martedì 7 agosto 2018

Vantaggi privati e pubblici benefici: vizi e passioni nel pensiero politico di B. Mandeville. Di Andrea Tagliaferri




Introduzione

Era il 1705 quando, nelle strade di Londra, si vendeva per mezzo penny l'anonima favoletta satirica dal titolo L'alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti. In questo poemetto il vizio, cui tutti gli uomini sono soggetti, è visto come il motore dello sviluppo e del progresso delle grandi società: lusso e vanità, orgoglio ed egoismo non sono condannati, e anzi vengono considerati come le cause principali del benessere in quanto essi, oltre ad appagare la vanità ed i desideri dei singoli, contribuirebbero in maniera determinante al benessere collettivo.
Secondo il rigorismo, una delle correnti etiche allora dominanti, ogni nazione veniva resa prospera dalla virtù dei suoi abitanti, i quali avrebbero accresciuto il bene comune tenendo a freno i loro istinti naturali e le loro passioni. Di tutt'altra opinione era invece l'anonimo autore della Favola, secondo il quale ciò che risulta vantaggioso per la collettività sarebbe in realtà il risultato di azioni individuali non sempre finalizzate al bene comune:
«Non occorre che il benessere della nazione sia lo scopo di qualcuno, perché si realizzi come un effetto inatteso delle azioni degli individui».1
Nella Favola il vizio viene non soltanto individuato come un elemento necessario per il progresso delle grandi città, ma viene anche considerato come un fattore che lo Stato dovrebbe regolare e guidare per trarne vantaggi pubblici. La società è quindi vista come il luogo in cui si persegue il male ma si raggiunge il bene, e tale armonia è ben rappresentata dall'immagine dell'alveare attorno a cui è costruita la Favola: in esso ognuno, curando i propri affari, contribuisce inconsapevolmente al benessere della società, tanto da indurre il filosofo e psicologo empirico Wilhelm Wundt a definire l'alveare descritto nella Favolacome il paradigma della “eterogenesi dei fini”2.

Si è detto che la Favola è stata pubblicata in maniera anonima: tuttavia, è noto che a scriverla fu Bernard Mandeville, un medico olandese nato a Dort nel 1670, che, dopo aver studiato medicina a Leida, si trasferì a Londra nel 1694. Qui, praticò la professione di medico specializzato nelle malattie nervose e nei disturbi dello stomaco (è significativo come questo influenzerà il suo pensiero: l'immateriale modifica la materia; una puntura fa male e crea disagio, ma fa anche altro: dà dolore allo stomaco). Mandeville espose le sue rivoluzionarie teorie anche in altri scritti, come Liberi pensieri sulla religione, la chiesa e il felice stato della nazione (1720), Scritti sulla prostituzione e sulle impiccagioni (1725) e Ricerca sull'origine dell'onore (1732). Morì ad Hackney nel 1733.

Attento osservatore dell'agire umano, nella sua opera Mandeville ci invita a guardare l'uomo “nudo”, cioè senza la sua maschera fatta di false virtù, così da poter cogliere, grazie al metodo empirico, la natura umana reale, anziché quella idealizzata. Per Mandeville è importante capire com'è veramente l'uomo, e non come dovrebbe essere. Infatti, l'uomo descritto da Mandeville è aggressivo, vanitoso, orgoglioso, egoista, competitivo e schiavo delle sue passioni. Solo sviluppando la sua ragione attraverso l'educazione, l'uomo trova gli strumenti per dissimulare la propria autentica natura. 
Anche la cultura e la ricchezza, solitamente considerate come obiettivi positivi e degni di essere perseguiti, vengono da Mandeville ricondotti alla viziosità tipica degli esseri umani: chi fa di tutto per diventare colto o ricco in realtà mira a distinguersi dagli altri, ad essere superiore, ammirato, adulato e stimato. Analogamente a Michel de Montaigne, Mandeville vuole comprendere la natura umana con i suoi difetti, come emerge dall'introduzione alla Favola:
«Una delle ragioni per cui così poche persone comprendono se stesse è che la maggior parte degli scrittori insegnano agli uomini sempre quello che dovrebbero essere, e quasi mai turbano le loro menti col dir loro quel che realmente sono. […] penso che l'uomo, oltre che di pelle, carne, ossa, eccetera, […]è una combinazione di varie passioni, che, quando vengono eccitate o divengono predominanti, lo dominano di volta in volta, voglia o non voglia. Mostrare che queste qualità, delle quali noi tutti pretendiamo di vergognarci, sono il principale strumento di una società fiorente, è stato l'argomento del poema che precede.3
L'indagine condotta nella Favola viene poi continuata e ampliata nel 1714 con l'Indagine sull'origine della virtù morale e con venti note, al fine di mettere in luce gli snodi fondamentali della sua teoria e di chiarirne alcuni punti considerati scandalosi, in primis la funzione pubblica del vizio. In questa edizione il titolo diviene quello definitivo con cui l'opera è ancora oggi conosciuta: La favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici. Un'altra ristampa si ha nel 1723, in cui vengono aggiunti i due saggi Ricerca sulla natura della società, e Saggio sulla carità e sulle scuole di carità, e altre due note. Nel 1733 esce un'altra ristampa in cui sono inclusi anche Sei dialoghi
Sulla base degli scritti raccolti nell'edizione del 1714 (ossia, la Favola delle api, l'Indagine sull'origine della virtù morale e la Ricerca sulla natura della società) tenterò di mettere in evidenza alcuni aspetti centrali del pensiero politico di Mandeville, rivolgendo un'attenzione particolare alla funzione determinante di vizi e passioni per il conseguimento del bene comune.

