. Chi sei? Non fatemi questa
domanda, me la faccio ogni santa mattina e ne vien fuori una risposta
sempre diversa. A questo punto temo che ad essere sbagliata sia la
domanda che mi pongo: mi chiedo di definire me stesso staticamente,
etichettandomi, di appendermi un post-it sulla testa, o di legarmi un
foglietto al pollice del piede con la definizione di ciò che sono
all'ora x del giorno y: impossibile anche solo a pensarlo, errore
tremendo. Sono e siamo talmente fluidi che l'unica cosa che possiamo
dire di noi sono i fatti che ci capitano, i legami che abbiamo, dove
scorriamo, le aspettative nascoste nelle tasche posteriori dei nostri
jeans strappati, ovvero dove vorremmo andare, che fermi non ci
sappiamo stare.
Ma
anche riguardo al mondo non son certo di ciò che vedo, di ciò che
conosco.
Anche
quando mi vedo allo specchio non sono tanto certo di essere io. Io
chi? Ma provo comunque a definirmi. Per farlo ho bisogno di uno
specchio, così per incasinare ancora di più la cosa. Dunque mi alzo
da questo mia postazione magica in mezzo al giardino e vado in casa a
prenderne uno. In tutto questo la gatta mi guarda come a dire che
forse sarebbe meglio andare a letto che è notte fonda. Me ne fotto.
Scalzo ed euforico, salgo le scale in pietra che dal giardino mi
conducono alla casa ed entro in bagno. Stacco lo specchio da sopra il
lavandino e penso che in passato l'ho fatto molte volte per farci dei
gran tiri di coca sopra (da ricordare, poiché la situazione fu
entusiasmante e allo stesso tempo terribile, la volta che per il
compleanno di Bledar scrissi sullo specchio AUGURI FRATELLO! e che
poteva tirarsi tutta la scritta. Alla “i” vedemmo la testa del
compagno che lentamente si piegò verso l'alto per poi cadere a
schiaffo sullo specchio. Non sapevamo cosa fare: decidemmo di non
fare nulla. Fortunatamente si riprese che era già mattina, dopo che
il resto delle lettere le tirammo noi, mentre lui se ne stava con la
testa sul tavolo, mezzo morto, mentre noi gli dedicammo comunque
molti brindisi).
Ma
torniamo allo specchio. Mi rimetto in giardino alla mia postazione
con lo specchio appoggiato sul tavolo che inquadra il foglio sul
quale sto scrivendo e questo lapis lungo come un pollice. Lo specchio
è qui che specchia me che sto scrivendo. Sembro mancino. È un bello
specchietto del cazzo, e do per certo che sia uno specchio. É a
questo genere di cose che c'è da stare attenti? a credere che le
cose siano ciò che crediamo che siano? Spesso ci inganniamo che le
cose siano come ci appaiono sensibilmente, spesso ci fidiamo
dell'esperienza immediata. Ma si è sempre di fronte a continue
contraddizioni: ne siamo immersi continuamente. La vita è una
contraddizione: morti vivi, freddi caldi, bianchi neri, dolci saltai,
emersi immersi, essere che non è e non essere che è. Quel tutto che
è intorno a noi non è mai una cosa soltanto: Aristotele è caduto
in fallo.
Dicevamo
dello specchio: non dubito di percepirlo, ma forse è questo il mio
primo sbaglio. È ciò di cui non si dubita affatto di cui si deve
dubitare? Proprio qui inizia il giusto metodo per capire le cose?
Vedo questo specchio dalla cornice di legno dipinta di bianco, ma la
parte inferiore è toccata da una luce diversa e mi sembra che sia
grigia e non bianca. Adesso mi giro per scrocchiarmi il collo e
cambio posizione in questa sedia tutta traballante sulla quale ormai
da alcune ore sono seduto. Da questa mi nuova posizione mi accorgo
che la luce dà allo specchio una distribuzione diversa di colore. Se
qualcuno arrivasse adesso dal fondo del giardino, proprio da laggiù
dove un giorno volevo farci un orto ma dove adesso c'è il cacatoio
dei cani, insomma se qualcuno arrivasse da là, vedrebbe i colori
della cornice dello specchio in altro modo: è chiaro, infatti, che
due persone non possono vedere la medesima cosa dalla stessa
posizione, dallo stesso punto.
