venerdì 13 dicembre 2019

Gusci



– Sono Andrea, c’è Bledar?
– È uscito, gli dico che hai chiamato e di richiamarti.
– Doveva richiamare anche ieri.
– Non so che dire.
– Digli di andare affanculo.
Questi albanesi di merda mi hanno rotto i coglioni. Sono infastidito da tutto, non sopporto niente e nessuno anche questa cazzo di camera stanotte si è rimpicciolita e sbatto i gomiti dappertutto, specie su questo maledetto cassettone che puzza di ambra. Ho le smanie e, la scorsa notte, in preda alla noia e all’insonnia, ho riordinato i libri per sfumatura di colore e ora sembrano matite in una scatola di legno sbilenca, illuminate dalla palla di carta ingiallita che chiamo orb. Lo scanso continuamente l’orb di merda, il filo che lo sorregge cala ogni giorno di più: adesso è al centro della stanza, a metà dell’armadio bianco di Ikea che ha le ante lucide che stridono a ogni apertura. Mi specchio per controllare lo stato di avanzamento delle occhiaie, gli zigomi-diga riescono ancora a contenerle. Di solito mi placo con massicce dosi d’erba e mi trovo bene. Davvero bene. Non ho mai fatto caso agli elementi della mia camera come in questi giorni, è come se d’improvviso si fossero presentificati in seguito alla rottura di un incantesimo. A rompere l’incanto e a far riemergere l’inquietudine è stato quel coglione di Filippo Santini, uno sporco infame che alle tre di notte della scorsa settimana ha fatto piombare a casa mia la polizia. Che merda. Se lo becco lo piego di legnate. Beota. Avevo le mie scorte e qualcosa in più che non si sa mai, qualcosa per gli amici e un poco di coca che se becchi la tipa con le stesse simpatie scopiamo fino a svenire. Ho dovuto buttare tutto al cesso e ora sono a secco e nessuno mi risponde al telefono. Cani. Bastardi. C’è in giro la storia che mi stanno addosso e tutti mi evitano. Anche il tunisino in fondo alla strada mi caccia come un appestato. – Vai via, via! – mi urla quel minorato mentale. Se la sera non fumo non riesco a dormire, cazzo, e a lavorare mi gira storta e vedo cose che non esistono e faccio caso a cose assurde. Non dormo da giorni. Tra due ore devo entrare in ufficio e non ho chiuso occhio, in realtà uno l’ho chiuso e l’altro l’ho tenuto stretto a formare una fessura nascosta tra le ciglia per godere l’effetto dei libri risistemati. La lancetta dei secondi ruota attorno al perno in acciaio del mio orologio da polso. Ecco la sveglia, come se mi servisse. Mi lavo i denti con l’unico pensiero in testa di trovare del nettare per stasera. Entro in ufficio ma maledizione non ho dormito e sto di merda, le gambe vuote, gli occhi lappolanti. Le colleghe mi vengono intorno come cavallette acide, lo fanno a bella posta ad avere tutte il ciclo nello stesso periodo, frecciatine e smorfie da ambo le parti, siamo i bersagli perfetti delle nostre insofferenze. La mia scrivania è l’ultima in fondo alla sala, una V di sei scrivanie in una stanza rettangolare di venticinque metri quadri scarsi. Quelli che entrano mi vedono a chiudere la pista proprio in buca, come l’angolo della cucitura delle tasche dove s’annidano i residui di quello che c’hai messo. Ho attorno l’assetto museale dell’ufficio: due stampanti rotte, una scaffalatura di alluminio, il cesto giallo della carta, il dispenser di scorta dell’acqua e varie stampe arrotolate e mai appese. Vado in bagno e richiamo l’albanese di merda. Gli squilli vanno a vuoto osservando le pieghe del rotolo di carta igienica mentre nella cassetta dello sciacquone una gora di acqua mi tarla il cervello. Me lo immagino strafatto sul divano quel tossico di merda che se ne fotte se dietro a questi trilli ci sono io a pezzi. Torno ai miei conti con la carta della calcolatrice che tocca terra e come sempre si è avviluppata su se stessa in spirali di numeri mostruosi, anomali, sconosciuti anche ai logici, intuiti dai mistici ma prontamente esclusi, ripudiati e rinchiusi come opera del male. Potrei sentire il fratello della mia collega, il rasta. Emergo dalle pile di fogli davanti al mio computer lento come l’agonia, con la mancina ad aggrappare la scrivania e la destra cava sulla bocca per rendere la mia voce un bisbiglio. Ogni mia pupilla riflette una freccia composta di puntini simmetrici consistenti in dieci mini spalle, cinque mini colli, cinque mini nuche.