1. Vizi privati e bene comune nel pensiero politico di Mandeville

«Un grande alveare affollato di api,
che viveva nel lusso e negli agi, 
e, tuttavia, tanto famoso per leggi e armi,
quanto fecondo di numerosi e vitali sciami,
era considerato la grande culla
delle scienze e delle arti.»4

La situazione descritta all'inizio della Favola è quella di un alveare affollato di api, ricco e potente, governato da una monarchia con poteri limitati, come nel modello politico teorizzato da John Locke. È importante notare come in queste righe Mandeville parli della prosperità dell'alveare, cioè dello Stato, mettendola in relazione con il gran numero di abitanti: la ricchezza infatti si ha solo laddove vi sono molti cittadini, a differenza della felicità, che si realizza pienamente solo all'interno di piccole comunità.
La vita delle api descritta da Mandeville ricorda quella degli uomini:

«Questi insetti vivevano come gli uomini
e facevano, in piccolo, tutto quel che noi facciamo.
[…] noi non abbiamo macchine, operai, 
navi, fortezze, armi, artigiani, 
arte, scienza, negozi e attrezzi 
di cui essi non avessero l'equivalente»6.

«Molto affollato era il fecondo alveare, 
ma era proprio il gran numero a farlo prosperare.
Milioni di esseri si sforzavano d'appagare 
la reciproca sfrenatezza di vanità,
mentre altri milioni erano intenti
a consumare l'ingegnoso lavoro di quelli.»7

Mandeville distingue all'interno dell'alveare le varie funzioni ed i diversi mestieri svolti anche all'interno delle società umane: vi sono infatti medici, avvocati, preti, commercianti, ma anche i furfanti. Inoltre, alcune api vivono nel lusso più sfrenato, altre invece fanno lavori umili, tutte agiscono per il proprio interesse e, in certa misura tutte, persino quelle che si dedicano ad attività illegali, contribuiscono al benessere comune:

«Costoro erano chiamati furfanti
ma, eccetto che per il nome, 
da essi non differivano quelli che lavoravano veramente.
Mestieri e impieghi avevano tutti i loro imbrogli,
non c'era professione che non avesse i suoi trucchi.»8

La satira di Mandeville si rivolge pressoché indistintamente a tutte le classi sociali e a tutti i mestieri, e mira a dimostrare che ogni azione individuale ha come motore il vizio. Anche la spada della giustizia, lungi dall'essere cieca e imparziale, spesso si fa corrompere e vede bene dove colpisce. La Favola prosegue:

«Così ciascuna parte era piena di vizi, 
ma l'insieme era un paradiso;
adulate in pace e temute in guerra,
erano rispettate dagli stranieri
e, prodighe delle loro ricchezze e delle loro vite, 
erano la bilancia di tutti gli altri alveari.
Tali erano le benedizioni di questo Stato: 
le loro stesse colpe contribuivano alla loro grandezza,
e la virtù, che dalla politica
aveva appreso mille astuzie,
per questa felice influenza
era diventata amica del vizio:
e, quindi, anche la peggiore delle api 
faceva qualcosa per il bene comune.

[…] il lusso dava da vivere a un milione di poveri 
e l'odiosa superbia e un altro milione.
Perfino l'invidia e la vanità 
favorivano l'industria.»

Nella Nota L Mandeville definisce il lusso come «ogni cosa che non sia strettamente necessaria a mantenere in vita l'uomo.» Ma questa è una definizione che egli stesso considera «troppo rigorosa» e sostiene che se si cessa di considerare come un lusso tutto ciò che non è un bisogno primario, 
« [...] allora nulla potrebbe più considerarsi lusso, poiché, se i bisogni degli uomini sono innumerevoli, quel che sarebbe loro necessario non avrebbe più limiti; ciò che un determinato stato sociale considera superfluo, sarà ritenuto indispensabile da quelli che si trovano in una posizione sociale più elevata.»9
Mandeville sottolinea che gli effetti del lusso non sono gli stessi nella sfera privata e in quella pubblica, dal momento che esso può portare alla rovina un cittadino e la sua famiglia, e proprio per questo può arricchire uno Stato ben amministrato, alimentando arti e industrie e dando lavoro a milioni di poveri, i quali ne costituiscono il corpo e la potenza. Il medesimo meccanismo viene spiegato anche nell'Indagine sulla natura della società in cui, trattando del grande incendio di Londra, Mandeville dice: 
«Voglio spingermi più avanti e dimostrare l'utilità che le perdite e le disgrazie dei privati procurano alla società, e la follia dei nostri auspici, quando chiediamo di diventare più saggi e responsabili. L'incendio di Londra fu una grande calamità; ma se i falegnami, i muratori, i fabbri e tutti i lavoratori che trovano occupazione non solo nella costruzione delle case, ma anche nella manifattura e nel traffico degli articoli e delle mercanzie che furon bruciate, e ancora gli altri lavori subalterni creati dalla piena attività di tutta quella gente fossero paragonati alle perdite provocate dall'incendio scopriremmo che i motivi di contentezza furono uguali, se non superiori ai motivi di lamentela. Una parte considerevole del commercio consiste nel ricostruire quello che è stato perduto e distrutto dal fuoco, dalle tempeste dalle battaglie navali, dagli assedi e dai combattimenti».10
Ma torniamo adesso alla Favola. A proposito del lusso, Mandeville afferma: 

«La loro più cara follia, la volubilità
nel vestire, nei cibi e negli arredamenti, 
questo strano e ridicolo vizio, era ormai
proprio la ruota che muoveva il commercio.»11