Da
tutta questa pippa che vi ho attaccato, pippone che in parte sconta
alcuni dei vostri peccati, si evince che è sempre da tener presente
la distinzione tra apparenza e realtà. Quale colore è il vero
colore della cornice dello specchio? La cornice ha un colore? Questo
specchio ha davvero una cornice rettangolare? Ha una forma? Ma
soprattutto: esiste davvero lo specchio con la sua cornice o ciò che
chiamiamo in quel modo?
Mi
sembra chiaro, mentre sorseggio ancora questo vino dolce che mi rende
veramente felice, che a rendere le cose stabili è solo l'abitudine e
l'esperienza, cose che, come ho già detto, mutano e si contraddicono
incessantemente nel colore e nelle forme.
Se
tocco la cornice con la mancina mi pare in un modo, se la tocco con
la destra, con la quale ho più forza, mi pare in un altro. Vogliamo
parlare della porosità del legno? Se pigio forte il dito la
percepisco bene, se invece lo sfioro non me ne accorgo affatto. Con
le seguenti argomentazioni sembrano essersi dileguate molte certezze.
Inoltre mi viene da domandarmi adesso: questo che tengo in mano è
veramente un lapis? Cos'è davvero? Posso definire lo specchio e la
sua cornice con quello che ho esperito sensibilmente? Sono davvero
fuori di me? Oltre ai dati sensibili e alla consapevolezza di averli
ricevuti, esiste qualcos'altro? Voglio dire: se ad esempio osservo
questa bottiglia di passito dal collo lungo e l'etichetta begiolina e
un po' bagnaticcia, come faccio a sapere se esiste davvero fuori di
me questa bottiglia? Sotto a quello che percepisco c'è qualcosa? C'è
della materia sotto le mie percezioni? Non è che tutto è racchiuso
nella mia mente?
La
bottiglia di passito, la gatta, il lapis, lo specchio, il giardino
che mi circonda, sono forse cose che hanno solo una natura mentale?
Non lo so. Ma non credo. Sostenere una simile posizione sarebbe
limitare le nostre capacità. Che senso ha dire che conosciamo solo
cose della nostra mente? Ora mi attacco alla boccia di passito e lo
sento che mi scorre nel corpo e mi tranquillizza. Sento che è vero.
Prendo il mio bastoncino di liquirizia e lo aspiro forte e so che è
falso il fumo che vedo attorno a me.
So
che la gatta è vera. So che questo specchio e la sua cornice sono
veri. Mi piace dondolarmi nell'idea che tutto questo esista. Diciamo
che credere che tutto esista mi è utile. Lo specchio mi è utile per
specchiarmi la mattina appena sveglio e mettermi un po' di cera nei
capelli e non sembrare uno sconvolto qualsiasi: lo specchio mi dà la
possibilità di essere uno sconvolto pettinato e coi denti puliti, di
andare a lavorare senza cispe. Emerge allora, adesso, mentre con
quest'ultimo sorso di passito la boccia è finita e dovrò trovare
altro da bere, che è l'utile che dà stabilità a questo mondo. Come
mi è chiaro in questa notte unica di un'estate unica che il
Pragmatismo è la vera Filosofia. È vero ciò che serve ed è utile.
Al
di là di queste riflessioni dovute al troppo zucchero che il mio
corpo no è i grado di gestire, sono in giardino e mi sento solo.
Tanto solo. Bere un po' mi è utile per giustificare i miei randagi
pensieri e la conseguente solitudine che ognuno di noi prova quando
fa pensieri randagi.
Come
se la solitudine fosse dovuta solo ai pensieri randagi.
Mi
sento talmente solo che prendo la gatta in collo e mi metto a
piangere mentre l'accarezzo. Lei si ritira un po' e poi fa le fusa,
morbida e tremendamente dolce. Qualche lagrima cade sul suo pelo
bianco, poi tante lacrime che rendono il pelo meno gonfio. La sento
che mi lecca il collo con la sua lingua ruvida, strappandomi un
sorriso che mi dà la forza di sedermi nuovamente, appuntare il lapis
e continuare a scrivere.
Il
discorso che volevo fare, comunque, era diverso. Ci riprovo.
Mi
guardo di nuovo allo specchio e dico che io sono innanzitutto la mia
pelle, i miei arti, le mie unghie, i miei capelli: tutte cose che
crescono e poi se ne vanno da me, ma che mi rendono in qualche modo
me. Sono sempre diverso ma sono sempre lo stesso. Anche questi miei
denti stortissimi non sono più quelli che avevo venti anni fa. Non
sono mai le stesse cose ma sono ugualmente io. Pensare che ho
cambiato anche molte opinioni, fidanzate, stili nel vestire: eppure
sono lo stesso. Ma oltre o questo cosa sono io? Questo specchietto
del cazzo non mostra la mia anima. C'è forse bisogno della
percezione della nostra anima per sapere in verità cosa siamo?