 Eva – dico.
– Sì – mi guarda e infrange la simmetria.
Tuo fratello sta sempre in quella casa coi suoi amici? –
Sì, perché? –
 Prestami la macchina, ti prego, devo andare da lui oggi pomeriggio per una faccenda –
Scordatelo – e torna a mostrarmi il suo collo che una volta ho baciato rimediando uno schiaffo e un insulto.
La mia attenzione è catturata da una ragnatela dove le pareti si intersecano, sopra il ficus su cui la polvere si deposita e diventa soda come ralla. Una mosca ronza lì intorno. Mi alzo, oggi proprio non ce la faccio, mi scuso con i colleghi e il capoufficio.
Sto camminando da un’ora su una strada sassosa. C’è il sole, i prati sono verdi con macchie di margherite. Io odio la campagna, mi instupidisce, lo spazio aperto dove la gente finge disperatamente di divertirsi conduce i miei pensieri in territori interinati e di disagio. I contadini del resto mi hanno sempre fatto una cattiva impressione, la loro visuale è verso terra, questa cosa gli fa ha affogato il cervello, diventano scemi come i vitelli a rimuginare sulle stagioni, perdono il senno. C’è una sincerità di silenzio e di nulla intorno ai vegetali, eppure mi ricordo che fosse da queste parti, ci sono venuto una sera di qualche anno fa e certo è qui. Poi una freccia di legno tutta scortecciata con una scritta rossa mi indica una stradina che sembra un fosso, c’è scritto Il mulino. Me lo trovo davanti dopo pochi passi circondato da lenzuola stese che si gonfiano e sventolano candide. Schiaccio una lumaca dalla consistenza del formaggio molle e, come un ceppo, da un cespuglio giallo emerge il fratello di Eva a torso nudo, i rasta raccolti in una coda alta. Mi viene incontro con l’andatura di un fachiro che scansa i vetri più appuntiti. Davanti a me si distende un tappeto brulicante di lumache prolisse e convulse. Sono in ogni angolo, salgono sulla staccionata, foderano i conchini, le più temerarie sono in fila sulla parete della casa. Alzo lo sguardo e vedo che il tetto ne è ricoperto, una lunga preghiera di lumache.
 Ciao bello, come stai? È un piacere rivederti. – dice con ritmo lento dondolandosi sui talloni e emanando odore di erba.
 Tutto bene, avevo voglia di fare un giro in campagna e ho pensato di venire a trovarti. Vedo che vi siete dati alla lumache.
 Raccogliamo la bava per produrre creme. 
In sottofondo il rumore sordo dei gusci che si strusciano e un forte odore di liquirizia.
– Bello – dico affascinato.
Toglie dalla tasca un mega razzo e lo accende. Il fumo denso riempie la sua bocca e poi sparisce risucchiato dalla faringe, scorre nella laringe e poi nei polmoni dove si ramifica nei bronchi per raggiungere gli alveoli prima di sputarlo dal naso e dalla bocca.
– Questa la facciamo noi, assaggia –.
Faccio due tiri e lo strato mobile ed espressivo del mio essere torna a galla, al terzo mi innamoro della campagna. Lo seguo sul retro dove alcune alcune persone sono chine in una sorta di preghiera. Tre ragazze si voltano per salutarmi. Poi si alzano e ci raggiungono. Una di loro fa un bell’effetto a guardarla ha i capelli biondi scompigliati dal vento brillanti di sole, occhi azzurri e grandi, un corpo da donna prodigio, una voce celestiale, un sussurro senza eco nei miei timpani e nel mio cervello.
– Ti fermi qui con noi? Abbiamo moltissimo lavoro – mi domanda togliendosi un granello dalle labbra inferiori.
– Penso di sì, qui si sta bene.
Così proietto la mia esistenza nel torpore bucolico, rilasso il corpo sulla pelle di un comodo seggiolino di un furgone catapultato qui da chissà dove, le mani toccano terra, a occhi chiusi costruiscono l’immagine delle lumache che mi sparano molli e sudate sulla coscienza.

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