L'alveare è descritto come una sorta di paradiso: le api inconsapevolmente producevano ricchezza e benessere, e grazie al vizio la società era progredita dando a tutti, persino ai poveri, la possibilità di godere di agi e comodità un tempo riservati esclusivamente ai ricchi. Le api però non erano felici, poiché sapevano bene che il vizio dilagava ovunque, e per questo pregarono Giove di purificare l'alveare. Si mettono, improvvisamente, a fare le moraliste. Tutte le api gridavano «Abbasso gli imbrogli!, Santi dei, se ci fosse un po' di onestà!», tanto che Giove, disturbato dai lamenti, decise di accontentarle diffondendo onestà e giustizia in tutto l'alveare. Ci fu così una repentina trasformazione: decaddero commerci, arti e scienze, il prezzo di ogni merce diminuì, i tribunali divennero vuoti, i debitori pagavano spontaneamente, le prigioni si svuotarono e fabbri, carcerieri e avvocati si trovarono ben presto senza lavoro. Rimasero soltanto pochi medici onesti e alcuni preti che abbandonarono gli affari pubblici per dedicarsi esclusivamente all'amministrazione del culto. Le api smisero di ricercare le merci di lusso e alla moda, e molte sciamarono. L'alveare, da ricco e potente che era, divenne piccolo e frugale:

«Guardate ora il glorioso alveare e vedrete 
come onestà e commercio vanno d'accordo. 
[…] Regnano pace e completa abbondanza, 
ogni cosa è a buon mercato, benché ordinaria.
[…] E mentre vanità e lusso diminuiscono, 
anche le vie del mare sono abbandonate.
Non ci sono più mercanti,
e intere fabbriche vengono chiuse.
Tutte le arti e i mestieri sono negletti:
l'accontentarsi del proprio stato, rovina dell'industria,
le induce ad apprezzare i prodotti del paese
e a non cercare né desiderare altro.»12

L'alveare, impoverito e spopolato, venne attaccato dall'esterno, molte api perirono, e i pochi superstiti, induriti dalla fatica e dall'esercizio, iniziarono a considerare un vizio il riposo, e abbandonarono l'alveare volando nel cavo di un albero, tutte soddisfatte e oneste. La Favola si conclude con la Morale:

«Cessate dunque di brontolare:
soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto
un grande alveare.
Godere dei piaceri del mondo, 
essere famosi in guerra, 
e pure vivere in pace, senza grandi vizi, 
è una vana UTOPIA dell'intelletto.
Frode, lusso e superbia debbono esistere 
fino a quando ne cogliamo i benefici.
[…] Così il vizio diventa benefico 
quando è sfrondato e corretto dalla giustizia.
Anzi, se un popolo aspira ad essere grande,
il vizio è necessario allo Stato
quanto la fame per mangiare.
La virtù da sola non può far vivere
le nazioni nello splendore;
coloro che vorrebbero far tornare l'età dell'oro
insieme con l'onestà debbono accettare le ghiande.»13

La Favola mostra che all'interno della società ricca e prospera nessuno è immune dal vizio: infatti fra gli esempi citati da Mandeville vi sono gli avvocati che rimandano le sentenze per incassare più parcelle, i medici che si fingono pensierosi mentre in realtà si interessano poco dei malati, i ministri che non difendono lo Stato ma ne svuotano le casse, i preti che non pensano agli altri ma a se stessi; questi comportamenti dimostrano come i membri del corpo sociale non agiscano secondo precetti virtuosi e onesti (se così fosse, infatti, nessuno cercherebbe di procacciarsi altri beni eccetto quelli strettamente necessari al proprio mantenimento, e tutti si nutrirebbero esclusivamente di ghiande), bensì con l'obiettivo di raggiungere e mantenere uno stile di vita lussuoso, fatto di accessori e di cibi ricercati, di ornamenti e di stoffe esotiche. Virtù e lusso però sono inconciliabili, dice Mandeville, proprio come la pulizia e le strade di Londra:

«Io credo vi siano a Londra poche persone, tra quelle che sono costrette ad andare sempre a piedi, che non desidererebbero che le strade fossero più pulite di quanto non siano. Ma costoro guardano soltanto ai loro abiti e alla loro comodità; ma quando considerino che ciò che li disturba è il risultato di un traffico grande e inteso e della ricchezza di questa potente città, se a costoro sta a cuore il benessere di Londra, assai difficilmente desidererebbero vedere le strade meno sporche».14

Il vizio15dà avvio a un meccanismo che, nelle grandi società, produce ricchezza: Mandeville infatti riconduce il commercio ad un impulso passionale, facendo così coincidere il bene privato (fatto di desideri e agi) e quello pubblico, inteso come potenza e ricchezza di uno Stato. L'importanza del commercio per il benessere collettivo viene messo in luce nella Nota L, in cui Mandeville sostiene che l'abnegazione, ovvero quella virtù che secondo i moralisti consisterebbe nella rinuncia ai piaceri che più compiacciono l'uomo,16collide con quella che è la natura passionale dell'uomo e quindi sfavorisce i commerci, l'economia, le arti e le scienze. Lunga vita quindi al vizio, che l'analisi di Mandeville rivela essere la causa primaria del bene comune.