Se
mi guardo allo specchio, so che ad imprimersi nel mio occhio è solo
un qualcosa di parziale. Come ho detto sopra, è utile pensare che io
sia ciò che vedo di me.
Non
riesco a trovare nulla che mi dice: tu sei questo. Così mi è utile
autoconvincermi in questo inutile soliloquio che io sono ciò che
vedo.
Sto
cercando il mio io, vi rendete conto? In questa maledetta sera in cui
ho bisogno di altro alcol e di qualche droga pesante, io sto cercando
il mio io e sto dicendo che quella di io è una merdosa idea fittizia
come quella di anima: è utile pensare che esista e che sia stabile,
come per tutte le cose che ci circondano. Poi ho un'illuminazione: in
tutto questo che scopo ha la memoria? È forse grazie alla memoria
che io scopro chi sono? Ma no, la memoria ricorda solo alcuni
vissuti, è lacunosa, connette come vuole i ricordi e ne crea anche
di nuovi a suo piacimento.
Io
non so, grazie alla memoria, chi sono interamente. Potrei fare un
elenco dei miei ricordi ma non troverei il mio io.
Io
chi? Io chi cazzo sono? In che senso stabile? Forse è davvero
sbagliata la domanda.
III
possibilità
e proposte
Così
è davvero evidente a voialtri tutti la gravità della situazione
nella quale sono immerso. Credo di aver perduto il senno. È chiaro
che non sono in pace con me stesso. Liscio: c'è qualcosa che non va.
Ho anche le visioni e le paranoie.
Salgo
le scale ed entro in casa. Rovisto dappertutto ma non trovo nulla né
da bere né da fumare. Questa liquirizia dimmerda mi sta uccidendo
lentamente. Allora mi metto le scarpe, mi lascio questi pantaloni da
sportivo e mi metto una camicia bianca, che quando vado a caccia ho
bisogno della camicia bianca come un pescatore del suo corpetto con
le tasche piene di ami e galleggianti e piombi e slamatori di varie
forme.
Dovrei
prendere la bici e scendere per la tortuosa strada che conduce alla
provinciale SP41, attraversare la Sieve e proseguire per la SP551 per
giungere stremato in bottega, tirare su il bandone, prendere un paio
di bocce di malvasia e tornare a casa col sole già alto in cielo.
Non v'è guadagno. È improponibile. Arriverei a bottega pezzato di
sudore.
Allora
mi viene da pensare a mia cugina. Penso a quella ninfomane mentre
sono in piedi in piena notte, con la camicia e le scarpe.
Ecco
la soluzione: mi aveva portato qualcosa da bere. Cerco di ricordare
dove ho messo quella busta blu. Allora rovisto in ripostiglio ma
trovo solo scatole piene di ricordi e vestiti da buttare. Vado in
bagno e apro lo sportello dei detersivi. Mi attacco a questo Vernel
color lilla? Ecco la busta e l'evidente figura di una bottiglia
avvolta stretta stretta.
Brava
la cuginetta che conosce i miei gusti.
Con
la felicità di chi è felice mi tolgo la camicia, torno in giardino
e proseguo.
Vi
dicevo della particolare situazione emotiva: si estende davanti a me
un campo infinito di possibilità che mi mette una tremenda ansia. Vi
sono innanzi molte strade da poter percorrere, e ognuna di esse ha
aspetti positivi e negativi (come ogni cosa, come abbiamo detto
sopra).
Partiamo
da una proposta fattami di recente, una proposta simile a quella che
mi fu fatta alcuni anni fa. Ma, essendoci rimasto male già una
volta, e quindi memore di uno stato d’animo difficile da
sopportare, e di una conseguente tristezza che mi aveva reso depresso
quasi come un depresso di quelli veri (al punto che mi tremavano le
gambe e non mi andava di uscire di casa, vivere, parlare, scrivere,
mangiare, chiavare, segarmi, scaccolarmi e fare peti in pubblico per
vedere la reazione della gente), decido adesso di non fare più
menzione neanche a me stesso della proposta che mi è stata fatta la
scorsa settimana, essendoci rimasto male già una volta, come ho già
detto. Si tratta di un vicolo cieco, ve lo dico.
L’esserci
rimasto male quella volta (e credo adesso che abbiate capito che
quella volta ci sono rimasto male, essendo questa la quarta volta che
ve lo dico in poche righe), ovvero la profonda delusione e il
profondo sconforto che provai, mi portò a non essere me stesso, ad
allontanarmi da me stesso.
Quest'ultima
affermazione porta con sé delle conseguenze e delle possibili
obiezioni da parte del lettore attento. Mi potrebbe chiedere: esiste
“un me stesso” statico? Che senso ha dire che “uno si allontana
da se stesso”? In che modo è possibile “non essere più se
stessi”? Per rispondere a questo tipo di lettore dovrei avere
voglia e tempo, e soprattutto non dovrei aver bevuto neanche una
goccia di questo passito buonissimo che mi ha portato quella
porcellina di mia cugina Caterina da Pantelleria. Che ninfomane
ragazzi, l'ho presentata al mio amico Tom, quello che mi porta
l'erba, e me lo ha rimesso al mondo il mio Tom, era proprio in una
crisi del cazzo ed era in dubbio sul fatto di essere diventato
omosessuale o cosa. La Cate me lo ha rimesso in sesto.
Potrei,
adesso, e se non fossi sbronzo, rispondere al lettore attento e
perdermi in disquisizioni metafisiche, non mi va, diciamocelo, sono
argomenti che richiedono una certa lucidità di pensiero che
in questa notte d'agosto proprio non ho.
Meglio
lasciarsi andare al sorseggio di questo vino dolce che m'impasta la
bocca e osservare l'eleganza con cui la gatta si lecca i polpastrelli
per poi passarseli sul muso, o come piega il collo per per lavarselo,
o come sbadiglia e mi guarda, mentre se ne sta seduta vicino a me
sulla poltrona da giardino in questo giardino illuminato da tre luci
tenui che mostrano il secco del prato, le ortensie dalle foglie
stanche e assetate, i grilli che cantano alla luna e sembrano dare al
vento il ritmo coi cui fa tentennare i rosi sfioriti e pieni di
pidocchi, o coi cui accarezza il mio corpo e i miei capezzoli
inturgiditi in questa notte di attesa e silenzio, mentre una
ragnatela si dispiega lucida dall'angolo destro di questa pergola
colma d'uva fragola quasi matura fino a questo lampadario sopra la
mia testa zeppa di riccioli.
Se
vi parlassi della proposta, e se poi non dovesse andare, ripartirebbe
tutto da capo: delusione, pseudo-depressione, viso verde, tristezza,
inappetenza, troppo appetito, ingrassamento, dimagrimento, “ma
parlane con un medico, ma fai dello sport, ma come non ti va di
uscire di casa, ma fatti aiutare, oh ma non puoi stare male per una
cosa così, devi reagire”.
Ci
stetti male, poiché ognuno sta male per quello che gli pare, e
ritorna a galla nel modo che gli pare, con la personale potenza che
ha negli arti e che gli serve per riemergere, con il soggettivo
ossigeno che i suoi polmoni possono trattenere, se l’ossigeno può
essere soggettivo o meno. E fatevi i cazzi vostri per una santa
volta. Il mondo è pieno di rompicoglioni che sanno cosa devi fare.
Siamo come bollicine che dal fondo di una birra riemergono e poi si
mescolano nella schiuma delle passioni della vita, e scoppiettano in
un grido che sembra di gioia, prima di essere inghiottite da bocche
assetate nell’estate calda e umida del nostro scontento, e
scoppiettare ora dentro pance, e rutteggiate da bocche che ululano
alla luna su visi sudati di disperazione, o rimbombare poi nella
porcellana di un cesso qualsiasi, nel ciclo eterno e scoppiettante
del saliscendi.
Insomma,
eccomi di nuovo qua, a galla ma senza galleggiare, in questa birra
che in realtà è un mare, inteso come mondo presente, reso amaro
dalla salsedine, zeppo fino all’orlo di enormi pesci intrisi di
invidia e cupidigia e affamati di pesci più piccoli, ma essi stessi
oggetto di bramosia di un pesce ancora più grande, il Grande ed
Infinito pesce, quello che se vuole può ingoiarci tutti in una sola
boccata. Siamo tutti minuscoli di fronte al Grande Pesce. Per non
parlare del vento che, da quanto è forte, è abrasivo; o delle
tempeste, vissute o meno da spettatore, sublimi o meno, a
rappresentare l’andamento costante del ritmo della vita, come fa in
qualche caso il tempo per noi terrestri.