2. L'antropologia di Mandeville

Nella prefazione alla Favola, Mandeville scrive:

«Ciò che rende un uomo un animale socievole, non è il suo desiderio di vivere insieme agli altri, la sua bontà, la sua pietà, la sua affabilità o altre grazie di una bella apparenza, ma che, invece, le sue qualità più basse e odiose sono le doti più necessarie per renderlo adatto alle società più grandi, che sono, a giudizio del mondo, più felici e fiorenti».17

Come il progresso, anche la socialità dell'uomo affonda le sue radici nel vizio: infatti gli uomini che Mandeville ci presenta sono egoisti e dediti alle passioni, e sebbene sul piano individuale i vizi tendano ad allontanare e inimicare gli uomini, su quello generale sono proprio questi a promuovere sviluppo e benessere. 
Per l'influenza che l'antropologia esercita nella filosofia politica e per la visione pessimistica della natura umana è possibile mettere a confronto le idee di Mandeville con quelle di Thomas Hobbes: anch'egli infatti sostiene che l'uomo sia mosso principalmente da passioni egoistiche (come la gloria e il desiderio dell'utile) da cui ha origine, nello stato di natura, una situazione pericolosamente conflittuale, il cosiddetto bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. I due pensatori, pur partendo da premesse abbastanza simili, si distinguono però profondamente per il diverso modo di considerare le passioni: infatti Hobbes propone di reprimerle instaurando un potere assoluto e coercitivo che ponga fine al problema della governabilità, mentre Mandeville le considera elementi essenziali per la stabilità e il benessere della società. Nell'Indagine sull'origine della virtù morale si legge infatti:

«Essendo egli [scil.l'uomo] un animale straordinariamente egoista, ostinato e anche astuto, se mai viene sottomesso da una forza superiore, è impossibile, con la sola coercizione, ottenere che divenga socievole e che progredisca nella misura delle sue capacità».18

Secondo Mandeville, ben presto i politici capirono che l'adulazione era il mezzo più efficace per indurre gli uomini a frenare i propri istinti, ed utilizzarono uno stratagemma: 

«Per stimolare l'emulazione tra gli uomini, li divisero in due categorie assai diverse tra loro, una costituita di gente abietta, di mente limitata, che, sempre a caccia di piaceri immediati, era del tutto incapace di spirito di abnegazione e, senza considerazione alcuna del bene prossimo, non aveva altra mira che il proprio vantaggio, e tale che, essendo schiava della voluttà, cedeva senza la minima resistenza, a ogni desiderio volgare e non faceva alcun uso delle facoltà razionali, se non per accrescere il piacere dei sensi. Essi dicevano che questi scellerati, vili e abietti, erano la schiuma del genere umano e che, pur avendo sembianze umane, differivano dai bruti solo per l'aspetto esterno. L'altra categoria invece, era composta da creature di alto sentire che, libere da ogni sordido egoismo, ritenevano che la più bella conquista fosse il miglioramento dello spirito, e avendo un alto concetto di se stessi, non conoscevano altra gioia se non quella di migliorarsi in ciò che li faceva eccellere, in modo che, disprezzando tutto quello che avevano in comune con le creature irrazionali, combattevano con l'aiuto della ragione i loro più violenti appetiti e, sostenendo una lotta continua con se stessi per l'amore della pace altrui, non avevano altro ideale che il pubblico bene e il dominio delle proprie passioni».19

Pur di entrare a far parte della seconda categoria, la maggioranza dei cittadini fu disposta a tollerare disagi e a sopportare difficoltà, dimostrando così che la società è stata resa stabile e pacifica grazie all'abilità dei politici nell'adulare il popolo e al bisogno degli uomini di sentirsi adulati. A conclusione del suo studio sulle origini del corpo sociale, Mandeville scrive:

«Questo fu (o almeno può essere stato) il modo in cui il selvaggio venne domato; da quanto si è detto è evidente che i primi rudimenti di moralità, divulgati da abili politici per rendere gli uomini socievoli e utili gli uni agli altri, mirassero soprattutto a consentire che l’ambizioso potesse trarne maggiori vantaggi e governare molti numeri uomini con la maggiore facilità e sicurezza. Una volta posto questo fondamento della politica, era impossibile che l’uomo rimanesse a lungo incivile, perché anche quelli che tendevano ad appagare i propri appetiti, essendo continuamente ostacolati da altri dello stesso stampo, si resero infine conto che, ogniqualvolta essi moderavano le loro tendenze, o anche solo le seguivano con maggiore cautela, evitavano moltissimi fastidi e spesso si risparmiavano molte delle sventure che generalmente seguivano alla smodata ricerca di piaceri».20

In queste righe emerge con chiarezza la profonda differenza fra Mandeville e Hobbes: Mandeville infatti afferma che le passioni non devono essere represse poiché possono essere molto utili alla società, che e la forza e la prevaricazione non sono mezzi atti a raggiungere la stabilità civile. 
Inoltre, anche l'uscita dell'uomo dallo stato di natura costituisce un altro punto di distacco fra Mandeville e Hobbes: il secondo infatti ritiene che essa sia dovuta alla paura, una passione strettamente connessa alla ragione, la quale avrebbe spinto gli uomini a sottomettersi volontariamente al contratto sociale alienando da sé la maggior parte dei diritti, mentre il primo la riconduce all'operato di “abili politici”, creature quasi mitiche che riescono ad inventare le virtù morali al fine di rendere l'uomo governabile, regolando le passioni umane fino a dar vita ad una società stabile. La società si presenta quindi come un artificio e, senza i limiti da essa imposti, gli uomini sarebbero gli animali più inadatti a vivere insieme, in quanto continuamente preda di passioni egoistiche.21Con questa teoria, Mandeville intende rispondere al sofisma di alcuni moralisti (in primis di Anthony Ashley Cooper, III Conte di Shaftesbury) secondo cui l'uomo sarebbe nato per vivere in società in quanto sarebbe altruista e virtuoso per natura, e non a seguito di sforzi e rinunce.22
Mandeville approfondisce la sua ricerca sull'origine della società in un saggio del 1723, dal titolo Indagine sulla natura della società. In quest'opera la polemica con Shaftesbury (che per certi aspetti può essere colta già nella Favola e nell'Indagine sull'origine della virtù morale) si fa esplicita, e l'intento di Mandeville è appunto confutare la concezione per cui:

«Essendo l'uomo fatto per la società, dovrebbe essere nato anche con un tenero sentimento di affetto per il tutto di cui fa parte e con un'inclinazione a ricercare il benessere della società di cui è membro. In conseguenza di questo presupposto, […] chiama virtuosa ogni azione compiuta in considerazione del bene pubblico e chiama vizio ogni azione egoista che escluda del tutto tale considerazione.»23

Mandeville considera tali asserzioni «un complimento per la specie umana», ma prive di un reale fondamento. Attraverso esempi tratti dalla vita quotidiana, egli mostra infatti che i sentimenti del bello e del brutto, del bene e del buono sono relativi, in quanto cambiano con gli anni, con le mode e come le mode. Mandeville giunge quindi a questa conclusione:

«Questo dimostra che la nostra approvazione e la nostra disapprovazione dipende principalmente dalla moda e dal costume, dall'insegnamento e dall'esempio dei nostri superiori e di quelli che crediamo migliori di noi per una ragione o per l'altra. Nella morale non c'è maggior certezza.[...] è evidente dunque che la ricerca del pulchrum e dell'honestumnon ha maggiori probabilità di successo della caccia all'araba fenice, tanto poco si può sperare in un risultato positivo. Ma non è questo il difetto maggiore che trovo nel sistema di Lord Shafterbury. L'idea, del tutto priva di fondamento, che gli uomini possano essere virtuosi senza rinunce apre il varco all'ipocrisia, e se questa diviene un'abitudine, ci porta, non solo ad ingannare gli altri, ma nello stesso tempo ci rende sconosciuti a noi stessi».24

Mandeville confuta le tesi di Shafterbury dimostrando che il desiderio di compagnia (da quest'ultimo considerato una virtù) in realtà non prova l'inclinazione naturale dell'uomo alla benevolenza e alla socievolezza. Se si ammette infatti che il desiderio di stare con gli altri è una virtù, ne consegue allora che a cercare compagnia sono perlopiù gli uomini migliori e più virtuosi; Shafterbury però cade in contraddizione nel ritenere che chi teme ed evita la solitudine è in realtà debole ed incapace di dominare le passioni, ha una cattiva coscienza che gli rende odiosa la riflessione e, in generale, è privo di qualsiasi merito:
«Essi preferirebbero unirsi a qualsiasi compagnia piuttosto che rimanere soli, mentre gli uomini di ingegno e di cultura, capaci di pensare e di riflettere sul valore delle cose, gli uomini che solo in minima parte trovano impedimento nelle loro passioni sono capaci di sopportare la solitudine per lungo tempo senza provarne fastidio».25
In ogni relazione, l'uomo è alla ricerca di un beneficio personale (come, ad esempio, appagare la propria vanità ed il proprio orgoglio, sfoggiare abiti di lusso, dar prova di possedere mobili preziosi, bei cavalli, celebri antenati, etc.), e proprio per questo, paradossalmente, alla base di ogni rapporto vi è la reciprocità, intesa come scambio non di amicizia o, più genericamente, di cortesia, ma di lusinghe, con cui chi è coinvolto in una relazione, di qualsiasi natura essa sia, mira a soddisfare il proprio ego.26
Per Mandeville quindi la socievolezza umana, lungi dall'essere una virtù, nasce dal desiderio egoistico di appagare se stessi e, in generale, gli atteggiamenti nobili e considerati socialmente utili affondano le loro radici nella debolezza e nella viziosità dell'animo umano:

«Non sono le qualità buone e amabili dell'uomo, ma i suoi attributi cattivi e odiosi, le sue imperfezioni e la mancanza di quelle buone qualità di cui le altre creature sono dotate a costituire le cause prime che rendono l'uomo socievole più degli altri animali, da quando è stato cacciato dal paradiso; voglio così dimostrare che se l'uomo fosse rimasto nel suo primitivo stato d'innocenza, e avesse continuato a godere dei benefici a lui destinati, non è assolutamente probabile che sarebbe divenuto quella creatura socievole che ora è.»27

Quindi la socievolezza, come si è visto, deriva da passioni egoistiche, e la società nasce dalla molteplicità dei desideri umani e dalle continue difficoltà che l'uomo incontra per poterli appagare: 
«La socievolezza dell'uomo nasce solo da queste due cose, e cioè dalla molteplicità dei suoi desideri e dai continui ostacoli che egli incontra nei suoi sforzi per soddisfarli. Gli ostacoli di cui parlo sono relativi alla nostra costituzione o al mondo in cui abitiamo, intendo dire il mondo nell'attuale condizione, successiva alla maledizione divina.»28
Stando con gli altri, l'uomo accresce la propria socievolezza, ma anche la sua vanità e il numero e l'intensità dei suoi desideri.29Per questo, Mandeville sostiene che la coesione del corpo sociale sarebbe sempre in pericolo, se non ci fossero le leggi a tenere sotto controllo ed a sanzionare le tendenze egoistiche degli individui:

«La parola società, vuol significare un corpo politico nel quale l'uomo, o soggiogato da una forza superiore o tolto dal suo stato selvaggio per persuasione, è divenuto una creatura disciplinata, capace di realizzare i propri fini lavorando per quelli altrui, e dove, sotto la guida di un capo o retti da qualche altra forma di governo, ciascun membro è reso utile al tutto e, con un'amabile direzione, tutti sono spinti ad agire come se si trattasse di un sol uomo. Se infatti col termine società volessimo intendere soltanto un numero di persone che, senza regola o governo, vivessero insieme stabilmente, spinti da un naturale amore per la propria specie, o dall'amore per la compagnia, come una mandria di vacche o un gregge di pecore, allora affermo che non esiste al mondo creatura più inadatta alla società dell'uomo. Se ci fossero cento persone, perfettamente uguali, libere di ogni soggezione e da ogni timore di un qualche superiore, essi non potrebbero mai vivere insieme due ore, a meno che non dormissero, senza litigare; e quanto più possedessero esperienza, forza, ingegno, coraggio e risolutezza, tanto più violenta sarebbe la loro lite.»30

3. Il ruolo delle passioni nel pensiero politico di Mandeville

Passiamo adesso ad analizzare sinteticamente che funzioni hanno le passioni all'interno della riflessione politica di Mandeville alla luce di alcuni spunti tratti dallo studio di Elena Pulcini L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale.31
Con il termine «passione» (dal greco pathos) si indica un'affezione, un moto di attrazione o di repulsione che spinge il soggetto a reagire in maniera diversa a seconda che un dato stimolo gli induca piacere o dolore. La passione è per definizione un impulso involontario che altera la razionalità, il giudizio e la volontà. Da sempre i filosofi si sono occupati delle passioni e della loro problematicità per l'equilibrio della comunità: già Platone e Aristotele infatti sostennero la necessità di regolarle (ma non di reprimerle) attraverso l'educazione per formare un buon cittadino. Le passioni vengono considerate un problema teoretico importante per tutto il medioevo e nell'età moderna, venendo solitamente analizzate dal punto di vista etico anziché da quello politico. Un cambiamento di prospettiva piuttosto radicale si ha con Hobbes il quale, come si è visto precedentemente, le pone al centro della sua teoria contrattualista, sostenendo che solo lo Stato riesce a tenere a freno le passioni per salvaguardare la vita dei cittadini.
Secondo Hobbes l'individuo è preda di impulsi travolgenti e funesti, che però riesce a dominare grazie ad un calcolo razionale. Come ben mette in luce Elena Pulcini nel suo saggio, l'individuo descritto da Hobbes è:
«[...] mosso da una razionalità strumentale, teso al perseguimento per proprio interesse e capace di autolimitazione […] ma l'uomo oeconomicus non è affatto riducibile a un agente razionale e calcolatore, unicamente mosso da uno strumentale e freddo interesse. Esso appare spinto, al contrario, da un insieme complesso di motivazioni che si possono riassumere in due costellazioni emotive fondamentali: la passione aquisistiva e la passione dell'Io,vale a dire il desiderio di possedere ricchezza e beni materiali e il desiderio di distinguersi dall'altro e di ottenerne il riconoscimento».32
La cosiddetta Political Economy legittima e addirittura valorizza il ruolo delle passioni, e al tempo stesso ridimensiona la funzione del politico a vantaggio di quella dell'individuo. 
Come Adam Smith, Mandeville sostiene che la ricchezza dello Stato derivi dal desiderio di arricchirsi e dalla volontà di essere riconosciuto dall'altro (che Pulcini definisce come «impulso vitale alla socialità e al progresso»),33elementi essenziali per la competitività tipica delle società mercantili. Si delinea così una visione antropologica per cui l'uomo è mosso essenzialmente dal desiderio di migliorare la propria condizione e di ottenere sempre di più. 
Nei tre scritti di Mandeville di cui si è parlato in questa relazione, le passioni vengono poste all'origine della società, poiché esse non soltanto nutrono la pluralità dei desideri umani, ma sono anche la condicio sine qua non affinché la società diventi ricca e potente. La pluralità delle passioni viene rappresentata da Mandeville attraverso l'immagine dei colori che si legge nella Nota E della Favola:

«Avviene con le passioni degli uomini quel che avviene con i colori dei tessuti: è facile conoscere un rosso, un verde, un blu, un giallo, un nero, ma bisogna essere un artista per saper distinguere tutti i colori e le gradazioni che compongono una bella stoffa di colori diversi. Allo stesso modo, le passioni possono essere individuate finché sono distinte e una sola occupa interamente un uomo, ma è molto difficile rintracciare tutte le cause di quelle azioni che sono il risultato di un intreccio di passioni».34

Fra le varie passioni il primato spetta all'amore di sé, considerato come ciò che induce gli uomini ad essere virtuosi. Dall'amor di sé discendono altre due passioni: la gloria, ossia la felicità estrema di cui gode chi ha compiuto una buona azione che lo distingue e lo fa lodare dagli altri, e l'invidia, che spinge a considerare chiunque sia felice come un rivale.35L'amor di sé, benché eserciti una notevole influenza nella vita dell'uomo e, di conseguenza, nell'assetto della società, viene costantemente celato dall'educazione; eppure, esso è all'origine anche di altre due passioni comunemente lodate e incoraggiate come l'amore e la pietà: il primo è l'affetto con cui si agisce in vista del bene dell'amato, mentre la seconda è la tendenza a partecipare al dolore altrui con l'intento, più o meno giustificato, di alleviarlo.36Amore e pietà, sebbene siano passioni che si nutrono nei confronti degli altri, vengono da Mandeville messe in relazione con l'amor proprio poiché, sostanzialmente, inducono ad azioni con cui il soggetto vuole evitare un dolore e procurarsi un piacere. Nell'Indagine sull'origine della virtù morale Mandeville spiega: 