Mi
taccio, tendo di sviare, ci penso ma poi l’allontano. Preme forte
il desiderio di parlare a qualcuno della proposta. Se mi accorgo che
ci sto pensando cerco di pensare ad un’altra cosa, come ora che ho
pensato al mare e a ‘sta minchiata di cose, per non pensare a una o
all’altra cosa, alla proposta, nella fattispecie. Ora penso a quel
bel buco di culo che si ritrova la cassiera della Conad, che come mi
vede arrivare con mio carrelletto a trolley ha sempre bisogno di
alzarsi e di piegarsi a novanta per raccogliere qualcosa da terra.
Cagna. Ora penso al fatto che vorrei comprarmi una moto di quelle
senza carene, tutta nera, ed andare a giro con un casco rosso ed un
foulard azzurro che mi svolazza sulle spalle, mentre ascolto della
musica elettronica, di quelle senza voci, che le parole mi piace
mettercele da me.
Ma
come è possibile nascondere a se stessi le cose? Come utilizzare, se
esiste, una memoria selettiva? Talvolta capita come meccanismo di
difesa utilizzato dalla mente, l’ho letto da qualche parte, ma
distrattamente, e tipo le persone che davvero hanno sofferto e che
non vogliono soffrire nuovamente riescono a rimuovere tutto. Ma credo
sia una stronzata colossale, poiché altrimenti che ne sarebbe della
Storia? Nessuno avrebbe parlato del male che è stato fatto e non si
saprebbe nulla di quanto l’uomo sia folle, di come ogni tanto, a
cadenza quasi regolare, fa come la maionese che fa la Borselli,
impazzisce e via. Come si formerebbero certi tipi di anticorpi?
Non
essendo in grado di mantenere un segreto, e questo sia chiaro fin da
subito, e che non vi venga in mente di raccontarmi qualcosa di
intimo, che poi lo snocciolo a tutti i venti, decido adesso di
rendervi partecipi della proposta che mi è stata fatta, giusto per
essere coerente con me stesso e incoerente con quanto detto sopra,
che l’incoerenza e il masochismo sono il mio punto di forza, intesi
come affezioni o modi principali del mio essere. Lo faccio, si badi
bene, per assecondare il flusso della vita di cui si è parlato in
precedenza, che tanto, che lo si voglia o meno, risponde solo alla
sua logica.
IV
storia
dell'editore che voleva il mio culo
Eccovi
allora la proposta, consapevole delle conseguenze.
Una
proposta pone sempre davanti a una riflessione, conscia o inconscia
che sia.
Le
proposte si dividono in tre: i compromessi, le occasioni e le
inculate. Le ultime, solitamente, sono mascherate dalle seconde,
luccicano e profumano più di ogni altra cosa di questo mondo terreno
nel quale tentennando viviamo. A luccicare c’è l’oro e
l’inculata.
La
volta in cui ci rimasi male fu bella per davvero, nel senso che mi
stavo accorgendo che mi stavano riscaldando delicatamente il culo e
che lentamente mi stavano penetrando. Attesi inerme e a tratti con
connivenza, poiché non avevo mai avuto tante lusinghe e attenzioni,
e nessuno aveva mai applaudito o si era appuntato la risposta che
fornii alla domanda: qual è la tua visione del mondo? Utilizzarono
lo stesso metodo che si usa per tirare il collo ad un pollo: lo si
accarezza amorevolmente fino al punto in cui la mano gli diventa
familiare, il pollo si fida e non ha paura, rilassa dunque i muscoli
e permette una presa forte e secca al carnefice.
Era
l’agosto di sette anni fa quando, dopo un anno passato a svolgere
mansioni poco confacenti al mio sviluppo interiore, riposi ogni
speranza per un futuro migliore nelle saccenti mani di una casa
editrice di Siena, la quale voleva puntare sui giovani e aveva visto
in me e nel mio blog un potenziale che doveva essere coltivato e allo
stesso tempo divulgato nel modo giusto. Quando le persone mostrano
interesse per quello che fai e per come sei, oltre a quello che pensi
o senti nel tuo fragile animo di poeta, chiunque tu sia, specie se
giovane, o anzi a maggior ragione se giovane, il giovane in questione
si esalta e crede di poter conquistare il mondo. Io mi esaltai
enormemente e mi sentivo già un poeta affermato o uno scrittore
quasi all’apice della carriera, prima ancora che il mondo mi avesse
ascoltato o criticato, o che lo avessi vissuto, il mondo. Come base
potevo contare sulla lettura, superficiale e senza alcuna cognizione
di causa, di alcuni libri coi quali mi sciacquavo la bocca
fluentemente con tanto di gargarismi. Libri non capiti, ed
oggettivamente pochi libri, ma con tanta voglia di chiacchierare,
inventare storie, descrivere quello che mi capitava.
Uno
scrittore, io in particolare, senza voler per forza assolutizzare, ha
bisogno di parlare di continuo, e gli va bene anche non essere
ascoltato, e per evitare di sembrare ebete o ritardato, e di
passeggiare per la strada e parlare da solo, scrive, e se è in un
posto sicuro dove nessuno lo può ascoltare allora può anche
parlare, io per esempio lo faccio in macchina (lo facevo: la mia
vecchia cara polo religiosa è dal meccanico).
Insomma
mi chiamarono a Siena e partii baldanzoso col mio computer e con
tutti i miei scritti, e nel viaggio in macchina pensai al fatto che
dovevo dotarmi di una segretaria che gestisse i miei appuntamenti, le
interviste, le ospitate in tivù. Mi accolse un uomo di mezza età,
alto più o meno come me, brizzolato e coi capelli corti, una camicia
azzurra infilata nei pantaloni e una panzona che strabuzzava fuori.
Mi abbracciò con affetto come se fossimo parenti ma non serpenti e
mi sussurrò all’orecchio che ero il suo scrittore preferito. Dopo
un’ora passata a parlare del mio blog e di alcuni miei scritti, e
della conseguente elevazione mistica che gli avevano provocato,
facendo di me uno scrittore in grado di competere con tutti i grandi
del passato, l’editore mi portò a pranzo fuori. Mangiai fino a
scoppiare e mi bevvi quasi da solo una boccia di vino di quelli che,
se sei solo, vedi il prezzo e scarti subito.
Dopo
pranzo tornammo nel suo pseudo ufficio nella sua pseudo casa
editrice, accese della musica classica e mi offrì un sigaro che in
parte aspirai e tossii.
Mentre
continuava a parlarmi mi abbioccai sulla poltrona. Non ricordo se
sognai o cosa sognai. Mi svegliai che avevo una penna in mano ed ero
in procinto di firmare un contratto sul quale mi obbligavo a pagare
quasi tremila pispoli per la pubblicazione e la commercializzazione
di una raccolta di miei racconti. Mi ripresi schiaffeggiandomi la
faccia un paio di volte, mentre l’inculatore annuiva e mi diceva
che era arrivato il momento di fare il grande passo. Mi alzai di
scatto e i pantaloni mi caddero, anche se non ricordavo di essermi
sbottonato, ma non ci volli pensare e mi riabbottonai. Rapidamente
afferrai la mia borsa e lasciai cadere la penna a terra. Il suo
sguardo, inizialmente benevolo, mi appariva adesso quello di un
vampiro. Gli dissi che era un cane e me ne andai. In macchina mi
passai un dito sul buco del culo per sentire se quel cane mi aveva
scopato. Tuttapposto.
Il
mio primo contatto con un editore fu questo. Nei mesi successivi la
mia fama immaginaria scivolò sempre più giù, fino ad arrivare alla
realtà, al presente di tutti i giorni, al fatto che le uniche
persone che ti chiedono come stai o che vogliono una firma da te sono
rispettivamente tua madre e il postino. Fine delle illusioni. Ecco la
realtà. Occhio al culo. Che poi, se vi piace farvi inculare, fate
voi, c'è a chi piace. A me, al massimo, un dito nel culo mi piace
con un pompino e sì, l'indice m'è bastante.
La
proposta fattami di recente porta i segni della precedente e quindi
sono in po' in dubbio. Sarà il caldo di questa estate tremenda, sarà
l'unicità di questa estate, ma il fatto che nuovamente mi venga
chiesto di pubblicare una raccolta di racconti mi spiazza. Va da sé
che il tempo è circolare.
Continua...
Interessante, enigmatico e ( per usare un'espressione non più di moda )anticonformista.
RispondiEliminaTaglia... Continua a scrivere... Prima di andare a lavorare senno cosa faccio???
RispondiEliminadi passaggio carissimo per un saluto, è sempre bello tornare qui
RispondiEliminaCaro Costantino, mi piace che sia "anticonformista"!
RispondiEliminaGrazie per il passaggio!
Eziopilla è un gran piacere avervi qui!
RispondiEliminaa presto
Angeloblu! che bello riaverti qui!
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