«Non c'è alcun merito a salvare un bambino innocente che sta per cadere nel fuoco. Tale azione non è né buona né cattiva e, anche se il bambino ne ha ricevuto un beneficio, essa fu compita da noi per soddisfare noi stessi, perché vederlo cadere e non tentare di salvarlo ci avrebbe causato un dolore, che vogliamo evitarci». 37

Nella sua analisi delle passioni, Mandeville parla anche della vergogna, considerata una qualità costitutiva della natura umana. Lo stesso giudizio è riservato all'orgoglio, inteso come predilezione di sé, che (come l'onore) porta a nutrire un profondo interesse per i giudizi altrui e ad avere un'alta opinione di sé. Inoltre, l'orgoglio induce l'individuo a comportarsi nei confronti degli altri come un attore che cerca il consenso del suo pubblico, tanto da reprimere le proprie reali aspirazioni pur di apparire virtuoso. Come nota Pulcini, l'orgoglio ha una forte valenza sociale, poiché promuove la cooperazione e, di conseguenza, il bene comune:
« l'orgoglio [...] strappa gli uomini all'ozio e all'indolenza e li spinge a una corsa incessante per l'acquisizione dei beni materiali quale segno di distinzione della propria superiorità».38
Strettamente connessa all'orgoglio è la vanità, che nasce dal desiderio di ottenere l'approvazione altrui, e promuove il lusso (sotto forma di una ricerca incessante di ciò che permette di distinguersi come, ad esempio, le stoffe pregiate e i profumi preziosi), in modo che, sul palcoscenico della vita, ognuno possa mostrare tutti quei beni materiali di cui dispone, appagando il proprio orgoglio.
L'orgoglio quindi, promuovendo il circolo vizioso fatto di vanità da appagare e lusso da ricercare, si configura come il motore del commercio e, al tempo stesso, come la passione che maggiormente incoraggia il vizio, causa primaria della ricchezza dello Stato. Come evidenzia Pulcini:
«É dunque la passione dell'Io, sono la preferenza per sé e l'ansia di affermare la propria superiorità sugli altri che, innescando la dinamica competitiva, alimentano la passione acquisitiva, il desiderio di migliorare la propria condizione, promuovendo il benessere della nazione».39
Le passioni, croce e delizia del genere umano, sono celate dall'uomo, poiché minacciano la coesione sociale dal punto di vista etico ma, dal punto di vista economico, sono determinanti per il progresso e la ricchezza di uno Stato. La società civile descritta da Mandeville assume le sembianze di una commedia (o, più pessimisticamente, di una farsa), poiché condanna pubblicamente ciò che, in realtà, è alla base del suo benessere.

4.Il ruolo degli interessi privati fra mercantilismo e liberismo: un breve confronto fra Mandeville e Smith

L'idea che l'interesse personale contribuisca al benessere della nazione, fa di Mandeville un precursore del liberalismo; più propriamente, però, la sua teoria politico-economica rientra nell'alveo del mercantilismo, scuola di pensiero secondo cui lo Stato dovrebbe intervenire direttamente nelle questioni economiche incentivando all'interno le attività commerciali e le esportazioni, e limitando le importazioni. 
Nel liberismo invece, inaugurato da Smith, il ruolo dello Stato viene notevolmente ridimensionato rispetto a quanto avviene nel mercantilismo: Smith infatti sostenne che l'interesse individuale fosse in grado di produrre ordine e ricchezza in maniera spontanea, come guidato da una “mano invisibile”. Il bene comune quindi si realizza non grazie a politiche ben pianificate, ma attraverso l'insieme delle azioni compiute da tutti i cittadini per ottenere dei vantaggi individuali.
Sia Mandeville che Smith ritengono che si crei un meccanismo spontaneo in grado di promuovere la ricchezza della società quando ciascuno persegue i propri fini. Il risultato non intenzionale delle azioni individuali (che sono i vizi per Mandeville e gli interessi per Smith), dà luogo ad effetti che la razionalità umana, non riuscirebbe a prevedere. 
Smith giustifica la sua posizione sostenendo che chi vende la merce lo fa non per benevolenza, ma per interesse; diversa invece è la posizione di Mandeville, espressa nella Nota L:

«Ogni governo dovrebbe profondamente conoscere e costantemente perseguire l'interesse del paese. I buoni politici, con accorta amministrazione, imponendo pesanti gravami su alcune merci o proibendole completamente, abbassando i dazi su altre, possono sempre orientare e correggere l'andamento del commercio.»40

Seppur lontana dal liberalismo economico, la posizione di Mandeville mostra che pur perseguendo il proprio interesse personale ciascuno contribuisce ad accrescere il benessere della società, ed in questo senso egli può essere considerato un precursore di Smith, da cui però è molto distante per aver attribuito allo Stato un ruolo fondamentale nella regolamentazione di questioni economiche. 

Bibliografia

Magri, T., (ed.), Mandeville, B., La favola delle api, Roma-Bari 1987

Sini C.,(ed.), Mandeville, B., La favola delle api. Vizi privati e pubbliche virtù, Milano 2011

Pulcini, E., L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino 2001

1Cfr. F.A. Hayek, Dr,B. Mandeville, in Id., New studies in philosophy, politics, economics and the story of ideas, London 1976, pp.249-266.
2L'espressione eterogenesi dei fini, in tedesco Heterogonie der Zwecke, fu coniata dal filosofo e psicologo empirico Wilhelm Wundt per indicare un insieme di conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali. Il concetto di'"eterogenesi dei fini" fu teorizzato per la prima volta da Giambattista Vico, secondo cui la storia umana contiene in sé potenzialmente la realizzazione di certe finalità. In questo senso dunque ben si comprende che il percorso evolutivo dell'uomo è mirato al raggiungimento, tappa dopo tappa, di un qualche fine. Tale percorso non è però da intendersi come lineare: può accadere infatti che, malgrado i singoli agiscano in vista di alti e nobili obiettivi, la storia arrivi a conclusioni opposte.« Pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni [...] ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti.» Talvolta infatti l'umanità corre il rischio del "ricorso", ossia rischia di tornare indietro nel prestabilito percorso di auto-miglioramento a causa di errori di natura sociale e/o politica (come l'inaridimento del sapere e la perdita di memoria storica). Ma il "ricorso" è soltanto temporaneo, perché con forza, coraggio, fatica e sofferenza ogni volta l'umanità riesce a riprendere il suo cammino progressivo: cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Eterogenesi_dei_fini 
3Cfr. T.Magri (ed.), B. Mandeville, La Favola delle api, Roma-Bari 1987, p. 25. 
4Cfr. B.Mandeville, L'alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, in T. Magri (ed.),B.Mandeville, La Favola delle api, op. cit., p. 11. Cfr. inoltreT. Magri (ed.),B.Mandeville, La Favola delle api, op. cit., p. 10.
6Cfr. B.Mandeville, L'alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, op. cit., p.11
7Cfr. B.Mandeville, ibidem, p.12
8Cfr. B.Mandeville, ibidem, pp. 12-13.
9Cfr. C. Sini (ed.), B. Mandeville, La favola delle api, Milano 2011, pp. 92,93
10Cfr. B.Mandeville, Indagine sulla natura della società, in T. Magri (ed.), Mandeville, B., La favola delle api, op. cit., p.m258. Ciò che Mandeville afferma è sorprendentemente affine a fatti odierni: leggendo queste righe infatti non si può non pensare alla conversazione tra gli imprenditori Francesco De Vito Piscicelli e suo cognato Gagliardi dopo il terremoto dell'Aquila. Cfr. quanto riportahttp://www.corriere.it/cronache/10_febbraio_12/telefonata-intercettazione_199a11e0-17ee-11df-b8a8-00144f02aabe.shtml: PISCICELLI: si 
GAGLIARDI:...oh ma alla Ferratella occupati di sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito...non è che c'è un terremoto al giorno 
P:..no...lo so (ride) 
G:...così per dire per carità...poveracci 
P:..va buò ciao 
G:...o no? 
P:...eh certo...io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro il letto 
G:...io pure...va buò...ciao.
11Cfr. B.Mandeville, L'alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, op. cit., pp. 16- 17.
12Cfr. B.Mandeville, ibidem, pp. 21-23.
13Cfr. B.Mandeville, L'alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, op. cit., p. 24.
14Cfr. B.Mandeville, La favola delle api, op. cit., p. 7. 
15Mandeville definisce vizio «tutto ciò che l'uomo fa per soddisfare un suo appetito, senza considerazione per la società»: cfr. Id., Indagine sull'origine della virtù moraleop. cit., p.31.
16Cfr. B. Mandeville, ibidem, p. 31, in cui Mandeville definisce virtù ogni atto con cui l'uomo, andando contro l'impulso di natura, ricerca il vantaggio altrui domando le proprie passioni per un'ambizione razionale di essere buono.
17Cfr. B. Mandeville, Indagine sull'origine della virtù morale, in C. Sini (ed.), B. Mandeville, La favola delle api, op. cit., p. 5.
18Cfr. ibidem, p. 26. 
19Cfr.ibidem, p. 28.
20Cfr. B.Mandeville, ibidem, pp. 28-29. 
21Le passioni di cui parla Mandeville hanno carattere egoistico e irrazionale, in quanto egli sostiene che l'uomo sia          governato ora dall'una ora dall'altra passione, senza che la ragione possa controllarle; questa visione antropologica è stata  definita antirazionalismo mandevilliano.
22Mandeville critica apertamente la visione di Lord Shaftesbury nell'Indagine sulla natura della socialità: cfr. B.Mandeville, Indagine sulla natura della socialità, in T. Magri, B. Mandeville, La favola delle api,op. cit., p. 229: «egli [scil;Shaftesbury]infatti crede che gli uomini possono essere virtuosi senza alcuna pena o violenza su se stessi».
23Cfr. B.Mandeville, ibidem, p. 229.
24Cfr. B.Mandeville, ibidem, pp. 234-235. 
25Cfr. B.Mandeville, ibidem, pp. 242-243.
26Cfr. B.Mandeville, ibidem, p. 243-245.
27Cfr. B.Mandeville, ibidem, p. 245.
28Cfr. ibidem, p. 245.
29Cfr. ibidem, p. 247.
30Cfr. B. Mandeville, Indagine sulla natura della società, op. cit., p. 248.
31Cfr. E. Pulcini, L'individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino 2001.
32Cfr. E. Pulcini, L'individuo senza passioni, op. cit., pp.10-12. 
33Cfr. ibidem, p. 68. 
34Cfr. B. Mandeville, La favola delle api, op. cit., p. 68.
35Cfr. B. Mandeville, Nota N, op. cit., p. 116.
36Cfr. ibidem, p. 123.
37Cfr. B. Mandeville, Indagine sull'origine della virtù morale, op. cit., p. 37. 
38Cfr. E. Pulcini, L'individuo senza passioni, op. cit., p. 69.
39Cfr. ibidem, p. 72.
40Cfr. B. Mandeville. La favola delle api. op. cit., p. 97.

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